Quando la sacra pace della montagna viene violata...
Prime
luci dell’alba del 31 ottobre 1635: è la vigilia di Ognissanti,
la vigilia di quella notte che, secondo un’antichissima credenza
di origine celtica, sospende la radicale separazione fra mondo dei morti
e mondo dei vivi, e consente ai morti di tornare a visitare i vivi.
Ma non è a questo che pensa il duca Henri de Rohan, alla testa
del corpo di spedizione francese in terra di Valtellina: nella sua testa
c’è solo il piano per la battaglia che, a sorpresa, ha
deciso di ingaggiare proprio quel giorno contro le truppe imperiali,
utilizzando un’ardita tattica di aggiramento.
Teatro dello scontro è la Val Fraele, una delle porte naturali
fra mondo latino e mondo germanico: di qui passa, infatti, la prestigiosa
imperial via di Alemagna, che, attraversato il bormiese, porta, passando
per la val Mora (Confederazione Elvetica), in Tirolo, possesso della
casa imperiale asburgica. Siamo nel cuore della Guerra dei Trent’Anni
(1618-1648), e la Valtellina si trova ad essere contesa, per la sua
posizione strategica, dagli opposti schieramenti franco-protestante
(cioè della Francia e della Lega Grigia) ed ispanico-imperiale
(cioè di Spagna ed Impero). La Valtellina sta in mezzo: possesso
dei Grigioni dal 1512, è prossima, a nord-est, ai possessi imperiali
e confina, a sud-ovest, con il milanese, nelle mani della Spagna. Sono
gli anni più bui per questa terra, percorsa da eserciti e flagellata
da carestie e peste.
Ma non è questa la preoccupazione del duca, che, abilissimo stratega,
sa che il tempo gioca a suo sfavore.
La minaccia, infatti, è che le truppe franco-protestanti siano
accerchiate dagli imperiali del Fernamont (6-7.000 fanti ed 800 cavalieri
accampati in Val di Fraele), e dagli spagnoli del Serbelloni, che si
annunciano in marcia dal lago di Como. Attacca, dunque, ed ottiene una
completa vittoria, mettendo in fuga gli imperiali, che lasciano sul
campo duemila morti. Nelle sue memorie annota freddamente: “Ciò
vedendo, ordinai al S.r. di Canisly di caricarli, cosa che egli fece
con tale impeto che essi gettarono tutte le loro armi e ne rimasero
uccisi più di duemila, dato che i nostri soldati non vollero
risparmiare nessuno. Se il S.r. Du Landé si fosse trovato al
suo posto al momento giusto, non ne sarebbe scampato nessuno tanto erano
ben circondati”.
E, sempre freddamente, decide di lasciare nella valle terra bruciata,
perché in futuro non possa più diventare base di partenza
delle incursioni imperiali: tutte le 80 baite di Fraele sono date alle
fiamme, sotto gli occhi sgomenti dei contadini. Le livide luci dell’alba
di Ognissanti del 1635 illuminano quindi uno scenario di rovina e desolazione.
Passano esattamente tre secoli.
Il tempo sembra aver rimarginato le terribili ferite della guerra e
la valle è tornata un’oasi di pace e di grande bellezza,
anche se già, nella sua parte bassa, ospita la prima diga di
Cancano. E’ la vigilia di Ognissanti del 1935. Un tal Castrìn,
cacciatore e pastore che conosce ed ama profondamente questa terra,
sta tornando alla sua baita, sul far della mezzanotte. Sa bene che in
quella notte i morti tornano a visitare i vivi, e, per accoglierli e
dissetarli, lascia sul tavolo di cucina un vaso di acqua. Ha ormai 66
anni, e l’esperienza gli insegna che i morti sono discreti, non
amano mostrarsi ai vivi.
Quella notte, però, gli accade di assistere ad uno spettacolo
che mai avrebbe immaginato di poter vedere. Una nebbia mai vista si
leva, e, fra i suoi fumi, prendono lentamente forma le incerte sagome
di soldati, ancora ricoperti di terra. Sono come ombre, sembrano sospese
a mezz’aria e vengono verso S. Giacomo.
Vengono da tutte le direzioni, e con gran fragore, nelle loro armi antiche,
fra scalpitar di cavalli ed incitamenti di cavalieri. L’intera
valle si accende di miriadi di lumini e piccoli fuochi, e nella luce
irreale si distinguono, ora, volti e divise. Convergono, tutti, sul
sagrato della chiesa di Fraele. Egli,
che ben conosce la storia della sua terra, riconosce, fra le centinaia
e centinaia di soldati, alcune figure illustri: il duca di Rohan, il
colonnello Jenatsch, comandante del contingente di truppe della Lega
Grigia, ed il barone di Fernamont.
Non comprende ancora il senso di quel che sta accadendo, ma ben presto
le parole che ode glielo chiariscono. Insieme, infatti, le anime convenute
chiedono perdono, a Dio ed alla valle, per le violenze ed il sangue
versato, e pregano perché in futuro non accada mai più
che l’avidità degli uomini rechi un oltraggio simile alla
pace delle montagne. E’ l’insegnamento dei morti, questo
ora lo capisce bene, perché i vivi imparino dai loro errori.
Questo racconto, che si innesta su uno dei fatti storici di maggior
rilievo nella storia della Valtellina, è riportato nella raccolta
"Le leggende in alta Valtellina", curata nel 1998 da Maria
Pietrogiovanna.
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