CARTE DEL PERCORSO - GALLERIA DI IMMAGINI - MAPPA DEL PERCORSO - LA LEGGENDA DELLA CROCE DI AMBRIA


Val Caronno
o Valle di Scais

Punti di partenza ed arrivo
Tempo necessario
Dislivello in altezza
in m.
Difficoltà (T=turistica, E=escursionistica, EE=per escursionisti esperti)
Rifugio Caprari-Passo Scoltador-Val venina-Passo Brandà-Val d'Ambria-Passo del Forcellino-Val Vedello-Diga di Scais-Rifugio Mambretti
9 h
1590
E
SINTESI. Ci rimettiamo dunque in cammino dal rifugio Caprari (m. 2118), alla volta del passo dello Scoltador, che si può raggiungere con due differenti percorsi. Quello un po’ più lungo ma forse meno faticoso prevede di percorrere per un tratto il sentiero 220, che traversa in direzione nord. Dopo qualche saliscendi il sentiero porta alla baita dello Scoltador (m. 2048), dal tetto in lamiera. Qui lasciamo il sentiero 220 e prendiamo a destra, seguendo il cartello della G.V.O. che dà il passo dello Scoltador ad un’ora e 20 minuti. Dobbiamo ora prestare attenzione ai segnavia perché la salita al passo sfrutta una traccia debole ed intermittente, su un versante peraltro che non offre particolari problemi. Saliamo più o meno al centro di un largo dosso, fra strisce di pascolo e roccette, zigzagando in direzione sud-est. Attraversiamo poi da destra a sinistra il vallone che scende dal passo. Giungiamo così in vista della parte alta del vallone. Guadagniamo un po’ quota sul lato di sinistra (per noi), poi puntiamo diritti, in direzione sud-sud-est, alla sella del passo. Tagliato un crinale erboso, attraversiamo un corpo franoso e di nuovo su strisce di pascoli ci portiamo salendo gradualmente ai 2454 metri del passo dello Scoltador. Il primo tratto della discesa in Val Venina, abbastanza ripido, procede diritto verso est, con pochi tornanti. Poi la pendenza si smorza e ad un tornante dx lasciamo alla nostra sinistra un sentiero che scende al fondovalle poco a monte del bacino di Venina. Attraversata una fascia di massi in diagonale verso sinistra, pieghiamo leggermente a destra e scendiamo in direzione est fra modesti dossetti erbosi, fino a raggiungere il ciglio di un ripido versante solcato da salti rocciosi. Ad una serie di tornanti dx-sx-dx-sx, segue un lungo traverso verso sinistra che, superato un avvallamento, ci porta al centro di un largo dosso. Riprendiamo a scendere in direzione est, con una sequenza di cinque coppie di tornanti sx-dx. Dopo l’ultimo tornante dx, scendiamo ad attraversare di nuovo il medesimo vallone attraversato più a monte. La cose si ripete cinque volte nell’ultima parte della discesa, che ci porta poco sopra il pianoro dell’alta valle, che però non raggiungiamo, perché il sentiero, a quota 2150 m. circa, prende a destra ed inizia a descrivere un ampio arco dapprima in piano, poi in leggera discesa, portandoci sul lato orientale dell’alta Val Venina, ai piedi del suo crinale terminale. Raggiungiamo così un ampio ripiano, alla palina di tre cartelli escursionistici (m. 2120 circa). Seguiamo le indicazioni della GVO per il passo Brandà (dato a 50 minuti), le baite Cigola (date ad un’ora e 50 minuti ed il passo del Forcellino (dato a 3 ore e 10 minuti). Prendiamo dunque a destra e riprendiamo a salire, in direzione nord-est. Raggiungiamo in breve un ben visibile manufatto di forma cilindrica, con un’apertura circolare nel mezzo, il Forno del Ferro in località “La Vena” (m. 2165). Proseguiamo nella salita, per un primo tratto sulla verticale del forno, poi piegando a sinistra, su sentiero ben visibile ed abbastanza ripido, che guadagna quota sullo spoglio versante orientale della valle. Aggirata una fascia di rocce alla nostra destra, volgiamo a destra e cominciamo a salire un facile anche se un po’ ripido versante. Dopo qualche tornante, giungiamo in vista di un segnavia rosso-giallo-rosso, quindi più antico, che ci segnala una nuova svolta a destra. Siamo ormai prossimi alla piccola sella del passo di Brandà (m. 2360), che vediamo poco più in alto, alla nostra destra. Dal passo il sentierino scende in Valle d'Ambria, per breve tratto verso destra, poi piega a sinistra procedendo per lungo tratto diritto. Incontriamo nuovi segnavia rosso-giallo-rossi, che si alternano a quelli rosso-bianco-rossi o bianco-rossi. Pieghiamo poi a destra e scendiamo ad un ampio ripiano, puntando a due grandi massi con ben visibili segnavia. Passiamo appena a destra di un grande masso bianco con segnavia e continuiamo a scendere piegando a destra, fra strisce erbose e roccette, ben guidati dai segnavia. Poi pieghiamo ancora a sinistra (nord-est), puntando ad un secondo ed ampio ripiano. Raggiunto