Luci ed ombre nella Valle del Bitto di Albaredo
ESCURSIONI IN COMUNE DI ALBAREDO
Un sentiero, un mistero, anzi, molti misteri, molti fatti arcani. In valle del Bitto di Albaredo (albarée), nei luoghi la cui fama era legata, in passato, ai commerci plurisecolari fra Valtellina e Repubblica di Venezia, ed è ora legata alla produzione del più rinomato e pregiato formaggio valtellinse, il Bitto, proprio qui troviamo un cuore oscuro, due valli strette, incassate, profonde e tenebrose, le valli di Lago e di Pedéna. In alto, questa seconda valle si eleva, luminosa, fino al passo omonimo, che congiunge la valle di Albaredo con la val Budria (ramo occidentale della valle di Tartano).
Apri qui una fotomappa del territorio di Albaredo
Ma più in basso il suo carattere cambia. La fosca suggestione
dei luoghi ha generato una leggenda, che da tempo immemorabile si racconta
in questa valle. Protagonista è un pastore, tal Dario Perlina
di Talamona, detto Sassello, giovane sicuro e baldanzoso. Lasciò,
una notte di fine estate, Albaredo, per ritirare una forma di Bitto
alla Casera di Pedena. Il campanile aveva appena battuto i due rintocchi.
La notte era nel suo cuore più profondo. Saliva lungo la via
Priula, e giunse alla sinistra val Viaga, infestata da streghe
che si divertivano a terrorizzare, con le loro grida impressionanti,
i viandanti. Qui è posta una cappelletta, appena prima di un
masso che incombe sul sentiero: si dice che colui che non rivolge una
preghiera alla Madonna, muore in modo orribile, schiacciato dal quel masso che, posto lì
dalle streghe, si stacca, precipita sul suo capo per poi tornare al
suo posto. Il Sassello, che era sì baldanzoso, ma non imprudente
e, men che meno, impudente, si fermò e pregò la Regina
dei Cieli. Passò, quindi, oltre, ed
il masso non si mosse. Solo, si udivano provenire dal bosco suoni inquietanti,
quasi risate agghiaccianti, che parevano dire: non pensare di averla
scampata! Affrettò il passo, dunque, e raggiunse la chiesetta
della Madonna delle Grazie, dove sostò per lasciare un'offerta
nell'apposita bussola.
Mentre frugava nelle tasche per cercare la moneta, gli cadde l'occhio
sulla profonda ed oscura forra che precipita nel torrente Bitto,
e rimase impietrito: una luce azzurrognola, anzi, una sfera di luce
azzurrognola se ne stava là, sospesa sull'abisso oscuro. Mentre
faceva gli occhi piccoli per cercare di capire di che cosa si trattasse,
il suono della campanella, che squarciò, improvviso, il silenzio,
lo fece balzare indietro per lo spavento. Non c'era nessuno lì,
nessuno nella chiesetta. Eppure la campana diede diversi rintocchi,
prima che la sua voce morisse nel buio di quella notte senza stelle.
Il Sassello tratteneva il fiato, incapace di muoversi. Stava da qualche
istante così, quando un nuovo evento prodigioso si manifestò
ai suoi occhi: la sfera di luce divise in un gran numero di fiammelle,
che salivano, ora, dalla forra verso la chiesetta.
Si scosse, allora, decise di scapparsene via, ma, non appena volse le
spalle alla forra, si trovò davanti una figura che sembrava sbucata
fuori dal nulla. Una figura di sacerdote, molto vecchio e stanco, con
un Messale in mano. Prima che potesse riaversi da quest'ultima sorpresa,
il sacerdote, con una voce calma, profonda, gentile, gli chiese di aiutarlo
a servire Messa. La porta della chiesetta era aperta, le candele accese.
Le fiammelle erano ormai al sagrato della chiesetta. Il Sassello sentì
un'istintiva fiducia in quel prete canuto, lo seguì nella sagrestia,
lo aiutò a rivestire i paramenti sacri e, quando questi uscì
all'altare, lo accompagnò come i chierichetti fanno all'inizio
della Messa. Ma a sorpresa si aggiungeva sorpresa, a prodigio prodigio:
era bastato quel poco tempo trascorso in sagrestia, perché la
chiesa si riempisse di gente. Gente pallida, mesta, di ogni età,
condizione ed aspetto: c'era il pastore e c'era il signore, c'era la
nobildonna e c'era l'umile lavandaia.
Non erano vivi, quelli, era la Messa delle anime defunte, ora lo comprendeva.
Quanti e quali pensieri si affollarono nella sua mente durante la mesta
liturgia, neppure lui avrebbe saputo dirlo. E giunse anche il commiato:
"Ite, missa est". Fu percorso da un tremito, lo prese il timore
che quelle anime defunte, lasciando la chiesetta, se lo portassero via
con sé. Ma così non fu. Uscirono, composte e lente, le
anime. Stava per uscire anche il sacerdote, ma si fermò e lo
guardò. Nel suo sguardo c'era benevolenza e riconoscenza. "Quelle
che hai visto, se non l'hai capito da te stesso, non erano figure di
vivi, ma di morti, di anime che scontano la loro pena nel Purgatorio.
