Camminardenno - Report dalla montagna ferita




Gli eventi alluvionali che hanno toccato la Valtellina alla fine del novembre 2002 hanno mostrato messo a nudo, una volta di più, il volto di una montagna ferita. Queste note di sintesi e le immagini che le accompagnano (relative ai dissesti che hanno interessato i comuni di Ardenno e Buglio in Monte) vogliono essere un rapido ma amaro report dalla montagna ferita, non per muovere gli affetti, ma per contribuire a capire cosa c'è a monte (non solo metaforicamente) delle colate di fango che si scaricano spesso rovinosamente sul fondovalle.

Ardenno, 26 novembre 2002: cronaca di un'ordinaria alluvione

Le cronache dei dissesti degli ultimi quattro anni (1998-2002) ad Ardenno, paese di circa 3000 abitanti posto all'imbocco della
Val Masino, fra la media e la bassa Valtellina, insegnano parecchio sulle dinamiche e sui processi che possono rendere il territorio montano instabile e pericoloso per chi ci abita.
Il versante montuoso che sovrasta il paese è costituito dal ripido crinale che culmina nella cima di Granda (m. 1706) e che separa la Valtellina dalla Val Masino. Da questo versante si staccò, all'inizio del Cinquecento, una frana rovinosa che, abbattendosi sul centro del paese, lo distrusse, provocando numerose vittime.
In tempi assai più recenti la minaccia è giunta dalla piana della Selvetta: nel luglio del 1987, l'anno della tristemente nota alluvione della Valtellina, l'eccezionale abbondanza delle precipitazioni (con uno zero termico a 4000 metri) determinò la rottura dell'argine del fiume Adda, le cui acque si riversarono nella piana, investendo buona parte dell'abitato posto nella zona bassa del paese.
Poi, nel marzo del 1998, è di nuovo la montagna a far paura: un tremendo incendio devasta gran parte del patrimonio boschivo del versante sopra il paese, che si ritrova con un manto di terra bruciata ed instabile, essendo venuta meno l'azione stabilizzante delle piante. Alle prime precipitazioni di una certa portata, ecco il disastro annunciato. Nella notte del 26 giugno 1998, intorno alle 4.00, le campane della chiesa suonano a distesa per lanciare l'allarme: i torrentelli che scendono dalle vallecole sovrastanti il paese (soprattutto val Valena e val Velasca) hanno moltiplicato paurosamente la portata, trasportando tronchi e grossi massi, sono usciti dall'alveo ed hanno cominciato a correre rovinosamente fra le case del centro del paese. Per diversi giorni, in mancanza di fatti di cronaca più rilevanti, Ardenno ha il triste onore di balzare al primo posto nelle aperture dei telegiornali. Non ne sentiva il bisogno.
In seguito a questi eventi vengono effettuati lavori volti a mettere in sicurezza il paese nell'eventualità di future precipitazioni imponenti. Questi lavori prevedono il consolidamento degli argini e la costituzione di sacche di contenimento a monte dell'abitato. Nonostante i lavori, però, nel novembre del 2000 la piazza del paese si riempie di nuovo di materiale alluvionale: la vallecola sulla cui direttrice si trova proprio la piazza, infatti, viene incanalata in un condotto sotterraneo, la cui presa, però, poco sopra la stessa, è ostruita dal materiale più grossolano, e questo determina l'evento alluvionale.
Passano altri due anni, e siamo alla cronaca recentissima. Il 26 novembre 2002 vede ripetersi, in proporzioni però ben maggiori, quanto accaduto nel 2000: precipitazioni ancora più abbondanti, con conseguenti smottamenti sul versante montuoso, determinano non solo il nuovo riversamento di materiale nella piazza del paese, ma lo sfondamento del muro di contenimento del torrentello poco sopra la piazza stessa. Il corso ne risulta per diverse ore deviato, ed investe alcune case poste ad ovest dell'alveo. Per limitare ulteriori danni, l'acqua viene convogliata nel campo sportivo dell'oratorio, che offre così il surreale spettacolo di un bacino riempito da circa 80 centimetri d'acqua limacciosa.