il ripiano, lo attraversiamo in diagonale, tendendo leggermente a sinistra e seguendo i segnavia su alcuni massi, ritrovando una più marcata traccia di sentiero che dopo una breve salitella riprende a scendere zigzagando lungo un versante erboso, al termine del quale vediamo ora il fondovalle. Dietro una gobba erbosa vediamo ben presto un muretto a secco ed appena sotto una baita, vicino ad un rudere di baita. Si tratta delle baite Cigola (o Scigula, m. 1870), una delle quali è stata attrezzata come bivacco con brande e stufa (dal 16 settembre 2017 rifugio Gianmario Lucini). Qui siamo ad un bivio: lasciato alla nostra sinistra il sentiero che scende alle baite Dossello ed al fondovalle, dobbiamo prendere a destra, seguendo le indicazioni della GVO, ed iniziare a descrivere un ampio arco analogo a quello percorso in alta Val venina, anche se ad una quota un po’ più bassa. Andiamo quindi a destra (sud), superiamo una valletta e proseguiamo quasi in piano su un versante di mecereti e sfasciumi. Poi cominciamo a piegare a sinistra, traversiamo verso est e superiamo l’avvallamento centrale che separa i versanti occidentale ed orientale della valle, sempre fra bassi arbusti e piccoli corpi franosi. Il sentiero comincia a salire con pendenza abbastanza marcata verso nord est, passa a lato di alcune roccette e procede diritto, per un buon tratto all’aperto. Superata una valletta, attraversa, sempre procedendo diritto, una rada macchia e ne esce ad una seconda valletta. Procediamo ancora diritti, fra fastidiosi arbusti, salendo con pendenza media. Superata una terza valletta, il sentiero propone pochi tornanti, poi riprende a traversare con pendenza più dolce verso nord. Superate altre due vallette, procediamo il leggera salita, passando a valle di alcune formazioni rocciose e raggiungendo la base dell’ampio vallone che scende dal passo del Forcellino, che resta nascosto dietro una gobba. Il sentiero piega ora decisamente a destra, salendo verso il passo in direzione est-sud-est, sul suo lato di sinistra (per chi sale). Dopo un buon tratto di salita sul fianco erboso del vallone ci affacciamo ad una conca posta appena a valle del passo, dove troviamo un microlaghetto di fusione (ed un nevaietto che qualche volta resiste anche a stagione avanzata). Dalla conca, sempre salendo sul fianco sinistro del versante e passando alti rispetto al microlaghetto, raggiungiamo dopo un ultimo ripido strappo il passo del Forcellino (m. 2245), che ci fa affacciare alla Val Vedello. Al passo troviamo un segnavia rosso-bianco-rosso con la sigla GVO ed il più antico segnavia rosso-giallo-rosso. Dobbiamo ora scendere per l’intera lunghezza della valle, fino al suo termine, cioè fino al lago artificiale di Scais. Il sentiero, ben segnalato, procede per lunghissimo tratto diritto verso nord-est, cioè scendendo con pendenza media lungo il fianco occidentale della valle. Nel primo tratto il sentiero taglia il versante erboso a monte di un vallone di sfasciumi. Poi tagliamo un corpo franoso e passiamo in una sorta di corridoio a sinistra di una gobba erbosa. Scendiamo sempre in diagonale, a mezza costa, ed il sentiero è marcato. Per breve tratto il sentiero diventa pianeggiante e sale leggermente, poi riprende la discesa che ci porta, dopo u tornante dx ed uno sx, alle baite dell’alpe Zocco (m. 1814). Qui pieghiamo a destra (est) e scendiamo con qualche tornante, su marcato sentiero, ad intercettare una pista sterrata, che scende a sinistra del torrente di fondovalle. Superata una galleria paramassi, dopo breve tratto lasciamo la pista imboccando, sulla destra, il sentiero che scende verso nord-est, in una bella macchia di larici ed abeti (la prima che incontriamo in questa tappa). Dopo una radura ed una nuova macchia, il sentiero ci porta ad un ponticello sul torrente Vedello. Sul lato opposto imbocchiamo un ben marcato sentiero che segue la riva meridionale del lago artificiale di Scais (m. 1500). Raggiungiamo così le case di Scais e, seguendo le indicazioni per il rifugio mambretti, andiamo a destra ed affrontiamo la breve salita in pecceta che ci porta ai prati dell'alpe Caronno (m. 1610). Attraversato il pianoro stando a sinistra, riprendiamo a salire, con pendenza moderata, ed attraversiamo, su tronchi, per due volte altrettanti rami del torrente Caronno. La salita si fa, ora, più decisa e segue, verso est, il filo di un ampio dosso, si stempera un po' ad una radura, poco sopra i 1800 metri, per poi riprendere decisa, con varie serpentine. Il sentierino esce infine all'aperto ed un ultimo strappo ci porta alla capanna Mambretti (m. 2003).