Una pena che ha termine solo con la celebrazione della Messa dei morti,
ma questa è possibile solo con la presenza di un vivo. Tu l'hai
resa possibile. Tu hai concesso loro la liberazione dalle pene. Per
questo le anime saliranno in Paradiso, e tu, come premio, sarai fra
loro". Questo gli disse, ed uscì anch'egli, lasciandolo
solo nella chiesetta, in compagnia di un interrogativo che non riusciva
a sciogliere: cosa volevano dire quelle parole?
Basta con i misteri, basta con le apparizioni, ne aveva avuto a sufficienza.
Di buona lena, riprese il cammino. Non vedeva l'ora di raggiungere
la casera di Pedena, per scoprire, magari, che tutto quanto gli era
successo era solo immaginazione. Scese al ponte Binnocchio, passò
oltre e raggiunse quello di Pedena. Per far prima, non passò
per quel ponte, ma prese a sinistra, alla curva di monte Scala, imboccando
un sentiero che corre nel cuore di un fitto bosco. Dopo pochi passi,
eccolo ad un ponticello di legno. Stava per passarlo, quando acadde
un nuovo prodigio. Una luce, rossastra, illuminava il sentiero. Una
figura prese corpo dentro quella luce, proprio nel mezzo del ponticello.
Una figura difficile da descrivere. Ad un primo sguardo la si sarebbe
potuta scambiare per un uomo nudo, basso, tarchiato. Ma poi, ad un esame
più attento, quella figura sembrava avere ben poco di umano.
Un viso gonfio, pieno di bitorzoli, con due grandi orecchie simili a
quelle di un maiale, due corna in cima alla fronte, due occhi che sembravano
tizzoni ardenti. I piedi, poi, erano deformati, sembravano zampe di
uno strano animale, un misto fra una capra ed un maiale. Ed un gran
puzzo di zolfo confermava che niente di umano stava di fronte al Sassello.
Lui non ebbe dubbi: questo è il diavolo! Si fece, prontamente,
il segno di croce. E la figura reagì subito, con una voce irata,
terribile: "Come osi! Non sai chi hai di fronte? Io solo il signore
di tutte le creature del bosco. E sono anche il tuo signore! Mi devi
prestare obbedienza e venerazione!"
"Non ci penso nemmeno!", fu la risposta pronta e ferma del
pastore. Uno che aveva servito la Messa dei morti, non poteva farsi
spaventare neanche dal diavolo in persona. Fu quello che pensò,
rispondendo senza paura a quell'essere mostruoso.
"Chi sei tu, che osi rispondere così al signore delle tenebre?"
replicò, gonfiandosi e sprizzando scintille, il diavolo. "Io
sono uno che se ne va con le anime salvate in Paradiso": fu questa
la risposta che gli venne. Non sapeva neanche lui perché, ma
gli erano rimaste scolpite nella testa le parole di quel vecchio prete,
ed adesso le aveva sulle labbra.
A quella risposta, Belzebù fu come colpito da uno schiaffo, si
gonfiò ancora di più, fece come se dovesse avventarsi
sul pastore, ma, con un
balzo, saltò giù dal ponte, sprofondando, con un grido
orribile, nella forra. La terra si aprì, lo inghiottì,
poi si richiuse. Si era fatto nuovamente silenzio. Un silenzio pesante
come le gambe del Sassello. Ne aveva viste troppe. Era stremato. Chiamò
a raccolta le ultime energie, varcò il ponticello e riprese a
salire nel bosco. Non sapeva neppure lui come, ma alla fine ne uscì,
alla casera di Pedena. Intanto qualche stella era apparsa in cielo,
ma era anche venuta l'ora in cui la luce delle stelle è coperta
da quella dell'alba. Bussò, con la poca forza che gli restava,
alla porta della casera. Vennero ad aprire i suoi amici, ma non lo accolsero
come si sarebbe aspettato. Non gi sorrisero, non lo salutarono. Rimasero
sulla porta, un po' interdetti. "Chi siete, buon uomo?", gli
chiesero.
Cosa accadeva? Era, questo, l'ultimo progigio? Non bastavano quelli
della notte? Ne doveva accadere uno anche all'alba?
Rimasero così, il Sassello ed i suoi amici, per diversi istanti,
e non avresti saputo dire chi era più stupito. Alla fine fu il
Sassello a rompere il silenzio: "Amici, chi volete che sia, sono
io". Lo riconobbero dalla voce. Era Dario. Ma non era più
lui. Non era più il Dario nel fiore della giovinezza, il loro
compagno di scherzi, avventure, camminate. Avevano di fronte un vecchio,
curvo e canuto. Se n'era reso conto il Sassello? Nessuno lo saprà
mai. Si racconta solo che chiese di entrare e di coricarsi, perché
non ce la faceva più. Non gli fecero alcuna domanda. Lo accompagnarono
al giaciglio e, per non disturbarlo, uscirono, per regolare le mucche.
