Aprica

Aprica (Abrìga) è un comune Valtellinese che nel 1927 si è reso autonomo da Teglio, dopo aver acquisito importanza per la felice collocazione al passo dell’Aprica (m. 1172), naturale porta di accesso dall’alta Valcamonica alla Valtellina, valorizzato dopo la costruzione della strada carrozzabile progettata da Giovanni Donegani, figlio dell’ingegner Carlo Donegani, iniziata nel 1846 e giunta ad Edolo nel 1860.
Il passo costituisce il culmine di una valle senza testata. Forse anticamente da qui scendeva il primigenio torrente Adda, che aveva le sue sorgenti nel gruppo dell'Adamello e, sceso alla piana presso Bianzone, riceveva le acque dell'affluente che scendeva dall'alta Valtllina. Successive vicende geologiche ne interruppero il corso, che confluì in quello dell'Oglio. Da allora quello che era affluente del torrente principale divenne torrente principale. Ciò spiegherebbe il brusco cambio di direzione che la Valtellina assume proprio a Tirano.
Aprica è’ costituito dalle frazioni Liscedo, Liscidini, Santa Maria, Mavigna, Dosso e San Pietro. Il suo nome deriva molto probabilmente dall’aggettivo “apricus”, cioè felicemente esposto al sole e si trova menzionato nei documenti medievali e moderni nelle diverse forme di “Abriga”, “Auriga”, “Avriga” e “Uriga”. Ma la sua vicenda umana inizia ben prima.


Aprica

Dei tre passi che mettevano (e mettono) in comunicazione l’alta Valcamonica e la Valtellina, cioè, da nord, il passo del Gavia, il passo del Mortirolo (con il vicino passo di Guspessa) e il passo dell’Aprica, quest’ultimo, in passato, fu il più importante, anche se non il più agevole (la discesa in Valtellina sfruttava l’impervia strada degli Zappelli d’Aprica, con tratti scavati nella viva roccia), e vide fin dalla preistoria transiti importanti che portarono in Valtellina presenza significative della civiltà camuna, testimoniate dai reperti presso Teglio, Tresenda e Grosio. La campagna militare voluta da Cesare Augusto nel 16 a. C, portò alla conquista romana della Valtellina, e non è escluso che di qui siano passate le legioni romane di Publio Silio Nerva.

La disgregazione dell’Impero Romano d’occidente portò alle invasioni (o migrazioni, a seconda dei punti di vista) delle popolazioni germaniche e probabilmente Chiavenna fu inglobata, dopo il 489, nel regno ostrogoto di Teodorico, in quel medesimo V secolo nel quale si colloca la prima penetrazione del cristianesimo nella valle. Furono gettate le basi della divisione di Valtellina e Valchiavenna in pievi. “La divisione delle pievi”, scrive il Besta (cfr. bibliografia), “appare fatta per bacini… aventi da epoche remote propri nomi, come è infatti accertato per i Bergalei, i Clavennates, gli Aneuniates”. Esse, dopo il mille, erano San Lorenzo a Chiavenna, S. Fedele presso Samolaco, S. Lorenzo in Ardenno e Villa, S. Stefano in Olonio e Mazzo, S. Eufemia o S. Pietro in Teglio, dei martiri Gervasio e Protasio in Bormio e Sondrio e S. Pietro in Berbenno e Tresivio; costituirono uno dei poli fondamentali dell'irradiazione della fede cristiana.


Aprica

L’offensiva Bizantina riconquistò probabilmente alla “romanità” la valle della Mera e dell’Adda, anche dopo l'irruzione e la conquista dei Longobardi (568); nell'VIII secolo, però, con il re Liutprando il confine dei domini longobardi raggiunse il displuvio alpino. Con i successori Rachis ed Astolfo, nel medesimo VIII secolo, queste valli risultano donate alla chiesa di Como. Sconfitti, nel 774, i Longobardi da Carlo Magno, Valchiavenna e Valtellina rimasero parte del Regno d’Italia, sottoposto alla nuova dominazione franca.

I primi insediamenti permanenti ad Aprica risalgono ad un periodo compreso fra il Vi ed il IX secolo. Sorsero intorno all’oratorio alto-medievale di San Pietro in località Le Plate, probabilmente in epoca carolingia (una tradizione lo vuole fondato dallo stesso Carlo Magno). Accanto all’oratorio sorse un ospizio o xenodochio che per secoli servì come ricovero e punto di riferimento per quanti transitavano per il passo dell’Aprica ("adventantes a longiquis", cioè provenienti da lontano), che trovavano ricovero in qualche stanza o "caneva" (ripostiglio con paglia e fieno) e "refectio", cioè sostentamento con un po' di latte, vino e grano. Ed i transiti dovevano essere frequenti, perché il passo era posto sull’importante asse sud-nord che, attraverso Valcamonica, Valle di Poschiavo e passo del Bernina, metteva in comunicazione la regione padana con la Rezia e con i paesi di lingua tedesca. Vi passavano, quindi, mercanti e "romei", cioè pellegrini, che spesso avevano come meta Roma.