La testata della Valle d'Ambria

La settima tappa della Gran Via delle Orobie ci porta nel cuore delle Orobie centrali e propone una splendida cavalcata fra passi e valli, dal rifugio Caprari in Valle del Livrio al rifugio Mambretti in Valle di Scais. Dalla Valle del Livrio, per il passo dello Scoltador, il sentiero attraversa l’alta Val Venina e, varcato il passo di Brandà, si affaccia alla valle d’Ambria. Il passo del Forcellino porta in Val Vedello, che il sentiero scende per intero, fino al lago di Scais, dal quale inizia la salita nell’omonima valle (o Valle di Caronno) che porta al rifugio Mambretti. Una traversata senza particolari difficoltà o problemi di orientamento. Unica difficoltà il marcato dislivello in salita, 1590 metri circa. Un escursionista con allenamento medio deve mettere in conto 9-10 ore di cammino.


Baita dello Scoltador

Ci rimettiamo dunque in cammino dal rifugio Caprari (m. 2118), alla volta del passo dello Scoltador, che si può raggiungere con due differenti percorsi. Quello un po’ più lungo ma forse meno faticoso prevede di percorrere per un tratto il sentiero 220, che traversa in direzione nord. Si tratta del sentiero percorso in direzione inversa da chi sale al rifugio da San Salvatore, cioè dal maggengo a monte di Albosaggia. Dopo qualche saliscendi il sentiero porta alla baita dello Scoltador (m. 2048), dal tetto in lamiera. Qui lasciamo il sentiero 220 (segnalato dal cartello che dà la Valle della Casera ad un’ora e 30 minuti) e prendiamo a destra, seguendo il cartello della G.V.O. che dà il passo dello Scoltador ad un’ora e 20 minuti.
Dobbiamo ora prestare attenzione ai segnavia perché la salita al passo sfrutta una traccia debole ed intermittente, su un versante peraltro che non offre particolari problemi. Saliamo più o meno al centro di un largo dosso, fra strisce di pascolo e roccette, zigzagando in direzione sud-est. Attraversiamo poi da destra a sinistra il vallone che scende dal passo. Giungiamo così in vista della parte alta del vallone. Guadagniamo un po’ quota sul lato di sinistra (per noi), poi puntiamo diritti, in direzione sud-sud-est, alla sella del passo. Tagliato un crinale erboso, attraversiamo un corpo franoso e di nuovo su strisce di pascoli e ghiaioni ci portiamo salendo gradualmente ai 2454 metri del passo dello Scoltador, (pàs dul Scürtadòor), chiamato in passato anche Passo della Vena, che apre davanti ai nostri occhi lo scenario dell’alta Val Venina (Val Vinìna).


Apri qui una fotomappa della salita al passo dello Scoltador

In passato il passo era frequentato non solo da persone, ma anche da bovini e muli. Infatti ancora fino all'inizio dell'Ottocento veniva sfruttato per trasportate il ferro di prima lavorazione della Val Venina al forno fusorio della media Valle del Liri (dove si trova, appunto, la località Forni). Ma il passo era interessato anche dai commerci dei prodotti caseari e presso il passo c'era una baita dove venivano cambiati i muli che trasportavano il formaggio della Val Venina verso Branzi, in Val Brembana, per il passo di Publino. Il nome spagnoleggiante deriva da una cattiva translitterazione del nome pàs dul Scürtadòor, che deriva dal verbo "scürtà", "accorciare", perché attraverso questo valico passava la via più breve ed agevole che congiungeva la Val Venina con il versante orobico bergamasco, con il quale intratteneva rapporti economici più significativi che con il fondovalle valtellinese. E' stato però anche proposto, dal Sertoli-Salis, l'etimo di "Scoltador" da "Scultà", ascoltare, che forse rimanderebbe alla presenza di "scolte", cioè sentinelle.
Lasciamo alle spalle, con la valle del Livrio (Val dul Lìri), una sequenza di tipiche valli ad U (Val Madre, Val Cervia e Valle del Livrio, appunto), con soglia sospesa ed andamento lineare verso sud, per entrare nell’ampio bacino di quella che complessivamente viene chiamata Val Caronno, ma anche Val Venina. Il bacino si articola nella parte alta in quattro valli disposte a raggiera, che la Gran Via delle Orobie attraversa, partendo appunto da quella Val Venina che si distingue per l’ampio bacino artificiale che vediamo alla sinistra sinistra, in fondo all’ampio corridoio di pascoli dell’alta valle. Si tratta di una valle tranquilla, coronata da cime poco appariscenti. Ben più significative le cime che si annunciamo più ad est.