Si addormentò subito, il Sassello, e nessuno seppe mai quali
furono gli ultimi suoi pensieri. Quando tornarono gli amici, era quasi
mezzogiorno, lo chiamarono, per farsi raccontare cosa gli era successo.
Invano. Il Sassello non si destò. Era andato in Paradiso, come
gli aveva predetto il vecchio prete. Questo era stato il suo premio
per aver servito la Messa dei morti ed aver resistito alle tentazioni
del demonio.
Da allora questo tragitto fu denominato “Sentiero dei Misteri”,
e si dice che, percorrendolo nelle notti di luna piena, si abbiano buone
probabilità (o si rischi molto, a seconda dei punti di vista)
di essere testimoni di eventi arcani, prodigiosi, terribili.
Scettici?
Beh, ciascuno prenda la leggenda come meglio gli aggrada. Quel che è
certo è che percorrere il sentiero è sicuramente un’esperienza
escursionistica interessante, anche se, prima di farlo di notte, è
assolutamente consigliabile memorizzare il percorso di giorno, perché
c’è qualche punto un po’ esposto e si attraversano
un paio di prati al limite dei quali non è facile ritrovare la
traccia, se manca la luce del giorno. Partiamo, allora, dalla piazza
S. Antonio di Morbegno e, seguendo le indicazioni per Albaredo-passo
di San Marco, raggiungiamo il bellissimo paesino che è cuore
della valle omonima (m. 898). Visitata la bella chiesa che è
guardata a vista da un leone (simbolo della potenza della Serenissima,
dal commercio con la quale la valle traeva ricchi vantaggi), incamminiamoci
sulla via Priula (la troviamo poco a destra del ristoro “Il cumpanadech”),
superando l’arcana val Viaga e la più aperta valle Fregera.
In corrispondenza del ristoro Via dei Monti, attraversiamo la strada
asfaltata che conduce al passo e, percorrendo una strada sterrata, raggiungiamo
l’oratorio della Madonna delle Grazie (m. 1157). Fin qui possiamo
giungere anche con l’automobile: poco più di quattro chilometri
oltre Albaredo troviamo, infatti, la deviazione a destra conduce al
parcheggio nei pressi dell’oratorio. Scendiamo, poi, seguendo
l’elegante tracciato della via cinquecentesca, fino ad un primo
ponte (il ponte Binnocchio), che attraversa il torrente della valle
Piazza, per poi raggiungere un secondo ponte, sopra il torrente della
valle di Lago.
Appena prima del ponte, sulla sinistra, parte il Sentiero dei Misteri,
segnalato da un cartello di colore blu. Il sentiero, in breve, raggiunge
un terzo ponte, che, dopo l’apparizione di cui narra la leggenda,
venne chiamato ponte del diavolo. Il ponte permette di attraversare
il torrente della valle di Lago, per poi risalire lo stretto crinale
di un dosso, che guarda, da entranbi i lati, su profonde forre. Dopo
una breve uscita dal bosco, presso la cascina Scala (che si può
raggiungere staccandosi, sulla sinistra, dal sentiero), il sentiero rientra
nell’atmosfera sospesa del bosco. Raggiunta una ripida ed ampia
radura, la si risale, per rientrare nel bosco alla sua sommità,
sul lato destro (un secondo cartello ci aiuta a ritrovare la traccia).
Dopo un’ulteriore traversata, che ci fa progressivamente avvicinare
al tracciato della strada asfaltata che corre più in alto, raggiungiamo
alcuni secchi tornantini e saliamo ad intercettarla, quasi inaspettatamente. Uno scenario ben diverso si apre, allora, ai nostri occhi: dall’arcano
regno delle ombrose (o tenebrose, di notte) fronte, eccoci consegnati
alla luminosa presenza della valle Pedena, coronata dall’ampia
e tranquilla sella del passo omonimo.
Se non vogliamo tornare per la medesima via di salita, possiamo percorrere
un elegante anello che ha il suo punto più alto nel passo di
san marco. Siamo a quota 1560, e dobbiamo incamminarci lungo la strada
che porta al passo. Dopo la casera di Pedena, si incontra quella d’Orta
(m. 1724). Sotto la casera si trova l’alpeggio omonimo, uno dei
più pregiati della valle. Dopo diversi chilometri, appare finalmente
il passo (m. 1992), facilmente individuabile per i tralicci che lo valicano.