Aprica

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La frammentazione dell’Impero di Carlo portò all’annessione del Regno d’Italia al sacro Romano Impero. Il 3 settembre 1024 l’imperatore Corrado succedette ad Enrico II, inaugurando la dinastia di Franconia, e confermò al vescovo di Como i diritti feudali su Valtellina e Valchiavenna; nel medesimo periodo un altro potente vescovo, quello di Coira, estendeva i suoi diritti feudali su Bormio e Poschiavo.
Sul finire del secolo XI troviamo il primo documento che menziona Aprica. Si tratta del "Liber censum" di Cencio camerario, che menziona fra i diritti della Santa Sede un "Hospitale de Bianzone in monte Abrica", che doveva corrispondere un censo annuo di un marabotino. Nel successivo secolo XII abbiamo notizia della ricostruzione della chiesa di San Pietro, come vice-cura rispetto alla plebana di Sant’Eufemia in Teglio, servita da un cappellano che saliva fin qui appunto da Teglio ogni sabato e vi tornava ogni domenica sera.
Nel 1335 Como, e con essa Valtellina e Valchiavenna, vennero inglobate nella signoria milanese di Azzone Visconti. Sul carattere generale di tale dominazione, scrive il Romegialli, nella sua "Storia della Valtellina" (1834): "Noi lontani da sospettosi loro sguardi; noi popoli di recente acquisizione, noi senza famiglia con motivo o forza da rivalizzare con essi; noi per più ragioni, da Visconti riguardati con amore e in pregio tenuti, dovettimo essere ben contenti dell'avvenuto mutamento. Aggiungasi che il nostro interno politico economico regime, poco tuttavia distava dal repubblicano. E diffatti ci erano serbate le antiche leggi municipali, e soltanto dove esse mancavano, dovevano le milanesi venire in sussidio... Deputava il principe, non già Como, alla valle un governatore... Il governatore chiamavasi anche capitano, al quale associavasi un giudice o vicario... I pretori ed ogni altro magistrato liberamente eleggevansi dal consiglio della valle; e il supremo tribunale, cui presiedeva il capitaneo, stava in Tresivio."
La Valtellina era ripartita nei terzieri superiore (con capoluogo Tirano), di mezzo (con capoluogo Tresivio), inferiore (con capoluogo Morbegno); Teglio non faceva capo alle giurisdizioni di terziere, ma costituiva una giurisdizione a sé stante, suddivisa in terra mastra di Teglio (composta dalle parti di Verida e Pertinasca, o Teglio di sopra e di sotto) e trentasei contrade raggruppate nelle vicinie di Aprica con Ganda, Carona con Bordone, Grania, Verignia, Boalzo. La vicinanza o vicinia di Aprica era rappresentata nella Castellanza e Comune di Teglio da un console eletto dai capifamiglia. Aveva il diritto di regolare i propri beni, ma non di amministrare la giustizia penale o civile.
La sua magra economia era basata sulle attività agricole, sull’allevamento di bovini ed ovini (le greggi, d’esatte, venivano portate nella bergamasca per i passi di Venerocolo e Belviso, o addirittura in alpeggi elvetici) e sulle attività legate all’estrazione del ferro in Val Belviso ed alla produzione di carbonella nei caratteristici “ial”, dove la legna veniva bruciata con un processo assai lento, che le impediva di ridursi in cenere e produceva, appunto, carbone. Anche il legname costituiva una ricchezza importante nell’economia di quei tempi. I tronchi venivano trascinati a valle, all’inizio della primavera o nel tardo autunno, facendoli scorrere lungo ripidi canali con fondo sagomato, con segnali scanditi da forti grida, “soooiii” (lancia) e “abaooooo” (ferma). Nella contrada Santa Maria, la più antica, funzionavano, infine, cinque mulini.


Contrada Santa Maria

Importanti novità segnarono la storia di Aprica nella prima metà del Quattrocento. Agli inizi del secolo, infatti, San Benigno de Medici progettò di istituire al passo dell'Aprica un monastero, ma nulla si concretizzò: altra fu la sede, a Monastero di Berbenno. Pochi anni dopo, nel 1427, fu istituita la parrocchia di Aprica, per servire una popolazione in aumento. Ad essa erano associati censi che gravavano su alcune terre; ciascun fuoco, cioè ciascuna famiglia, doveva, poi, corrispondere uno staio colmo di segale.
Dai segni di pace, a quelli di guerra: i Veneziani, storici nemici dei milanesi Visconti, tentarono di strappare loro la Valtellina, facendo scendere proprio dal passo dell’Aprica e dagli Zappelli, nel 1431, un corpo d’armati comandato da Giorgio Cornaro, che però, nel successivo novembre del 1432, subì una durissima sconfitta nella battaglia di Delebio, ad opera del chiurasco Stefano Quadrio, capitano delle milizie di valle.