Passo dello Scoltador

Il primo tratto della discesa in Val Venina, abbastanza ripido, procede su ghiaioni e magri pascoli, diritto verso est, con pochi tornanti. Poi la pendenza si smorza e ad un tornante dx lasciamo alla nostra sinistra un sentiero che scende al fondovalle poco a monte del bacino di Venina. Attraversata una fascia di massi in diagonale verso sinistra, pieghiamo leggermente a destra e scendiamo in direzione est fra modesti dossetti erbosi, fino a raggiungere il ciglio di un ripido versante solcato da salti rocciosi. Ad una serie di tornanti dx-sx-dx-sx, segue un lungo traverso verso sinistra che, superato un avvallamento, ci porta al centro di un largo dosso. Riprendiamo a scendere in direzione est, con una sequenza di cinque coppie di tornanti sx-dx. Dopo l’ultimo tornante dx, scendiamo ad attraversare di nuovo il medesimo vallone attraversato più a monte. La cose si ripete cinque volte nell’ultima parte della discesa, che ci porta poco sopra il pianoro dell’alta valle, che però non raggiungiamo, perché il sentiero, a quota 2150 m. circa, prende a destra ed inizia a descrivere un ampio arco dapprima in piano, poi in leggera discesa, portandoci sul lato orientale dell’alta Val Venina, ai piedi del suo crinale terminale. Si tratta in realtà di un vero e proprio tracciolino usato fino ad inizio Ottocento per portare il ferro ai piedi del versante occidentale della valle, per poi salire al passo dello Scoltadòr e scendere ai Forni della Valle del Liri.


Apri qui una fotomappa dei sentieri della Val Venina

Raggiungiamo così un ampio ripiano, alla palina di tre cartelli escursionistici (m. 2120 circa). Ignorata la direzione per Casera Vecchia ed il lago di Venina (sentiero 254), seguiamo le indicazioni della GVO per il passo Brandà (dato a 50 minuti), le baite Cigola (date ad un’ora e 50 minuti ed il passo del Forcellino (dato a 3 ore e 10 minuti). Prendiamo dunque a destra e riprendiamo a salire, in direzione nord-est. Raggiungiamo in breve un ben visibile manufatto di forma cilindrica, con un’apertura circolare nel mezzo. Si tratta, come illustra un cartello, del Forno del Ferro in località “La Vena” (Furegn dal Fèr, m. 2165). Nei suoi pressi si trovava, infatti, la miniera di ferro più importante della zona, sfruttata già dal 1300, ed ancora attiva nella seconda metà dell’Ottocento, quando il materiale veniva portato all’altoforno di Premadio per essere fuso.


Apri qui una fotomappa del sentiero che scende dal passo dello Scoltador in Val Venina

Nei pressi del forno fusore, infatti, troviamo ancora qualche cumulo di materiale rossastro, residuo dell’attività estrattiva. C’è da ricordare che vi furono periodi in cui il minerale veniva portato, per la lavorazione, nella vicina valle del Livrio, attraverso il passo dello Scoltador, che vediamo proprio davanti a noi, insieme al sentiero che, con diverse diagonali, lo raggiunge. La prima lavorazione del ferro in questo ed in altri forni richiedeva la combustione di grandi quantità di legna, il che spiega come mai la Val Venina abbia un limite boschivo molto più basso rispetto alle altre valli orobiche.


Il Forno del Ferro

Il cartello ci offre queste notizie: “Giacimenti di minerali ferrosi, prevalentemente a minerale di ferro siderite, sono sparsi lungo tutta la fascia meridionale del versante Orobico. Questi giacimenti hanno rappresentato nei secoli passati la maggior risorsa mineraria di ferro in Lombardia. Sul versante orientale della Val Venina, oltre i 2000 metri di altitudine, esistevano miniere di ferro il cui sfruttamento ebbe inizio già dal 1300 e si protrasse, pur intercalato da periodi di inattività, fino al 1800. Il minerale estratto durante il XVII secolo subiva una prima lavorazione nel forno di maggiori dimensioni in località Vedello. Il manufatto funzionava con carbone di legna, si dice infatti che il disboscamento della valle ebbe luogo in seguito a questo tipo di utilizzazione. Un progressivo abbassamento della temperatura (piccola era glaciale medioevale) rese assai difficile la vita e il lavoro a queste quote per cui le cave e l’attività estrattiva furono progressivamente abbandonate. Costi di escavazione troppo elevati e difficili vie di comunicazione portarono alla definitiva cessazione di ogni attività dopo il 1874.