Oltre il passo si può scorgere, tempo permettendo, uno spaccato
dell’alta val Brembana. Dalla leggenda alla storia: il ritorno
può avvenire su un tracciato di notevole rilievo storico, la
già citata via Priula, che abbiamo lasciamo appena prima dell’imbocco
del ponte sulla valle di Lago. Questa via cinquecentesca assicurava
i transiti commerciali da e per il territorio bergamasco, controllato
da Venezia. Il suo percorso scende, elegante, lungo il fianco occidentale
di un dosso, per poi valicarlo e, piegando leggermente a destra, raggiungere
l’alpe di Orta vaga. La discesa prosegue ed il sentiero, attraversato
il torrente della valle, entra nel bosco, con un tracciato che taglia
il lungo dosso della Motta.
Al termine del dosso si raggiunge il dosso Chierico (m. 1219), splendida
oasi di pace che improvvisamente precipita, con la più ripida
fra le forre del Bitto, nel cuore oscuro della valle.
Ma noi, seguendo il tranquillo sentiero (che si fa comoda carrozzabile),
scendiamo, in breve, al ponte della valle di Lago, per poi tornare,
con un ultimo sforzo in salita, all’oratorio della Madonna delle
Grazie, dopo circa 5 ore di cammino, con un dislivello di circa 950
metri. Se, invece, ci limitiamo a risalire il Sentiero deiMisteri,
per poi tornare per la medesima via, le ore si riducono a 3, ed il dislivello
è di circa 520 metri. Se, infine, vogliamo partecipare ad una
sorta di kermesse estiva che celebra la memoria di questi eventi prodigiosi,
potremo, con ampia compagnia e nella cornice di una suggestiva manifestazione,
salire sul far delle tenebre, per approdare ad un ristoro organizzato
alla casera di Pedena.
Parli del diavolo e spunta la coda, recita un vecchio modo di dire. Parafrasiamo: parli del diavolo e spuntano le streghe, le sue più fedeli servitrici. Ecco uno dei molti capitoli della plurisecolare lotta fra uomini
e streghe. La racconta Renzo Passerini, nel numero di luglio 1994 del
Gazetin.
La cornice è la val Viaga, un ripido vallone che, poco a monte
rispetto ad Albaredo, precipita, nell’ultimo tratto quasi verticalmente,
nelle oscure forre del Bitto. La via Priula la attraversa con un ponte,
e ad Albaredo si diceva che un masso fatto rotolare da qui sarebbe finito
nel Bitto, oltre 500 metri più in basso.
Ma la val Viaga non era famosa per questo, bensì per un diverso
e più inquietante motivo: da sempre, a memoria di contadino,
era infestata da streghe particolarmente bisbetiche e petulanti, che
traevano un particolare piacere a terrorizzare i viandanti, a combinare
scherzi che, possiamo ben immaginarlo, erano sempre di pessimo gusto;
ma non si limitavano a questo, poiché giungevano a minacciare
anche la salute delle bestie e l’abbondanza dei raccolti. Un vero
peso per la vita già faticosa dei poveri contadini, che ne avrebbero
fatto volentieri a meno.
Ecco che, nel 1721, un tal Togn (cioè Antonio) di Albaredo ebbe
la bella idea di far costruire, nei pressi del ponte sul canalone della
valle (il canàa de Viaga),una
cappelletta (gesöo, con voce dialettale) dedicata alla Madonna,
con l’intento di tener lontane le pestifere megere da quella via,
così importante per i contadini che dovevano salire ai monti,
così come ai mercanti, che passavano dalla valle di Bitto di
Albaredo alla bergamasca per il passo di San Marco.
Colse nel segno, e le maliarde accusarono il colpo: l’odore di
santità che promanava da quella sacra edicola le costringeva
a starsene alla larga. Ma non si diedero per vinte: meditavano un’atroce
vendetta, ed alla fine la loro mente contorta e perversa la partorì.
In una notte di sabba, oscura, tremenda, senza luna, con l’aiuto
del loro signore, il diavolo, posero un grande masso proprio sopra la
cappelletta, a strapiombo sulla mulattiera. Il masso era sì saldato
alla parete di roccia che fiancheggiava la mulattiera, ma il suo equilibrio
appariva quantomeno precario.
Il mattino successivo il primo contadino che passò di lì
rimase esterrefatto: quel masso strapiombante non prometteva proprio
nulla di buono, sembrava proprio lì lì per cadere sulla
mulattiera. Tornò, quindi, ad Albaredo per informare la gente
del paese, che accorse, curiosa, timorosa, interdetta.
Alla fine uno di coloro che erano saliti per vedere quell’inquietante
masso, un tipo cui non difettavano coraggio e spavalderia, tagliò
corto e se ne uscì con questa frase, con un tono che non lasciava
spazio a repliche: “Ma quale prodigio e prodigio! Comunque sia
arrivato fin qui, quel masso, non potrà certo saltar giù
dalla roccia. Di cosa dobbiamo aver paura? Voi fate come credete, ma
io certo non mi farò alcun problema a passare. Figuriamoci se
adesso dobbiamo star qui a tremare per un grosso sasso!”