Caduti i Visconti e terminata la breve esperienza della repubblica milanese (1447), i Milanesi accolsero per loro signore Francesco Sforza. Ma già cominciavano ad affacciarsi quelli che sarebbero stati, dal 1512, i nuovi signori delle valli dell’Adda e della Mera, le Tre Leghe Grigie (Lega Grigia, Lega Caddea e Lega delle Dieci Giurisdizioni, che si erano unite nel 1471 a Vazerol), che miravano ad inglobarle nei loro territori per avere pieno controllo dei traffici commerciali che di lì passavano, assicurando lauti profitti. In particolare, Chiavenna, priva di cinta muraria, fu incendiata, nel 1486, dalle loro milizie; queste, l’anno successivo, invasero il bormiese, fra il febbraio ed il marzo, saccheggiando sistematicamente i paesi della valle da Bormio a Sondrio. Le truppe ducali si mossero per fermarne l’avanzata e, dopo alcuni episodi sfavorevoli, riuscirono a sconfiggerle nella piana di Caiolo. Non si trattò, però, di una vittoria decisiva e netta, come dimostra il fatto che le milizie grigione si disposero a lasciare la valle solo dopo la pace di Ardenno (1487), che prevedeva il cospicuo esborso, da parte di Ludovico il Moro, di 12.000 ducati a titolo di risarcimento per i danni di guerra.


Aprica

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L’occupazione delle valli dell’Adda e della Mera era solo rimandata, anche perché le Tre Leghe dovevano fronteggiare un ingombrante vicino, la casa d’Austria. Fu così che il passo dell’Aprica vide il transito, nel 1499, di armi, generi alimentari e denaro inviati da Venezia per sostenere la campagna dei Grigioni, che fu coronata da successo nella battaglia di Calven.
Di lì a poco, nel 1500, Ludovico il Moro con la sconfitta di Novara, perse il ducato di Milano ad opera del re francese Luigi XII. Per dodici anni i Francesi furono padroni di Valtellina e Valchiavenna; il loro dominio, però, per dispotismo ed arroganza, lasciò ovunque un pessimo ricordo, cosicché il loro rovescio e l’inizio della dominazione delle Tre Leghe Grigie (1512) venne salutato non con entusiasmo, ma almeno con un certo sollievo. I nuovi signori proclamavano di voler esercitare un dominio non rapace e prepotente, ma saggio e rispettoso delle autonomie dei valligiani, chiamati "cari e fedeli confederati" nel misterioso patto sottoscritto ad Ilanz (o Jante) il 13 aprile 1513 (di cui si conserva solo una copia secentesca, sulla cui validità gli storici nutrono dubbi); Valtellina e Valchiavenna figuravano come paesi confederati, con diritto perciò di essere rappresentati da deputati alle diete; le Tre Leghe promisero, inoltre,di conservare i nostri privilegi e le consuetudini locali, e di non pretendere se non ciò che fosse lecito e giusto. Ma, per mettere bene in chiaro che non avrebbero tollerato insubordinazioni, nel 1526 abbatterono tutti i castelli di Valtellina e Valchiavenna. Sulla natura di tale dominio è lapidario il Besta (op. cit.): "Nessun sollievo rispetto al passato; e men che meno un limite prestabilito alla pressione fiscale. Nuovi pesi si aggiunsero ai tradizionali... I Grigioni... ai primi di luglio del 1512... imponevano un taglione di 21.000 fiorini del Reno pel pagamento degli stipendiari del vescovo di Coira e delle Tre Leghe.... Per quanto si cerchi non si trova al potere dei Grigioni altro fondamento che la violenza. Sarà magari verissimo che i Grigioni non fecero alcuna promessa ai Valtellinesi; ma è anche vero che questi non promisero a loro una perpetua sudditanza".


Aprica

Non fu, in generale, il cinquecento secolo clemente, almeno nella sua prima metà: la natura si mostrò più volte piuttosto matrigna che madre. Nel 1513 la peste infierì in molti paesi della valle, Bormio, Sondalo, Tiolo, Mazzo, Lovero, Tovo, Tresivio, Piateda, Sondrio, Fusine, Buglio, Sacco, e Morbegno, portandosi via diverse migliaia di vittime. Dal primo agosto 1513 al marzo del 1514, poi, non piovve né nevicò mai, e nel gennaio del 1514 le temperature scesero tanto sotto lo zero che ghiacciò perfino il Mallero. L’eccezionale ondata di gelo, durata 25 giorni, fece morire quasi tutte le viti, tanto che la successiva vendemmia bastò appena a produrre il vino sufficiente ai consumi delle famiglie contadine (ricordiamo che il commercio del vino oltralpe fu l’elemento di maggior forza dell’economia della Valtellina, fino al secolo XIX). Le cose andarono peggio, se possibile, l’anno seguente, perché nell’aprile del 1515 nevicò per diversi giorni e vi fu gran freddo, il che arrecò il colpo di grazia alle già duramente colpite viti della valle. L’anno successivo un’ondata di freddo e di neve nel mese di marzo danneggiò di nuovo seriamente le viti. Dalle calende d’ottobre del 1539, infine, fino al 15 aprile del 1540 non piovve né nevicò mai. La seconda metà del secolo, infine, fu caratterizzata da una grande abbondanza di inverni rigidi e nevosi ed estati tiepide, nel contesto di quel tendenziale abbassamento generale delle temperature, con decisa avanzata dei ghiacciai, che viene denominato Piccola Età Glaciale (e che interessò l’Europa fino agli inizi dell’Ottocento). C’è davvero di che far meditare quelli che (e non son pochi) sogliono lamentarsi perché non ci sono più le stagioni di una volta…


