Fra le paure popolari diffuse nella civiltà contadina un capitolo assai ampio è rappresentato da quelle riferite agli animali velenosi. Un pericolo peraltro straordinariamente amplificato rispetto alle dimensioni reali. Sappiamo oggi che la sola vipera, nelle montagne di Valtellina e Valchiavenna, rappresenta una minaccia seria: il suo veleno, per quanto in casi ben rari mortale, non è da sottovalutare. Ad essa veniva, però, affiancato un rettile del tutto innocuo, l’orbettino, chiamato così perché, a differenza dei serpenti, è dotato di palpebre che si possono richiudere sulla pupilla, e quindi può apparire, ad un’osservazione sommaria, cieco. Ebbene, si credeva che vipere ed orbettini fossero nemici insidiosissimi, per la potenza del loro veleno e per l’indole aggressiva (che, invece, non hanno). Per fortuna la provvidenza divina aveva privato la vipera del senso dell’udito e l’orbettino di quello della vista, impedendo loro di attaccare sistematicamente la specie umana. Di qui il proverbio “se l’ürbanèla la ghe vedès e la vipera la ghe sentès, tüta la gént la sa finirès”, cioè “se l’orbettino vedesse e la vipera sentisse, la specie umana sarebbe finita”. Oggi sappiamo che è bene che un’eventuale vipera nascosta in prossimità del nostro percorso senta il nostro approssimarsi, defilandosi per tempo senza essere costretta ad attaccare; si credeva in passato che le cose stessero a rovescio. Del resto è ancora frequente ascoltare persone di una certa età raccontare di vipere o serpi che inseguivano le persone che vi si imbattevano, e magari consigliare, di fronte ad una serpe, di fuggire sempre verso monte, mai verso valle, per evitare di essere raggiunti e morsi.
Anche le comuni bisce erano considerate velenose; ad esse erano associati i rospi, animali particolarmente demoniaci e legati alle pratiche della stregoneria. Un modo di dire assai eloquente e diffuso recita: “vià fö sciàt e bìs”, per dire “suscitare dissidi, contese, risentimenti”, cioè, appunto, avvelenare gli animi.
Ma la sorpresa più grande è rappresentata dalla presenza, in questa inquietante famiglia, di animali come la faina e la donnola. Quest’ultima, soprattutto, godeva di pessima fama, per la sua natura predatoria ed aggressiva. In effetti in questo caso le credenze erano supportate da dati di fatto incontrovertibili: la donnola, oltre che predare gli animali da cortile, giungeva anche ad attaccare animali di taglia ben maggiore, mordendo le zampe dei cavalli che passavano presso la sua tana o l’uomo stesso, se si sentiva minacciata. E quando mordeva, non si limitava a colpire per poi ritrarsi, ma teneva saldamente ficcati i suoi robusti canini nelle carni della vittima. Le sue unghie affilare erano un’ulteriore arma da non sottovalutare. A questi elementi oggettivi si aggiungevano convinzioni infondate: si credeva, infatti, che il morso della donnola fosse velenoso e la sua indole particolarmente temibile, perché capace di progettare vendette ed attacchi contro gli uomini che non ne rispettassero il territorio. La donnola si vendicava razziando pollai ma anche imbrattando o avvelenando latte e formaggi. Poteva perfino mordere mucche e cavalli, che rischiavano la morte per il suo veleno, tanto potente quanto quello della vipera. Per evitare la perdita di capi di bestiame, che poteva costituire la rovina economica di una famiglia contadina, si doveva allora intervenire prontamente, marchiando la ferita della bestia con una croce prodotta da un ferro arroventato e pronunciando un’invocazione ai santi ed alla Madonna perché soccorressero la bestia. In effetti questa pratica non era del tutto priva di fondamento: la cauterizzazione della ferita ne provocava la disinfezione.
La donnola rientrava nel novero di quelle manifestazioni del male che, come il diavolo stesso, neppure si potevano nominare: pronunciare il loro nome, infatti, significava invocarle, quindi renderle presenti. Per questo si utilizzavano, quando necessario, perifrasi; se, poi, ci si trovava realmente di fronte alla donnola, bisognava pronunciare scongiuri ed invocazioni a Dio, alla Madonna ed ai Santi, rigorosamente codificate. Alla luce di tutto ciò non sorprende apprendere che in alta Valtellina, appena sotto l’abitato di Oga, la chiesa dedicata alla Beata Vergine di Caravaggio, che si mostra dal bel poggio panoramico sul lato sinistro della piana di Bormio per chi la raggiunge da Tirano, venne edificata, fra il 1726 ed il 1742, sul luogo nel quale si trovava una cappelletta eretta come ex-voto alla Madonna da un tale Giovannino Guana. Motivo del ringraziamento alla Madonna: il Guana era scampato ad un attacco di donnole.

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