Il clima che cambia

Si dice che l'effetto serra sia responsabile di un progressivo e rapido innalzamento della temperatura media del pianeta, anche se non tutti i meteorologi sono d'accordo sulla portata del fenomeno. Gli effetti sono preoccupanti, sia per quanto riguarda le riserve idriche costituite dai ghiacciai alpini (che si vanno ritirando inesorabilmente), sia per quanto riguarda la violenza e la portata delle precipitazioni sulle zone alpine. Si parla anche, al riguardo, di progressiva tropicalizzazione, di aumento dei fenomeni meteorologici estremi.
L'aspetto più negativo dell'effetto serra per chi sta in montagna, infatti, non è l'aumento della temperatura in sé (fatto comunque preoccupante, anche per gli equilibri dei diversi ecosistemi, per la flora e per la fauna), ma la maggiore energetizzazione dell'atmosfera e la conseguenza maggiore mobilità delle masse d'aria. Per dirla in parole povere: saranno sempre più facili e frequenti scontri di masse d'aria con forte contrasto termico (cioè calde e molto umide, e fredde), un po' come avviene nelle pianure centro-meridionali degli Stati Uniti, dove i tornados e gli uragani sono di casa. A quando il primo tornado valtellinese? Non ne sentiamo la mancanza.
Dunque, precipitazioni più violente ed abbondanti, concentrate magari in un breve lasso di tempo, con effetti disastrosi. L'aumento della temperatura significa anche innalzamento medio dello zero termico: è più facile, quindi, che piova anche a quote dove normalmente dovrebbe nevicare, e dove c'è già, magari, un manto nevoso che viene intaccato dalla pioggia. Questo aumenta di molto la massa d'acqua che si precipita verso il fondovalle.
Tuttavia non dobbiamo pensare che le cause dell'aumento degli eventi alluvionali siano legate solo all'aumento della temperatura media del pianeta. La terra ha conosciuto periodi, anche relativamente vicini nel tempo, di clima più caldo rispetto all'attuale, quando in Inghilterra si coltivava il grano. Qualche larice o abete sopravvissuto a quote decisamente inusuali rimanda a qualche secolo fa, quando la temperatura media maggiore poneva più in alto il limite boschivo. I dissesti erano allora più frequenti? Non esistono testimonianze storiche che lo attestino.


L'uomo che cambia

L'uomo abbandona la montagna: ce lo sentiamo dire in tutte le salse. I paesini di montagna si vanno spopolando da diversi decenni, perché è sempre più faticoso saper conciliare il desiderio di rimanere laddove si è cresciuti con la necessità di trovare una sistemazione socio-economica adeguata alle proprie aspirazioni. La vita di montagna, anche per chi non la vive da contadino, è proverbialmente severa.
Consideriamo, tanto per fare un esempio fin troppo chiaro, le condizioni di vita di chi carica d'estate gli alpeggi (non a caso sempre più deserti): in questo i nostri dirimpettai svizzeri dimostrano una sensibilità molto maggiore, incentivando, anche con l'offerta di servizi adeguati, questa attività che chiamare disagevole è dir poco.
Diminuisce il numero di chi frequenta la montagna e la conosce, mentre aumenta quello di chi vi si reca solo con scopi predatori o quasi (raccolta di questo o quello). Il sottobosco disordinato è l'immagine più desolante di questo abbandono, e chi frequenta i sentieri sa quanto sia doloroso constatare come in molti tratti finiscano per essere, letteralmente, mangiati dalla vegetazione che cresce caotica. Mi è capitato un sacco di volte di chiedere, carta alla mano, a persone del luogo quali fossero le condizioni di un sentiero segnalato, e di sentirmi rispondere che il sentiero è in pessime condizioni o si perde, che non ci passa più nessuno da chissà quanto tempo.
Fosse solo un problema di escursionisti romantici, non ci sarebbe da preoccuparsi troppo; il fatto è, però, che il bosco, lasciato a se stesso, si degrada. Fra gli effetti più negativi dell'abbandono è la mancata regimentazione delle acque, l'assenza di quei microinterventi che in passato permettevano di controllare il corso di rogge e torrentelli, quei piccoli corsi d'acqua innocui per gran parte della loro esistenza, terribilmente disastrosi quando sorellastra acqua decide che è tempo che gli uomini si ricordino della sua potenza. Nel bosco incolto i piccoli dissesti mutano il corso di queste rogge, alterano la circolazione delle acque, rendono imprevedibili gli effetti di precipitazioni eccezionali. Altro caso emblematico è quello dei muretti a secco che sostengono i terrazzamenti costruiti con terra di riporto per consentire le colture sui versanti solivi, in particolare quella della vita. La mancanza di manutenzione li rende sempre più instabili ed aumenta il rischio di cedimenti che determinano, talora, pericolosissimi effetti-domino (la tragedia di Tresenda del maggio 1983 è stata proprio determinata da un effetto del genere).
Nel bosco sporco, poi, il terreno fatica maggiormente ad assorbire l'acqua piovana. I materiali che si accumulano nelle vallecole non vengono rimossi, ed attendono pazienti qualche onda di piena che li trascini verso il basso.
In sintesi, siamo abituati a pensare all'uomo come ad un aggressore che depreda ed altera gli equilibri della natura, ma ci dimentichiamo che è proprio l'opera paziente, minuziosa e capillare dell'uomo attraverso i secoli che ha reso la montagna, sistema instabile per eccellenza, un luogo nel quale poter vivere.