Aprica

Un quadro della situazione di Aprica a cavallo fra Cinquecento e Seicento ci viene offerto dalla celebre opera di Giovanni Guler von Weineck (governatore della Valtellina per le Tre Leghe Grigie nel biennio 1587-88), “Rhaetia”, pubblicata a Zurigo nel 1616 (e tradotta in italiano dal tedesco da Giustino Renato Orsini). Vi leggiamo: “Sotto Teglio, in direzione di mezzogiorno e dalla parte sinistra dell'Adda, la montagna si abbassa in un valico, in mezzo al quale sta il villaggio di Aprica e più a mezzodì la frazione di S. Pietro. Per questopasso corre la via maestra della Valtellina alla ValCamonica. cheè territorio italiano; codesta stradaviene chiamata Zapelli d'Aprica, ossia sentiero battuto dalle continue impronte dei piedi; infatti, venendo dalla Valtellina. l'accesso sarebbe difficile per il continuo alternarsi di ripiani e dislivelli, che tuttavia sono stati regolati. in tal modo da poter esserepercorsi con cavalcature e bestie da soma.”


Aprica

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Anno importante, il 1580, nelle cronache di Aprica: vi transitò, fra acclamazioni festose dei fedeli e del parroco Simone Cioccarelli, il celebre Cardinal Carlo Borromeo, che scendeva nella tormentata Valtellina, dove potè visitare il Santuario della B. V. Maria a Tirano. Si narra che il suo passaggio sia stato segnato da un evento miracoloso. San Carlo saliva dalla valle dell’Oglioloe giunse all’Aprica il 27 agosto del 1580, sul dorso di un cavallo. Faceva caldo, quel giorno, ed il santo ebbe sete. Volse lo sguardo intorno, e vide una fontana, dalla quale, però, non usciva una goccia d’acqua. Chiese, allora, ad un contadino che passava di lì il motivo di ciò. Questi rispose che da quella fontana non usciva più acqua da tempo immemorabile: era impossibile dissetarsi lì! La preghiera del santo, però, valse a far tornare l’acqua nella fontana. Una seconda versione racconta che il santo fece addirittura sgorgare direttamente l’acqua dal terreno, ad un tocco del bastone che teneva nella mano. Non appena si sparse la voce di quanto era accaduto, accorse la gente, stupefatta per l’evento soprannaturale. Vide nell’austero uomo di chiesa i chiari segni della santità, e volle lasciare un segno che ricordasse per sempre il suo passaggio ed il suo miracolo, una fontanella, che recava incisa la data del miracolo. Più tardi, quando già Carlo Borromeo era stato dichiarato santo, sorse, a fianco della fontanella, anche una cappelletta, dedicata a lui, dove un dipinto lo ritrae nell’atto di far sgorgare l’acqua dal terreno. Secondo un’altra versione la fonte sarebbe nata dalle lacrime di commozione del santo alla vista del superbo spettacolo che lo circondava da ogni lato. In fondo, ad oriente, le sette maestose cime del gruppo dell’Adamello, mentre sulla destra, verso sud, le più modeste ma pur sempre belle cime del Palabione, del pizzo della Nona e del dosso Pasò. Alle spalle, verso sud-ovest, le eleganti cime dei monti Torena e Lavazza. Verso nord-est, infine, la dolce cime del monte Padrio.


Aprica

Le Tre Leghe Grigie concessero anche al vescovo di Como Feliciano Ninguarda, per la sua origine morbegnese, il permesso di effettuare una celebre visita pastorale, nel 1589, di cui diede un ampio resoconto pubblicato nella traduzione di don Lino Varischetti e Nando Cecini. Vi si legge: “Oltre il fiume Adda, sulla montagna, distante dal paese di Grania otto miglia vi è un villaggio chiamato Aprica: ha le abitazioni sparse qua e là e vi è la chiesa parrocchiale dedicata a S. Pietro Apostolo che dista quasi un miglio dalla frazione più importante del paese: la regge il sac. Simone Cioccarelli, nativo del luogo, uomo (a quel che si sente) di cattiva condotta: questo paese conta settantadue famiglie tutte cattoliche. In una parte del paese di Aprica vi è un'altra chiesa dedicata a Santa Maria e dotata di beni e dove si seppelliscono i morti di quella frazione del paese.”

Poi venne il Seicento. Secolo di segno ben diverso, nel quale le ombre sopravanzarono di gran lunga le luci, nel Chiavennasco ed in Valtellina. Un anno, sopra tutti, merita di essere ricordato come funestamente significativo, il 1618: in Europa ebbe inizio la Guerra dei Trent’Anni, nella quale Valtellina e Valchiavenna furono coinvolti come nodi strategici fra Italia e mondo germanico; a Sondrio, al colmo delle tensioni fra cattolici e governanti grigioni, che favorivano i riformati in valle, venne rapito l’arciprete Niccolò Rusca, condotto a Thusis per il passo del Muretto e fatto morire sotto le torture; la medesima sera della sua morte, il 5 settembre 1618, dopo venti giorni di pioggia torrenziale, al levarsi della luna, venne giù buona parte del monte Conto, seppellendo le 125 case della ricca e nobile Piuro e le 78 case della contrada Scilano, un evento che suscitò enorme scalpore e commozione in tutta Europa. Due anni dopo, il 19 luglio del 1620, si scatenarono la rabbia della nobiltà cattolica, guidata da Gian Giacomo Robustelli, la sollevazione anti-grigione e la caccia al protestante, nota con l’infelice denominazione di “Sacro macello valtellinese”, che fece quasi quattrocento vittime fra i riformati. Fu l’inizio di un periodo quasi ventennale di campagne militari e battaglie, che videro nei due schieramenti contrapporsi Grigioni e Francesi, da una parte, Imperiali e Spagnoli, dall’altra. Con il Capitolato di Milano del 1639 i Grigioni tornarono in possesso di Valtellina e Valchiavenna, dove, però l’unica religione ammessa era la cattolica.