Alle sue parole seguì qualcosa di davvero stupefacente: il masso,
come se fosse rimasto offeso da quella tracotanza, cominciò ad
oscillare. Tutti rimasero paralizzati dalla paura. Solo il più
audace, ormai troppo compromesso per tirarsi indietro senza perdere
la faccia, fece qualche passo avanti, come se volesse oltrepassare il
masso e proseguire sulla mulattiera. Appena questi giunse, però,
sulla verticale del masso, accadde qualcosa di ancor più incredibile
ed orribile: il masso si staccò dalla parete di roccia e gli
piombò addosso, schiacciandolo.
Con grida di raccapriccio i presenti si diedero alla fuga. Passarono
giorni prima che qualcuno osasse tornare sul luogo, e, cosa prodigiosa,
del malcapitato contadino, vittima del masso, non c’era traccia.
Il masso, dal canto suo, se ne stava esattamente là dove era
comparso, come se fosse tornato, non si sa come, al suo posto. I contadini,
però, lo sapevano bene come tutto ciò era potuto accadere:
c’erano dietro quelle disgraziate di streghe della val Viaga,
e magari la mano dello stesso demonio.
Era un gran bel guaio. Quella via era un passaggio obbligato per chi
doveva salire ai maggenghi di Egul (Egolo), Gradesc e Corte Grande (Curt
Granda), ed agli alpeggi di Baitridana e Piazza. Qualcuno, spinto dal
bisogno, tentò di farlo, ma ogni volta la cosa finì in
tragedia, perché il masso prese ad oscillare per poi precipitare
infallibilmente sul capo del disgraziato.
Come fare? Se la Madonna aveva fatto la prima grazia cacciando, dopo
la costruzione della cappelletta, le streghe della val Viaga, solo
lei poteva fare la seconda grazia, ponendo fine alla maledizione del
masso. Ma dove pregare per questa grazia, se non alla chiesetta della
Madonna delle Grazie, al dosso Chierico? Così pensò un
tal mandriano, che, armato di fede e determinazione, si recò
proprio là, ritirandosi in preghiera.
Quando uscì dalla chiesetta, sapeva cosa fare. Chiese ai contadini
di una baita vicina un pezzo di burro fresco (panèt), che immerse
nell’acqua benedetta della chiesetta, recitando un’Ave Maria.
Si incamminò, poi, alla volta del masso maledetto. Quando giunse
nei suoi pressi, si ripeté la solita scena sinistra, il masso
cominciò ad oscillare.
Il mandriano non si perse d’animo, e pose il burro proprio alla
sua base. E fu grazia per la seconda volta: il masso si fermò,
d’improvviso, e non fu mai più visto oscillare. Il burro
si era fatto roccia, lo aveva rinserrato definitivamente al corpo della
roccia della montagna. La maledizione era terminata.
Da
allora chiunque passi di qui recita un’Ave Maria, che è
insieme un ringraziamento ed una richiesta di protezione, un’Ave
Maria perché il masso non venga più via. Possiamo andarlo
a vedere anche noi: dalla piazza di Albaredo percorriamo la via San
Marco, fino ad intercettare la provinciale per il passo di San Marco.
Pochi metri oltre, vedremo, sulla sinistra, la partenza della via Priula
(in questo tratto denominata “grisciùn”). Dopo aver
intercettato una pista più a monte, proseguiamo verso destra,
ed in breve eccoci alla cappelletta ed al masso che incombe sulla via.
È ancora lì. Ben saldato alla roccia.
E le streghe della val Viaga? Non hanno più dato segno di vita.
Che stiano meditando una nuova controffensiva?
Nell'attesa di una risposta a questo inquietante interrogativo, raccontiamo la storia di una figura che, ad un primo e superficiale sguardo, potrebbe essere confusa con quella della strega, ma che si rivela, ad un esame più attento, personaggio diverso, la "végia gòsa".
Se gloria
della Valle del Bitto di Gerola è l’homo salvadego, rappresentato
nella “camera picta” di Sacco, figura che esprime il mito
di un’umanità originaria, che viveva in armonia con la
natura e non sentiva ancora la necessità di consorziarsi in comunità
e città, aA questa gloria risponde la valle gemella, cioè la Valle del
Bitto di Albaredo, con il corrispondente femminile, vale a dire la “végia
gòsa”, una vecchia con il gozzo, che viveva nei boschi, allo stato
selvaggio, e compariva, di quando in quando, suscitando curiosità
o paura a seconda delle versioni che la segnalavano in questo o quel
luogo della valle.
Preannunciata da un roco ansimare, legato all’età avanzata,
sbucava, imprevedibile, sul limite dei boschi, affacciandosi sui pascoli
e mostrando la sua figura trasandata. Come l’homo salvadego, aveva
una presenza insieme imponente e orrida: alta un metro ed ottanta circa,
era ricoperta di una fitta peluria e da pochi stracci, rinforzati, d’inverno,
con erba secca.