Apri qui una fotomappa della salita al passo di Brandà

Si legge poi nella "Guida alla Valtellina" edita dal CAI di Sondrio del 1884 (a cura di Fabio Besta, II ed.): "Al di là dell'ultima casera, alle falde del monte che si alza ad oriente, si vedono alcune gallerie scavate nella roccia. Sono le gallerie di un'antica miniera (vena) di ferro carbonato. Si coltivava già sotto i Visconti, duchi di Milano e Signori per oltre un secolo (1335-1447) della Valtellina. Il Quadrio si duole perché ai tempi suoi (1755) si lasciava inerta. Più tardi il minerale per il passo della Vena veniva trasportato nella Valle del Livrio, ricca di combustibile: là subiva una prima fusione e dalla ghisa formansi proiettili ad uso di guerra. Per alcun tempo si trasportò fino a Bormio; e ora da parecchi anni la miniera è di nuovo abbandonata, come lo sono tutte le altre della Valtellina".
Questi luoghi sono anche legati ad una singolare leggenda, che riguarda la chiesetta di san Gregorio ad Ambria (allo sbocco della Val Venina), edificata nel 1615 su quel che restava di una chiesetta preesistente. Nei secoli passati vi era custodita una pregevole e grande croce in legno, ora nella casa parrocchiale di Fusine. Nel Seicento la adocchiarono e rubarono, si narra, due abitanti della bergamasca, che si diedero alla fuga risalendo in tutta fretta a Val Venina. Prima, però, che potessero varcare il passo di Venina, il cielo si fece scuro e cominciò a piovere a dirotto, ma non comune pioggia, bensì una densa pioggia di sangue. I due furono colti da terrore di fronte a quel chiaro segno dell'ira divina e lasciarono la croce sotto una grande roccia, prima di proseguire la fuga. Gli abitanti di Ambria, scoperto il furto, vennero presi dallo sconforto, ma qualcuno udì un misterioso scampanellio, come di una capra che si fosse persa sulle balze delle Scale di Venina. Decisero di vederci chiaro e si incamminarono verso la valle. Lo scampanellio li precedeva, era sempre un po' più avanti, ma nessuna animale si vedeva, e così per l'intero solco della valle. Quando giunsero in prossimità della sua testata, là dove il sentiero si impennava per salire al passo di Venina, il suono si fece più debole e scomparve. Si fermarono, quindi, smarriti, ma qualcuno notò una sagoma nota sporgere da un roccione. Era la croce, e la recuperarono levando al cielo preghiere di lode e di ringraziamento.


Il passo Brandà

Proseguiamo nella salita, per un primo tratto sulla verticale del forno, poi piegando a sinistra, su sentiero ben visibile ed abbastanza ripido, che guadagna quota sullo spoglio versante orientale della alle (ed ora sappiamo il perché dell’assenza di piante). Aggirata una fascia di rocce alla nostra destra, volgiamo a destra e cominciamo a salire un facile anche se un po’ ripido versante. Dopo qualche tornante, giungiamo in vista di un segnavia rosso-giallo-rosso, quindi più antico, che ci segnala una nuova svolta a destra. Siamo ormai prossimi alla piccola sella del passo di Brandà (Pas dul Brandàa, m. 2360), che vediamo poco più in alto, alla nostra destra, presidiata a sud da alcune roccette chiare ed incorniciato dal monte Aga (m. 2720).
Raggiunto il passo, il saluto, ad est, ci viene offerto da una sequenza di imponenti cime, chiusa a destra dal profilo conico del pizzo del Diavolo di Tenda (m. 2916), una delle più note e riconoscibili cime della catena orobica. La Guida alla Valtellina (cit.) scrive: "Lo Stoppani, nella Guida alle Prealpi Bergamasche, chiama a giusta ragione questo pizzo il Cervino delle Prealpi Orobie: nessuna delle altre loro vette s'eleva più ardita di questa... Il pizzo del Diavolo si chiama anche dai contadini di Val d'Ambria Pizzo di Tenda".