Scorcio di Aprica

Il nefasto passaggio dei Lanzichenecchi, poi, portò con sé la più celebre delle epidemie di peste, descritta a Milano dal Manzoni, quella del biennio 1630-31 (con recidiva fra il 1635 ed il 1636). L’Orsini osserva che la popolazione della valle, falcidiata dal terribile morbo, scese da 150.000 a 39.971 abitanti (poco più di un quarto). La stima, fondata sulla relazione del vescovo di Como Carafino, in visita pastorale nella valle, è probabilmente eccessiva, ma, anche nella più prudente delle ipotesi, più di un terzo della popolazione morì per le conseguenze del morbo.

Ad Aprica l’arrivo della peste fu preceduto nel 1629 da quello non meno nefasto delle truppe del generale Wallenstein, che la saccheggiarono, bruciando probabilmente l'archivio parrocchiale. Quello stesso anno il paese ricevette la visita pastorale del Vescovo di Como Lazaro Carafino, mentre era parroco don Giacomo Zamboni, che poi morì di peste: gli succedette don Antonio de Motari. Aprica in quel periodo era nodo strategico, perché Venezia, dopo il 1635, si alleò con i Francesi e con le Tre Leghe Grigie contro Spagnoni, nobiltà cattolica valtellinese ed Imperiali. Di lì passavano armi, armati, spie, diplomatici. In quel travagliato periodo la parrocchia di Aprica fu retta da don Carlo Antonio di Michele Venosta da Vervio, parroco dal 1634 al 1659. Durante questo periodo, nel 1643, salì ad Aprica il Vescovo di Como Carafino, che trovò la chiesa di San Pietro in cattive condizioni, mentre quella di Santa Maria era interessata da lavori di rinnovamento. Nel 1648 la pace era tornata anche in Europa, ma Aprica di nuovo vide schiere di armati che scendevano verso la pianura per combattere contro gli Uscocchi (Turchi). Al parroco don Carlo Venosta seguirono il poco amato don Giovanni Abbondio dei Venosta di Mazzo (1659-1668) e don Pietro Mazzucchi di Caspoggio, che molto operò per riportare la chiesa di San Pietro a dignitose condizioni. Nel 1696 gli succedette don Gian Battista Corvi, nativo del luogo.


Scorcio di Aprica

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A partire dal Settecento la situazione economica migliorò progressivamente, il che incoraggiò l’incremento dei commerci. In quel periodo parroci di Aprica furono don Giovanni Cioccarelli (1714-1729), che ricevette la visita pastorale del Vescovo di Como Giuseppe Olgiati, e padre Pier Girolamo da San Piero, probabilmente da Bianzone (1729-1743). Gli successe don Giovanni Battista Piccioli, di Tirano (1749-1790), che curò l'apertura di una scuola per i bambini.
Significativa fu, nel 1755, la deliberazione della Magistratura dei Cinque Savi alla mercanzia di Venezia di scegliere il passo dell’Aprica come via privilegiata per i commerci con le Tre Leghe Grigie, grazie all’impegno della popolazione di Aprica di provvedere alla manutenzione della strada dei Zapèi. La sede, larga da un minimo di due ad un massimo di quattro metri, consentiva il transito di piccoli carri trainati da buoi, che trasportavano diverse mercanzie, fra cui spezie, zucchero, uva passa, pelli, stoffe, tele e saponi. Tra il 1765 ed il 1766, però, il trattato che favoriva il libero commercio fra Venezia e le Tre Leghe Grigie venne sospeso.

La ripresa settecentesca non fu priva di arresti e momenti difficili, legati soprattutto ad alcuni inverni eccezionalmente rigidi, primo fra tutti quello memorabile del 1709 (passato alla storia come “l’invernone”, “l’inverno del grande freddo”), quando, ad una serie di abbondanti nevicate ad inizio d’anno, seguì, dal giorno dell’Epifania, un massiccio afflusso di aria polare dall’est, che in una notte gelò il Mallero e parte dell’Adda. Ed ancora, nel 1738 si registrò una nevicata il 2 maggio, nel 1739 nevicò il 27 ed il 30 marzo con freddo intenso, nel 1740 nevicò il 3 maggio, con freddo intenso e nel 1741 nevicò a fine aprile, sempre con clima molto rigido e conseguenze disastrose per le colture e le viti.