Viveva di quanto la natura offre spontaneamente, soprattutto di frutti
di bosco, e, per sua natura, non recava danno ad alcuno. Nondimeno,
era temuta, vuoi per il suo aspetto, vuoi perché, si diceva,
aveva l’inquietante abitudine di accompagnarsi ad altre figure
femminili tutt’altro che innocue, le streghe.
Quali streghe? Quella della val Viaga, che abbiamo già imparato a conoscere. I genitori ammonivano
i bambini ad attraversarla in fretta, senza fermarsi, perché
in caso contrario la végia gòsa, insieme con le sue compagne streghe,
se li sarebbero portati via. Sulla via Priula, in corrispondenza del
ponte della valle, vi è anche, come sappiamo, una cappelletta, di fronte alla
quale i viandanti dovevano sostare per ottenere, con la preghiera, la
protezione contro le forze del male.
Le streghe, e con loro la végia gòsa, se ne stavano sempre a spiare,
pronte a scagliare, con orribili strepiti, la loro maledizione su coloro
che passavano oltre senza fermarsi a pregare. Ma poteva capitare anche
di peggio, perché lo spuntone di roccia detto “corna”,
che incombe sulla cappelletta, era stato fissato, dalle streghe, al
fianco del monte con del semplice burro, perché potesse con tutta
facilità essere fatto rotolare sui viandanti che non si raccomandavano
alla Madonna ed ai Santi.
In
definitiva, la figura della végia gòsa ha subito una sorta di diffamazione,
finendo per essere assimilata a quella delle perfide streghe. Responsabili,
i molti genitori che hanno trovato comodo prospettare ai bambini disobbedienti
la sua presunta minaccia: “se non obbedisci, viene la végia gòsa
e ti porta via”…
In realtà la solitaria vecchia si aggira ancora per i boschi,
schiva e desiderosa solo di essere lasciata in pace: per lei vale quanto
l’homo salvadego dice a tutti coloro che ne visitano l’immagine
nella camera picta: faccio paura solo a chi mi offende, cioè
a chi non rispetta la mia natura, che è singolare, sì,
ma non malvagia.
Un'altra incarnazione, sempre al femminile, delle paure ancestrali è,
in Valle di Albaredo, la "sciura di ciuning", cioè la
signora dei maialini che, si racconta, abitava all'alpeggio Corticelle
(Curtesell) e se ne andava in giro con 5 o 6 maialini. Quando sorprendeva
qualche bambino da solo, se lo portava via e lo dava in pasto ai suoi
maialini. Questa storia contribuiva, qualora non fossero bastate quelle
legate alla végia gòsa, a dissuadere i bambini dall'avventurarsi da
soli nei boschi.
Chiudiamo questa carrellata di storie legate alla Valle del Bitto di Albaredo con un vertiginoso salto a ritroso nel tempo, o meglio, raccontando una storia che riannoda, in modo arcano (ma, abbiamo visto, questa valle è davvero la valle dell'arcano) il presente alle ombre di un passato remotissimo, eppure in qualche modo ancora vivo.
Lo scenario di questa storia è l’alpe Piazza, uno dei più pregiati e suggestivi
alpeggi nei quali si produce, in Valle di Albaredo, il famoso formaggio
Bitto, cui è legata buona parte della fama della valle. Si tratta
di un’ampia distesa di prati, a settentrione del monte Lago, collocata
ad una quota compresa fra i 1850 ed i 2000 metri circa. Una visita a
questi luoghi, aperti e solari, non farebbe sospettare che proprio qui
il mistero dell’intreccio fra presente e passato mostra uno dei
suoi aspetti più inquietanti, il ritorno periodico, dal mondo
delle ombre, di realtà consegnate ad un passato antichissimo.
Queste zone, infatti, hanno conosciuto insediamenti umani che risalgono
ad epoche preistoriche, com’è testimoniato dal ritrovamento,
proprio nel cuore dell’alpe, nell’ampia piana solcata da
diversi torrentelli, poco sopra il rifugio Alpe Piazza, di massi che
mostrano incisioni preistoriche, le caratteristiche coppelle. Sulla
funzione di queste cavità, diverse sono le ipotesi. La più
accreditata le collega ai riti delle comunità preistoriche di
cacciatori: probabilmente esse raccoglievano acqua, oppure sangue di
animali sacrificati, o, ancora, il loro grasso, che, bruciando, illuminava
i luoghi del sacrificio rituale. Tutto ciò appartiene al passato,
ma qualche volta il passato sembra intersecarsi con il presente, per
un arcano mistero consegnato all’enigma del tempo.
