Tutte le leggende hanno qualcosa da insegnare. Il lettore decida da sé quale sia l’insegnamento che da questa si debba trarre.
Molto, molto tempo fa viveva a Primolo (prémul), il grazioso paesino sopra Chiesa in Valmalenco, un’incantevole fanciulla, Alina, che aveva rubato il cuore di due fratelli, pastori. Alina aveva deciso di corrispondere all’amore di uno dei due, ma non sapeva decidersi su chi dovesse essere. Belli, erano belli tutti e due, con tanto di riccioli biondi e di occhi che parevano riflettere il cielo nelle chiare giornate di primo autunno. Onesti e sinceri, lo erano altrettanto, ed in egual misura: sull’amore e sulla fedeltà di entrambi avrebbe potuto mettere una mano sul fuoco. Ambedue, poi, erano buoni lavoratori, e con fatica indefessa avevano saputo costruirsi una condizione non agiata, ma tranquilla. Nessuno dei due era mai mancato ad una Messa comandata, ed il timor di Dio non faceva certo loro difetto. Tutti e due erano persone di compagnia, con le quali non patisci la malinconia, perché sanno sempre come tener alto l’umore. Quanto alla famiglia, infine, non c'era di che scegliere: padre e madre erano gli stessi.
Bene, la scelta non era facile, ma alla fin fine, penserà il lettore, questa Alina si sarà pur decisa, anche perché se tutte le persone, prima di sposarsi, dovessero stare a soppesare questo e quello, chi si deciderebbe mai a farlo? E invece no, Alina era piuttosto testarda, e non voleva maritarsi così, a caso. Aggiungiamo che era anche capricciosa non poco, e fu proprio un capriccio quel che diede origine alle vicende che ora raccontiamo.
La fanciulla si mise in testa che, se in tutto il resto erano pari, sicuramente c’era una qualità che avrebbe fatto la differenza, il coraggio. Ecco quel che ci voleva: una bella prova di coraggio, che si sarebbe conclusa con un vincitore ed uno sconfitto. Ma quale? Non una prova banale, ma davvero seria. Una prova da far spavento solo a pensarci. Se la volevano, pensò la ragazza, avrebbero dovuto conquistarla anche a costo di mettere in gioco la propria vita.
Ecco allora quel che le venne in mente: i due pretendenti avrebbero dovuto cimentarsi scalando un’alta ed impervia parete di rocce strapiombanti e ghiaccio, lassù, oltre i pascoli degli alpeggi più alti, nel selvaggio e pauroso vallone di Sassersa. Lei l’aveva tante volte osservata, quella parete, quando saliva su, lungo il vallone di Sassersa, a monte dell’alpe Pradaccio, fino alla sua parte terminale, dove si apre il circo delle aspre cime di quella valle che sembrava dimenticata da Dio e dagli uomini, luogo, forse, di espiazione per infelici anime purganti. Ecco, il capriccio si era fatto strada nella sua mente e l’aveva, infine, avuta vinta.
Fu la voce del capriccio a chiamare i due fratelli, proponendo loro quella terribile prova, e promettendo la mano a chi per primo avesse raggiunto la sommità della parete. Era tanto l’amore nel cuore dei due, che nessuno obiettò. Si prepararono entrambi, entrambi salutarono i genitori che li scongiuravano di desistere ed insieme si misero, sul far dell’alba di un bel giorno di tarda primavera, in cammino da Primolo verso l’alpe Pradaccio, per poi proseguire nella salita del vallone di Sassersa. Li vide partire Alina, che neppure si premurò di seguirli, convinta com’era che, nella loro cristallina onestà, non le avrebbero mai mentito sull’esito della sfida. Rimase, compiaciuta, ad attendere il ritorno del vincitore e dello sconfitto, ed il compiacimento si alimentava anche della curiosità, tutta femminile, che di lì a poco sarebbe stata appagata. Sarebbero tornati la sera stessa, il giorno dopo, al massimo, pensava.
Ma così non fu. Passò un giorno, e due, e tre, senza che dei due si avesse più notizia. La preoccupazione prima, la paura poi, lo sgomento, infine, presero il posto della compiaciuta curiosità nel cuore della giovane, che alla fine si decise a mettersi in cammino per cercare i due pastori. Salì fino alla soglia del vallone di Sassersa, ancora ingombro di molta neve. Davanti a lei, la terribile parete. Dei due, nessuna traccia, se non le orme nella neve che si perdevano ai piedi della parete. Chiamò, gridò, invocò. Niente. Sul far della sera fu costretta a tornare a casa. Ma salì di nuovo in val Sassersa il giorno successivo, e quello successivo ancora, senza miglior fortuna. Il terzo giorno si arrese alla terribile evidenza: la montagna aveva portato via con sé, per sempre, i suoi amati pastori. E allora capì quanto era stata sconsiderata la sua richiesta. Si addentrò, per un buon tratto, nel corrugato pianoro che si apre oltre la cima del vallone di Sassersa. Vagava nella speranza di poter scorgere almeno i corpi dei due.
Alla fine lo sconfortò la fermò. E pianse. Pianse per ore ed ore. Le sue lacrime sciolsero la neve formarono non uno, ma tre laghetti. I laghetti di Sassersa (laghèt de sasèrsa, o de sasàrsa), disposti l’uno vicino all’altro, a poca distanza, che ancora oggi si accendono di un blu intenso quando si imbevono della luce del cielo, come se in loro continuasse a vivere quella luce che si era spenta negli occhi dei due sventurati pastori.

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