Contrada Santa Maria

Nel Settecento il malcontento contro il dominio delle Tre Leghe Grigie nelle due valli crebbe progressivamente, soprattutto per la loro pratica delle di mettere in vendita le cariche pubbliche. Tale vendita spettava a turno all'una o all'altra delle Leghe e chi desiderava una nomina doveva pagare una cospicua somma di denaro, di cui si sarebbe rifatto con gli interessi una volta insediato nella propria funzione, esercitandola spesso più per amore di lucro che di giustizia. Gli abusi di tanti funzionari retici, l'egemonia economica di alcune famiglie, come quelle dei Salis e dei Planta, che detenevano veri e propri monopoli, diventarono insopportabili ai sudditi. Il malcontento culminò, nell'aprile del 1787, con i Quindici articoli di gravami in cui i Valtellinesi (cui si unirono i Valchiavennaschi, ad eccezione del comune di S. Giacomo) lamentavano la situazione di sopruso e denunciavano la violazioni del Capitolato di Milano da parte dei Grigioni, alla Dieta delle Tre Leghe, ai governatori di Milano e, per quattro volte, fra il 1789 ed il 1796, alla corte di Vienna, senza, peraltro, esito alcuno. Per meglio comprendere l’insofferenza di valtellinesi e valchiavennaschi, si tenga presente che la popolazione delleTre Leghe, come risulta dal memoriale 1789 al conte di Cobeltzen per la Corte di Vienna, contava circa 75.000 abitanti, mentre la Valtellina, con le contee, superava i 100.000. Fu la bufera napoleonica a risolvere la situazione, con il congedo dei funzionari Grigioni e la fine del loro dominio, nel 1797.
Per alcuni mesi, dopo il 1797, rimase comunque in piedi l'ipotesi di un'aggregazione di Valtellina e Valchiavenna come Quarta Lega alla federazione grigiona, cui non erano contrari né Napoleone né Diego Guicciardi, cancelliere di Valle del libero popolo valtellinese. Il sorprendente voto nei comuni delle Tre Leghe Grigie, di cui giunse notizia il primo settembre 1797, chiuse, però, definitivamente questa prospettiva: 24 si espressero contro, 21 a favore, 14 si dichiararono incerti e 4 si astennero. Di conseguenza il 10 ottobre 1797 Napoleone dichiarò Valtellinesi e Valchiavennaschi liberi di unirsi alla Repubblica Cisalpina. Seguì, il 22 ottobre, l'unione della Valtellina e dei Contadi di Bormio e Chiavenna alla Repubblica Cisalpina ed il 28 ottobre la confisca delle proprietà dei Grigioni in Valtellina. Fra le conseguenze di questi rivolgimenti, vi fu che Aprica non era più terra di confine fra due stati differenti. Alla Repubblica Cisalpina seguì, nel 1805, il Regno d’Italia.


Chiesa di San Pietro

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Cadde anche Napoleone, lasciando ai posteri il problema di formulare l'ardua sentenza sulla sua vera gloria.

Il Congresso di Vienna, nel 1815, anche grazie all'operato della delegazione costituita dal chiavennasco Gerolamo Stampa e dal valtellinese Diego Guicciardi, sancì l'aggregazione del dipartimento dell’Adda al Regno Lombardo-Veneto, sotto il dominio della casa d’Austria. Durante questo periodo si pose anche la questione della costituzione di un autonomo comune di Aprica, e la regia delegazione provinciale ne sostenne l’opportunità, basandosi sulla divisione delle parrocchie di Teglio In effetti, con l’attivazione dei comuni della provincia di Sondrio, il comune di Aprica con Motta fu inserito nel distretto III di Tirano. Nel 1823, però, Aprica venne riaggregata a Teglio, non senza grande riluttanza dei suoi abitanti.

Il dominio asburgico fu severo, ma attento alle esigenze della buona amministrazione e di un’ordinata vita economica, garantita da un importante piano di interventi infrastutturali. Fra il 1845 ed il 1858 venne scavato un nuovo alveo artificiale per l'Adda tra Berbenno e Ardenno e, nel suo corso inferiore, tra Dubino e il Lario, che pose le basi per la bonifica ed il successivo ricupero agricolo della piana della Selvetta e del piano di Spagna. Venne tracciata la strada principale che percorreva bassa e media Valtellina, fino a Sondrio, poi prolungata fino a Bormio. Venne tracciata la carozzabile da Colico a Chiavenna, e, fra il 1818 ed il 1822, la strada dello Spluga, la prima grande strada che attraverso le Alpi centrali mettesse in comunicazione la pianura lombarda con la valle del Reno. Tra il 1820 e il 1825 anche Bormio fu allacciata alla valle dell'Adige con l’ardita strada dello Stelvio progettata dall’ingegner Carlo Donegani, che già aveva progettato la via dello Spluga. Nel 1831 fu inaugurata la strada lungo la sponda orientale lariana, da Colico a Lecco, che consentì alla provincia di Sondrio di superare lo storico isolamento rispetto a Milano ed alla pianura lombarda. Agli ultimi anni della dominazione asburgica, infine (1855), risale anche la carrozzabile che da Tresenda saliva all'Aprica; la strada, progettata da Giovanni Donegani, figlio dell’ingegner Carlo Donegani, cominciò ad essere costruita nel 1846 e fu, poi, prolungata fino a Edolo nei primi anni del nuovo Regno d'Italia, mettendo in comunicazione la valle dell'Adda con la Valcamonica. Con la strada Aprica venne servita da servizi di diligenza, si aprirono stazioni per il cambio dei cavalli.