Apri qui una panoramica sul versante orientale della Valle d'Ambria

Nessun problema fin qui, nessun problema nella discesa in Valle d’Ambria (Val dul Zapèl). Il sentierino scende per breve tratto verso destra, poi piega a sinistra procedendo per lungo tratto diritto. Incontriamo nuovi segnavia rosso-giallo-rossi, che si alternano a quelli rosso-bianco-rossi o bianco-rossi. Pieghiamo poi a destra e scendiamo ad un ampio ripiano, puntando a due grandi massi con ben visibili segnavia. Passiamo appena a destra di un grande masso bianco con segnavia e continuiamo a scendere piegando a destra, fra strisce erbose e roccette, ben guidati dai segnavia. Poi pieghiamo ancora a sinistra (nord-est), puntando ad un secondo ed ampio ripiano. Alla nostra sinistra vediamo l’elegante e mite prifolo della cima Brandà (m. 2500), mentre a destra fanno da valletti al pizzo del Diavolo di Tenda, alla sua sinistra, il pizzo dell’Omo (m. 2773) ed il pizzo del Salto (m. 2665), che precipitano a valle con salti impressionanti. Davanti a noi, infine, il pizzo Ceric (m. 2536), alla cui destra già si vede la selletta del passo del Forcellino, per il quale dovremo passare.


Le baite Cigola ed il bivacco Gianmario Lucini

Raggiunto il ripiano, lo attraversiamo in diagonale, tendendo leggermente a sinistra e seguendo i segnavia su alcuni massi, ritrovando una più marcata traccia di sentiero che dopo una breve salitella riprende a scendere zigzagando lungo un versante erboso, al termine del quale vediamo ora il fondovalle. Dietro una gobba erbosa vediamo ben presto un muretto a secco ed appena sotto una baita, vicino ad un rudere di baita. Si tratta delle baite Cigola (la Scìgula, m. 1870; l'alpeggio è già citato in un documento del 1474 come "Cigole Vallis"), una delle quali è stata attrezzata come bivacco con brande e stufa (dal 16 settembre 2017 rifugio Gianmario Lucini), utilissimo, quindi, come punto di appoggio in caso di necessità. Il bivacco ricorda la splendida figura di un pensatore e poeta che ha tanto amato queste montagne. Sue le parole, che meritano un'attenta e profonda meditazione: "Saranno dunque i miti a possedere la terra / coloro che diranno: ”non facciamo più armi / non lavoreremo oltre il necessario, / vogliamo il nostro tempo per capire il / donde e il dove / vogliamo la dignità, non la ricchezza / non vogliamo sciupare nulla ma / prendere in prestito soltanto / chiedendo il permesso alla natura / per l’attimo che dura la nostra scintilla / nella magnifica notte dell’immensità / senza sogni da vendere o sogni da / comprare / vivi fino all’ultimo, eretti / con dignità davanti alla morte / salutando gli amici” / Così canteranno i miti / portando covoni di grano. / Canteranno i loro poemi / quando tornerà la bellezza dagli occhi / ridenti / alla fine d’ogni parola / al tramonto d’ogni ragione.” (da Gianmario Lucini, Sapienziali, CFR edizioni, Piateda 2013).


Apri qui una fotomappa della salita al passo del Forcellino dalla Valle d'Ambria

Attualmente (estate 2017) è dotato di cucina rustica, con camino (manca al momento la stufa ma probabilmente sarà a breve fornita dal comune di Piateda), fornello a gas, acqua corrente, (aperta nei mesi caldi), armadio pensile contenente i libri fra cui quello delle poesie di Gianmario Lucini, tavolo e due letti a castello, bagno con doccia (per ora fredda), camera contenente 2 letti a castello. Dispone anche di energia elettrica (pannello + batteria). Il rifugio è sempre aperto e incustodito.
Qui siamo ad un bivio: lasciato alla nostra sinistra il sentiero che scende alle baite Dossello ed al fondovalle, dobbiamo prendere a destra, seguendo le indicazioni della GVO, ed iniziare a descrivere un ampio arco analogo a quello percorso in alta Val Venina, anche se ad una quota un po’ più bassa. Andiamo quindi a destra (sud), speriamo una valletta (Val de Scìgula) e proseguiamo quasi in piano su un versante di mecereti e sfasciumi.