Una leggenda sembra attestare tutto ciò. Si racconta che ogni
venti anni una notte di plenilunio nel cuore d’agosto diventi
teatro del ritorno di antichissimi riti e cacce. Un pastore, per primo,
narrò il misterioso evento, di cui fu testimone quando, giunto
il suo turno, dovette vegliare, per un’intera notte, la mandria.Nulla
di strano, fin qui: a turno tutti i pastori dovevano trascorrere la
nottata accanto ai capi di bestiame. Ma quella notte, illuminata dalla
luna piena, fu diversa da tutte le altre. Proprio mentre stava cercando
di dare una direzione ai propri pensieri, per evitare che il sonno avesse
il sopravvento, egli udì, dapprima, rumori inconsueti, vide,
poi, qualcosa che non seppe ben distinguere: venivano, nella sua direzione,
delle fiammelle, di cui non riusciva a riconoscere la natura.
Tese le orecchie, sgranò gli occhi: non stava sognando, le fiammelle
si avvicinavano, il rumore si faceva più forte, un rumore di
zoccoli che battevano il suolo dell’alpe. Intravide, poi, nella
luce incerta della luna, camosci che correvano in direzione della mandria,
e, dietro di loro, le fiammelle, che parevano inseguirli. Non stava
vaneggiando: anche le mucche si erano accorte di quanto accadeva, avevano
cominciato a muggire, inquiete, e, al sopraggiungere dei camosci, si
erano disperse in tutte le direzioni, fuggendo impaurite. I camosci
attraversarono la piana e si persero oltre, confondendosi con il fianco
del versante montuoso.
Il pastore non ebbe modo di scorgere qualcosa di più preciso,
perché il cielo, con rapidità che non aveva nulla di naturale,
si rabbuiò, densi nuvolosi oscurarono la luna, lampi minacciosi
cominciarono a solcare il cielo e fragorosi tuoni sembrarono squassare
l’alpe ed i monti circostanti. Egli corse, allora, in direzione
del bait che ospitava i suoi compagni, dormienti: era terrorizzato e
raccontò, come gli riusciva, nella concitazione di quel frangente,
quanto era accaduto. Incalzato dalle domande, non seppe però
dire cosa fossero quelle fiammelle. Possiamo
immaginare che si trattasse dei fuochi che illuminavano la caccia delle
ombre emerse dal più antico passato. Forse. L’unica cosa
certa è che il pastore, da allora, non volle più vegliare
di notte.
Questo è quanto raccontano, e riporta Patrizio Del Nero nel suo
bel libro “Albaredo e la Via di San Marco – Storia una comunità
alpina”, edito, nel 2001, da Editour - Consorzio Turistico Valli
Orobiche.
Ben difficilmente avremo la possibilità di assistere in prima
persona al rinnovarsi dell’antichissima caccia, ma ciò
non toglie che una visita all’alpe rappresenta un’eccellente
opportunità per effettuare una bella passeggiata, che può
diventare anche escursione o salita con la mountain-bike.
Partendo dalla piazza S. Antonio di Morbegno, imbocchiamo la strada
provinciale per Albaredo e San Marco (molto frequentata anche dagli
amanti del ciclismo, perché consente di raggiungere il passo
con una salita classica e di grande fascino), che ci porta, dopo 11
km, ad Albaredo (m. 910), che porta ancora i segni degli smottamenti
alluvionali del novembre 2002, anche se i lavori di canalizzazione delle
rogge sui ripidi prati che sovrastano il paese garantiscono una maggiore
sicurezza al tracciato stradale ed all'abitato.
Una breve visita al paese consente di coglierne l’importanza storica
ed i legami con la Repubblica di Venezia. Questa entra in scena nella
prima metà del 1400, dopo che da diversi decenni (e precisamente
dal 1338) della Valtellina si erano impossessati i Visconti di Milano.
Il tentativo di conquista, operato dalla Serenissima, fu sventato dai
Visconti nel 1432, con la battaglia di Delebio, ma ciò non impedì
che la Repubblica assumesse, nei decenni successivi, un’influenza
commerciale sempre crescente, dal momento che i suoi possessi comprendevano
Bergamo ed il versante orobico bergamasco. Quando,
nel 1512, ai duchi di Milano, gli Sforza, subentrarono nel dominio della
Valtellina i Grigioni, questi scelsero una politica di intesa con Venezia,
in nome di comuni interessi commerciali. Ciò indusse il podestà
di Bergamo, Alvise Priuli, a promuovere, nel 1590, la costruzione della
celebre strada che, da lui, prese il nome di via
Priula, e che, valicando il passo di San Marco, scende fino a Morbegno,
congiungendo la Val Brembana alla Valtellina sull’asse commerciale
Pianura Padana – mondo germanico. Queste brevi note storiche permettono
di comprendere i numerosi riferimenti alla Repubblica di San Marco che
troviamo non solo nella toponomastica di Albaredo, ma anche nei murales
su alcune case del paese.