Chiesa di Santa Maria

Il periodo asburgico fu, però, segnato anche da eventi che incisero in misura pesantemente negativa sull’economia dell’intera valle. L’inverno del 1816 fu eccezionalmente rigido, e compromise i raccolti dell’anno successivo. Le scorte si esaurirono ed il 1817 è ricordato, nell’intera Valtellina, come l’anno della fame. Vent’anni dopo circa iniziarono le epidemie di colera, che colpirono la popolazione per ben quattro volte (1836, 1849, 1854 e 1855).

Si aggiunse anche l'epidemia della crittogama, negli anni cinquanta, che mise in ginocchio la vitivinicoltura valtellinese. Queste furono le premesse del movimento migratorio che interessò una parte consistente della popolazione nella seconda metà del secolo, sia di quella stagionale verso Francia e Svizzera, sia di quella spesso definitiva verso le Americhe e l’Australia.


Contrada di Santa Maria

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Durante la II Guerra d'Indipendenza passarono per Aprica alcuni battaglioni della divisione Cialdini ed i Cacciatori delle Alpi. Alla proclamazione del Regno d'Italia, nel 1861, Aprica, che era posta sul suo confine, contava 973 abitanti.
La statistica curata dal prefetto Scelsi nel 1866 non si fa menzione di Aprica, i cui abitanti vengono compresi nelle "case sparse" (716 in tutto, 377 uomini e 339 donne, in 152 famiglie e 140 case, di cui 5 vuote).
Nella III Guerra d'Indipendenza (1866) Aprica difesa dal regio esercito dai tentativi di sfondamento degli Austro-Ungarici. I suoi abitanti salirono a 993 nel 1871, a 1023 nel 1881 ed a 1052 nel 1901. Alla vigilia della Grande Guerra, nel 1911, Aprica contava 1280 abitanti. Al 1873 la tradizione di Aprica fa risalire l’inizio dell’attività turistica che poi acquisirà un peso sempre maggiore: a quella data venne, infatti, aperto il primo albergo dalla famiglia Negri, della contrada del Dosso, l’albergo Aprica.

Ecco come presenta il paese la II edizione della Guida alla Valtellina edita a cura del CAI di Sondrio, nel 1884: “Da Tresenda ha principio la bella strada nazionale che per il colle d’Aprica unisce le due grandi vie del Tonale e dello Stelvio. La costruzione sua fu deliberata per viste militari dall’Austria, e venne condotta a buon punto negli ultimi anni del suo dominio sulla Lombardia. Ma l’Austria non giunse a compierla, e, bizzarria della fortuna, le prime truppe che la percorsero furono appunto quelle che nel 1859 batterono i soldati suoi. In quell’anno passarono sul colle d’Aprica alcuni battaglioni della divisione Cialdini, e alcuni reggimenti dei Cacciatori delle Alpi. Giunta in linea retta sotto il monte, la via attraversa due gallerie scavate nella roccia, tra le quali sta il bel ponte sulla Valvarina, torrente che raccoglie le acque della Valle di Belviso, poi si svolge a oriente, serpeggiando fra le varie sinuosità del monte, in un ampio andirivieni, e in lenta salita, dopo aver attraversato il villaggio della Motta, guida al Belvedere (1008 m.). Il luogo ha nome veramente appropriato. Il piano di Valtellina fin oltre Morbegno, nel quale serpeggia quel bellissimo fiume di limpide acque che è l’Adda, e la catena aprica popolata di vigneti, di campi, di selve e di borgate, offrono allo sguardo incantevole panorama. Il burrone per cui trova sfogo la Valle di Belviso forma la parte severa del quadro superbo. Al Belvedere vi ha una Cantoniera ed osteria di buona riputazione. Chi viaggia a piedi può dalle gallerie alle falde del monte salire al Belvedere direttamente per la vecchia via. Lasciato il Belvedere la strada gira i dirupati fianchi del monte, poi entra in una verde valle tutta prati coronati in alto da folte foreste di pini. Qui sta Aprica (m. 1168 m.), vecchia borgata, coll’ottimo albergo Negri. Un po’ più in alto trovasi la chiesa di San Pietro.
Gregorio di Valcamonica assevera che questa chiesa è stata fondata da Carlo Magno; il Quadrio la crede più antica. I Zappelli d’Aprica, col quale nome soleva indicarsi i passo prima che fosse costrutta la stupenda strada carrozzabile, furono non poche volte attraversati da eserciti. Passarono per essi, tra gli altri, il duca di Nevers alla testa di molte truppe e il generale Macdonald quando nel 1800 guidò nelle valli bresciane e del Tirolo le sue divisioni già decimate dalle tormente dello Spluga”.

In quel periodo era parroco di Aprica il livignasco don Giacomo Silvestri (1871-1895). Durante il ministero del suo successore don Pietro Moretti da Tresivio (1895-1913) vi fu, nel 1906, la divisione fra la parrocchia di San Pietro, con le contrade dell'Ospedale, di Mavigna e del Dosso, e quella di Santa Maria Assunta, con le contrade di Madonna, Liscedo e Liscidino.