Il versante orientale della Val Vedello (apri qui per ingrandire)

Poi cominciamo a piegare a sinistra, traversiamo verso est e superiamo l’avvallamento centrale che separa i versanti occidentale ed orientale della valle, sempre fra bassi arbusti e piccoli corpi franosi. Il sentiero comincia a salire con pendenza abbastanza marcata verso nord est, passa a lato di alcune roccette e procede diritto, per un buon tratto all’aperto. Superata una valletta, attraversa, sempre procedendo diritto, una rada macchia e ne esce ad una seconda valletta. Procediamo ancora diritti, fra fastidiosi arbusti, salendo con pendenza media. Superata una terza valletta, il sentiero propone pochi tornanti, poi riprende a traversare con pendenza più dolce verso nord. Superate altre due vallette, procediamo il leggera salita, passando a valle di alcune formazioni rocciose e raggiungendo la base dell’ampio vallone che scende dal passo del Forcellino, che resta nascosto dietro una gobba. Il sentiero piega ora decisamente a destra, salendo verso il passo in direzione est-sud-est, sul suo lato di sinistra (per chi sale). Dopo un buon tratto di salita sul fianco erboso del vallone ci affacciamo ad una conca posta appena a valle del passo, dove troviamo un microlaghetto di fusione (ed un nevaietto che qualche volta resiste anche a stagione avanzata). Dalla conca, sempre salendo sul fianco sinistro del versante e passando alti rispetto al microlaghetto, raggiungiamo dopo un ultimo ripido strappo il passo del Forcellino (buchèta dul Sfursilìi, m. 2245), che ci fa affacciare alla Val Vedello (Val dul Vedèl o Val de Vedèl). Al passo troviamo un segnavia rosso-bianco-rosso con la sigla GVO ed il più antico segnavia rosso-giallo-rosso.


Salita al passo del Forcellino

Dobbiamo ora scendere per l’intera lunghezza della valle, fino al suo termine, cioè fino al lago artificiale di Scais. Nessun problema: il sentiero, ben segnalato, procede per lunghissimo tratto diritto verso nord-est, cioè scendendo con pendenza media lungo il fianco occidentale della valle. Nel primo tratto il sentiero taglia il versante erboso a monte di un vallone di sfasciumi. Poi tagliamo un corpo franoso e passiamo in una sorta di corridoio a sinistra di una gobba erbosa, mentre alle nostre spalle il pizzo del Salto mostra il suo profilo più elegante (ma soprattutto è interessante osservare, alla sua sinistra, quel ripidissimo canalone di sfasciumi che porta al passo del Salto (Pas dul Salt, m. 2410), che mette in comunicazione il versante valtellinese con Fiumenero, frazione di Valbondione: si fatica a crederlo, ma era molto frequentato nei secoli passati da mercanti e pellegrini. C'è da annotare che per questo passo transita, dall'alluvione del 1987, un annuale pellegrinaggio della comunità di Piateda verso il santuario mariano di Ardesio.
Scendiamo sempre in diagonale, a mezza costa, ed il sentiero è marcato. Per breve tratto il sentiero diventa pianeggiante e sale leggermente, poi riprende la discesa. Vediamo ora un primo spicchio del lago di Scais. Sul lato opposto (orientale) della valle è il pizzo Gro (m. 2653) a dominare lo scenario, aspro e selvaggio.


Discesa in Val Vedello

Più a valle, si notano ancora i manufatti della miniera di uranio, aperta e successivamente chiusa, che, negli anni passati, non ha certo giovano alla fama della valle. Per capire come andarono le cose dobbiamo retrocedere nel tempo all'autunno del 1973, quando la guerra del Kippur fra Egitto e Siria da una parte, Israele dall'altra, determinò un repentino aumento dei prezzi del petrolio (più che triplicati in pochissimo tempo) ed alla successiva grave crisi energetica. Si aprì ben presto il periodo dell'austerity (così si diceva allora): il governo Rumor varò una serie di provvedimenti, quali il blocco della circolazione dei veicoli la domenica, la riduzione dell'illuminazione stradale e commerciale e perfino la chiusura anticipata dei programmi televisivi. La crisi indusse il governo anche a cercare risorse alternative. Iniziò così un progetto di costruzione di centrali nucleari, che però, per funzionare, avevano bisogno di uranio. La ricerca sulle montagne italiane diede esito positivo in Val Seriana e, appunto, in Val Vedello, dove venne scoperta una vena che si stimò potesse fornire materia prima per alimentare per diversi decenni una grande centrale nucleare. Vennero quindi scavati diversi chilometri di gallerie, ed ancora si vedono le piste tracciate per servirle. Poi, però, negli anni Ottanta il vento cambiò. la svolta definitiva si ebbe con il referendum del 8-9 novembre 1987, nel quale la maggioranza degli Italiani si espresse contro la costruzione e l'utilizzazione di centrali nucleari. I lavori di scavo in Val Vedello si interrompono. Resta, muto testimone dell'intera vicenda, un versante che ne mostra ancora chiaramenti le tristi ferite. E resta la fama un po' sinistra della valle, perché sentir parlare di uranio e radioattività genera nella maggior parte delle persone un istintivo timore.