Equilibrio e convivenza

Non possiamo illuderci che la montagna, strutturalmente instabile, possa diventare un luogo nel quale vivere in piena sicurezza. Ai tempi dell'immane frana della Val Pola (luglio 1987), che scaricò dal monte Coppetto circa dieci milioni di metri cubi di materiale, seppellendo S. Antonio Morignone, si disse che eventi del genere appartengono alla tragica economia del mutare costante della montagna (statisticamente tali eventi sembra accadano, nella catena alpina, una volta circa ogni 75 anni). Un illustre geologo fotografò allora lapidariamente, durante un servizio televisivo, quella che è la tendenza, nei secoli e nei millenni, di questo perenne mutare della geografia montana: tutto ciò che sta più in alto è destinato, prima o poi, lentamente o rovinosamente, a scendere in basso.
Queste considerazioni non debbono, ovviamente, indurre un atteggiamento fatalistico, e men che meno giustificare comportamenti irresponsabili che aumentano i margini di rischio e la rovinosità degli effetti connessi con eventi di eccezionale portata.
La mentalità corretta è quella che punta ad una gestione del territorio che diminuisca i fattori di rischio.
Le costruzioni intelligenti, innanzitutto: esistono zone intrinsecamente pericolose, o che lo sono diventate nel tempo in seguito al mutamento dell'assetto idrogeologico del territorio; edificare in tali zone è dissennato. Fiumi e torrenti, in particolare, debbono conservare o riacquisire i naturali polmoni di sfogo in caso di piena; se ne debbono, inoltre, costantemente ripulire e sorvegliare alvei e letti.
Il monitoraggio costante, poi: le più avanzate tecnologie permettono di controllare i movimenti di masse franose, prevedendo il verificarsi di possibili eventi critici. Il monitoraggio più efficace, tuttavia, è quello effettuato da chi la montagna la percorre e la perlustra, segnalando i primi segnali ammonitori di possibili dissesti (le tanto temute crepe, fratture e fessure che si possono notare su sentieri, prati, crinali) e la modificazione della circolazione delle acque su un certo territorio (fattore che può dar luogo ad esiti imprevedibili).
La conservazione e manutenzione del manto boscoso, infine, necessario per attenuare l'impatto di violente precipitazioni e di fenomeni erosivi, e minacciato dall'incuria, dall'inselvatichimento e, soprattutto, dagli incendi.

Quando il futuro va in fumo

Gli incendi boschivi sono una piaga che flagella in modo particolarmente pietoso l'intera Italia. Un incendio è una catastrofe paesaggistica ed ecologica. La distruzione del manto boschivo lascia il terreno desolatamente esposto agli effetti dilavanti della pioggia, che fatica ben poco a trascinare a valle il residuo strato superficiale di terra bruciata ed instabile.
La successiva crescita di una fitta e caotica bassa vegetazione (ginestre, per esempio), non contribuisce a migliorare la situazione: manca l'effetto ritentivo e rallentante della chioma degli alberi, per cui ad ogni violenta precipitazione l'impatto della massa d'acqua sul terreno è sempre violento e fortemente erosivo.
Grandi incendi sono quasi sempre la premessa di grandi frane.

Gli interessi della montagna toccano solo chi ci vive?

È chiaro che dietro le problematiche di cui si è parlato non c'è solamente la questione di una progettazione intelligente degli interventi e delle attività finalizzate alla salvaguardia del territorio naturale, ma anche quella, strettamente economica e politica, della volontà di destinare risorse adeguate a questi interventi.
Perché si decida di destinare risorse adeguate ad una effettiva politica di conservazione degli equilibri ambientali bisogna comprendere che tale problema non riguarda solo la montagna e chi ci vive, ma, e ciò in misura sempre maggiore, anche chi abita sulle rive di laghi e fiumi di pianura, o addirittura in località costiere.
Una notazione per tutte: i fenomeni alluvionali che, in un passato recente, hanno interessato la Toscana hanno determinato danni ingenti sulle pregiate spiagge versiliane, con grave danno per gli operatori turistici. I destini o, almeno, gli interessi economici del mare e della montagna sono, quindi, più connessi di quanto si pensi.


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