Chiesa di San Pietro

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Il primo decennio del Novecento Pesante, come per tutti i comuni della provincia, il contributo di vittime che Aprica dovette pagare alla Grande Guerra. Il monumento ai caduti riporta i seguenti nomi di soldati morti nella prima guerra mondiale: Ambrosini Lorenzo, Cioccarelli Giovanni, Corvi Battista, Corvi Giacomo, Damiani Lorenzo, Dotti Lorenzo, Della Moretta Lorenzo, Moraschinelli Carlo, Sciarmella Giovanni, Stampa Cristoforo, Svanosio Antonio, Volpi Giovanmaria, Balsarini Pietro, Balsarini Pietro Angelo, Corvi Giacomo, Moraschini Agostino, Moraschini Giovanni, Negri Domenico, Negri Giacomo, Negri Giovanantonio, Negri Lorenzo, Ricetti Domenico, Ricetti Domenico Giovanni (Aprica S. Pietro); Cioccarelli Giovanni, Corvi Giacomo, Sciarmella Ferdinando, Svanosio Antonio e Volpi Giovan Maria (Aprica S. Maria).

Il 14 dicembre 1927 giunse a compimento il processo legislativo ed amministrativo che vide la nascita del comune di Aprica, staccatosi da quello di Teglio, non senza forti resistenze da parte dei tellini: le ragioni dell'insostenibilità di una dipendenza amministrativa da un centro lontano 25 km ebbero la meglio. In quel periodo la parrocchia di San Pietro era retta da don Stefano Armanasco da Tovo S. Agata (1920-1946). Nel periodo fra le due guerre cominciò la fortunata parabola legata alla pratica dello sci e quindi al turismo invernale. Nacque lo Sci Club Aprica e nel 1922 si tenne il trofeo Morelli, prestigiosa gara sciistica riservata a studenti, che faceva seguito a numerose gare di sci di fondo e discesa. Vennero poi costruiti trampolini che consentirono la pratica del salto con gli sci.


Bivacco Aprica

Ecco lo spaccato che del nuovo comune di Aprica ci offre, nel 1928, Ercole Bassi, in “La Valtellina – Guida illustrata”: “Da Tresenda per un’ampia strada, percorsa dall’auto fino a Edolo, si sale al Belvedere (m. 1008 – Cantoniera), dove si gode una ampia vista. Questo passo, detto i Zappelli, fu più volte percorso da truppe, fra le quali quelle del generale Macdonald nel 1801 e dai Cacciatori delle Alpi nel 1859. La strada prosegue tra i fianchi dirupati del monte e giunge alla verde conca di Aprica, di recente eretta in comune (m. 1168 – km. 29 da Sondrio e 11 da Tresenda, ottimo soggiorno estivo – Albergo Aprica – Fonte ferruginosa – cooperativa rurale di consumo). Ivi la chiesa di San Pietro dicesi eretta da Carlo Magno. Dall’Aprica la strada scende a Corteno e ad Edolo in Valcamonica. Una rotabile costrutta durante la guerra sale dall’Aprica a rovescio della catena di monti a nord sino alla Colma di Trivigno. Dalle prime case di Aprica un sentiero penetra in Val Belviso e in due ore e mezzo conduce al piano di San Pietro (osteria); altro sentiero a sinistra della valle guida al pizzo di Torena.”

La popolazione di Aprica passò in questo periodo dai 1170 abitanti del 1921 ai 1203 del 1931 ed ai 1103 del 1936.


Rifugio Valtellina

La Seconda Guerra Mondiale, con le sue tragedie, non risparmiò Chiavenna. Morirono nel conflitto Ambrosini Carlo, Cioccarelli Camillo, Cioccarelli Isidoro, Corvi Arturo, Corvi Gaetano, Corvi Luigi, Corvi Nino, Corvi Vittorio, Damiani Pietro, Liscidini Arturo, Moraschinelli Silvio e Stampa Attilio. Morirono, infine, in conseguenza delle due guerre Ambrosini Lorenzo, Corvi Battista, Damiani Lorenzo, Della Moretta Lorenzo, Dotti Lorenzo, Moraschinelli Carlo e Stampa Cristoforo. Nel secondo dopoguerra le antiche ruggini con Teglio riesplosero nel 1947, per la decisione unilaterale degli abitanti di Aprica di caricare gli alpeggi di Frera e Pisa, che erano rimasti entro il territorio tellino. La sdegnosa reazione dei tellini portò ad un blocco stradale a Tresenda, cui seguì un accordo di compromesso che lasciò i due alpeggi a Teglio concedendone però in parte l’uso a 30 capi caricati da Aprica. La popolazione di Aprica passò dai 1278 del 1951 ai 1214 del 1961, ai 1272 del 1971, ai 1616 del 1981, ai 1627 del 1991, ai 1588 del 2001 ed ai 1588 del 2911.

In questo periodo Aprica ebbe un notevole sviluppo economico valorizzando la sua vocazione turistica, come centro di soggiorno estivo ma soprattutto come località dotata di importanti impianti di risalita per la pratica dello sci invernale, tanto da affermarsi fra le più rinomate località lombarde per la pratica di questo sport. Aprica è dotata di numerose strutture, impianti di risalita, piste di pattinaggio, campi da tennis, scuole di sci, rete alberghiera di 30 esercizi con circa 750 camere.


Impianti di risalita ad Aprica

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Laghetto del Palabione

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CARTA DEL TERRITORIO COMUNALE

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