Dopo questa immersione nel glorioso passato del paese, proseguiamo sulla
strada per San Marco. Troveremo una prima deviazione a destra, che conduce
alla chiesetta della madonna delle Grazie, al sentiero dei Misteri,
al dosso Chierico ed alla via Priula. Ignoriamola e proseguiamo fino
ad una seconda deviazione, a sinistra, in corrispondenza di un cartello
che annuncia che mancano ancora 3 km al rifugio Alpe Lago. Qui di cartelli,
per la verità, ce ne sono diversi, e ci segnalano che la stradina
asfaltata ci porta verso il rifugio Alpe Piazza, il bivacco Legüi,
la quota 2000 ed il monte Lago. La stradina diventa poi pista in terra
battuta, e termina alle soglie dell’alpe Baitridana, al di sopra
dei 1700, non lontano dal rifugio.
Chi ama camminare può sfruttare, però, la bella mulattiera
che, a 1380 metri circa, si stacca, sulla destra, dalla stradina e sale
alle baite di Scöccia e della Corte Grassa (m. 1614). Si tratta
di radure estremamente panoramiche, per cui non potremo resistere alla
tentazione di gettare un ampio sguardo sul versante occidentale della Val Gerola, sulla costiera dei Cech, sulla bassa Valtellina e sulla
piana di Novate Mezzola. Ci
attende ora una breve salita ed un tratto quasi pianeggiante verso destra,
prima di uscire di nuovo, alla sommità dei bei prati di Cornelli,
o Baitridana (m. 1739). Ignorate le deviazioni, sulla sinistra, per
Egolo e Pozza Rossa, proseguiamo fino ad un ultimo boschetto, dal quale
usciamo proprio nei pressi del rifugio
Alpe Piazza (m. 1835), aperto anche d'inverno.
Seguiamo, ora, il sentiero che, attraversato un torrentello, ci porta
alla grande baita Tachér, a quota 1923, affiancata dal piccolo
bivacco Legüi. Il sentiero lascia a sinistra il pianoro dell’alpe,
teatro delle misteriose apparizioni notturne che si ripetono a candela
ventennale. Il bivacco può essere la meta conclusiva dell’escursione,
che, tuttavia, può proseguire alla volta della facile cima del
monte Lago.
Proseguiamo, allora, verso sud-ovest, intercettando una traccia di sentiero
che proviene dalla baita dell'alpe, risalendo un facile dosso e raggiungendo
una caratteristica conca, adagiata sotto il fianco settentrionale del
monte Lago. Già, il monte Lago: ma come lo si riconosce? Non
c'è problema: la sua piramide arrotondata ed armoniosa si impone
allo sguardo, verso sud-est, fin da quando raggiungiamo la Corte Grassa,
e rimane lì, davanti a noi, per nulla minaccioso, ma quasi invitante,
con il suo crinale occidentale che solo nell'ultimissimo tratto si fa
un tantino più ripido.
Un sentierino, con traccia sempre abbastanza visibile, lo percorre fino
alla cima, sormontata dalla visibile croce (m. 2353), dalla quale il
panorama, da ampio che era nell'alpe sottostante, si fa grandioso. Il
monte, infatti, pur non essendo molto alto, è uno dei più
panoramici delle Orobie occidentali, non avendo vicino a sé altre
o costiere che sbarrino lo sguardo. Potremo così godere di un
ottimo colpo d'occhio sulla catena orobica, sul gruppo del Masino-Bregaglia,
sul monte Disgrazia e sul versante orientale delle Alpi Lepontine. La
discesa avviene per la medesima via di salita.
Un
itinerario da consigliare, dunque, a chi desidera un incontro ravvicinato
con le bellezze della montagna senza assumersi inutili rischi. Non si
tratta di un itinerario eccessivamente faticoso: la salita comporta
970 metri circa di dislivello, superabili in circa due ore e mezza a
piedi. La presenza del rifugio Alpe Piazza, posto, più o meno,
a metà strada, permette, inoltre, di spezzare in due lo sforzo.
Il rifugio può essere, però, anche punto di partenza di
una più facile camminata, che ha come meta la pozza Rossa, un
piccolo specchio d’acqua collocato in un’amena radura sul
crinale che separa la valle dalla bassa Valtellina, e precisamente dal
versante montuoso sopra Talamona. Per salire alla pozza basta tornare
indietro, verso Baitrida, fino al bivio segnalato, imboccando, quindi,
il sentierino che si stacca sulla destra da quello principale. All’inizio
la traccia è incerta, e bisogna stare attenti, ad una specie
di bivio, a prendere a sinistra. Poi si trova una traccia più
marcata, che conduce al crinale ed alla radura, che ospita anche un’area
di sosta attrezzata. Nei pressi della pozza c’è anche la
poco pronunciata cima del monte
Baitridana (m. 1881), nel cuore di una bellissima pineta. L’incantevole
bellezza dei luoghi ne fa un punto di sosta ideale per chi ama atmosfere
tranquille e riposanti.
Interessanti notizie su storia, tradizioni e leggende della Valle del
Bitto di Albaredo si possono leggere nel bel volume di Patrizio Del
Nero intitolato "Albaredo e la Via di San Marco - Storia di una
comunità alpina", edito nel 2001 da Editour - Consorzio
Turistico Valli Orobiche.
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