Apri qui una fotomappa della discesa della Val Vedello

Questi pensieri ci accompagnano fino alle baite dell'alpe Zocco (m. 1814), primo segno della presenza umana che troviamo sul nostro cammino (eccezion fatta per i sempre preziosissimi segnavia) e che raggiungiamo dopo un tornante dx ed uno sx. All'alpe pieghiamo a destra (est) e scendiamo con qualche tornante, su marcato sentiero, ad intercettare una pista sterrata, che scende a sinistra del torrente di fondovalle. Superata una galleria paramassi, dopo breve tratto lasciamo la pista imboccando, sulla destra, il sentiero che scende verso nord-est, in una bella macchia di larici ed abeti (la prima che incontriamo in questa tappa). Dopo una radura ed una nuova macchia, il sentiero ci porta ad un ponticello sul torrente Vedello. Sul lato opposto imbocchiamo un ben marcato sentiero che segue la riva meridionale del lago artificiale di Scais (diga de scàes, m. 1484; il termine "scais" deriva, forse, da "scàja", scaglia). Il bacino artificiale, dalla capienza di circa 9 milioni di metri cubi d'acqua, è posto a 1494 metri, a 3 km da Agneda, proprio alla confluenza della val Caronno e della val Vedello.


Il lago di Scais

Al termine del sentiero siamo alle Case di Scais (cà de scàes, m. 1510). Potremmo pensare che si tratta delle baite dell'alpe di Scais, sommersa dal bacino artificiale, ma così non è: vennero costruite per ospitare gli operai che lavorarono all'edificazione della diga, terminata negli anni Trenta del secolo scorso. La Guida alla Valtellina del CAI di Sondrio (cit.) ci offre un'idea di come apparissero questi luoghi prima dell'imponente manufatto: "Raggiunto in circa venti minuti il fondo del piano in cui giace Agneda, la via sale a stretti risvolti un gradino di rocce interpolate da pascoli e boschi di piante di parecchie specie. A sinistra, entro una spaccatura, precipita in ripetute cascate il grosso torrente. La scena è tra le più variate e più attraenti. In cima il torrente scorre lento in piano, e lo si passa sopra un ponte in legno in luogo così pittoresco che par proprio di trovarsi in un ridente giardino. Poi si entra in una vasta prateria circondata attorno da monti coperti di boschi. In fondo stanno le capanne di Scais (1466 m.), in parecchie delle quali si può passare assai comodamente la notte sul fieno."


Apri qui una fopomappa del sentiero che sale al rifugio Mambretti

Alle case di Scais troviamo un bivio al quale seguiamo le indicazioni del sentiero 215 che indica il sentiero che sale in 20 minuti alle baite di Caronno, in un'ora e 30 al rifugio Mambretti ed in 3 ore e 20 minuti al passo della Scaletta (che si affaccia sulla Val Seriana, poco a monte del rifugio Baroni al Brunone).
Prendiamo, dunque, a destra (est), passando accanto ad un edificio che colpisce per le eleganti decorazioni in legno che ornano gli spioventi del tetto: si tratta dell'ex-rifugio Guicciardi, riconoscibile anche per la bandiera italiana. Venne costruito dalla sezione valtellinese del CAI nel 1898, e ceduta all'ing. ed alpinista Messa nel 1924, dopo la costruzione del rifugio Mambretti: per questo ora viene chiamato capanna Messa.


Apri qui una panoramica della Val Caronno

Lasciata alla nostra destra un'ultima baita isolata ed attraversata una radura, affrontiamo la breve salita in pecceta che ci porta ai prati dell'alpe Caronno (caròn, m. 1610, toponimo assai diffuso su questo versante - cfr. le varianti Carona e Caronella -, forse dal latino "quadra" o da nome di persona), dove si trovano le tre baite omonime e dove il torrente omonimo scorre pigro, alla nostra destra. Vediamo anche un bel ponte in legno che lo attraversa, da sinistra a destra, ed introduce all'antico sentiero per il passo della Scaletta, un tempo assai frequentato. Sul lato opposto si trova anche una caratteristica fascia di grandi massi erratici, i càmer, ricoveri di pastori; fra questi, la caratteristica "tana de l'ùrs", nel cui nome rimane l'eco suggestiva del tempo nel quale gli orsi vagavano ancora fra questi monti.


Apri qui una fotomappa della salita dal lago di Scais al rifugio Mambretti

Noi, però, restiamo sul lato sinistro, seguendo le indicazioni di un cartello, che dà il rifugio Mambretti ad un'ora di cammino. Aleggia qui una sommesa poesia: oltre il limite degli alberi, in fondo ai prati, occhieggiano le prime cime della testata della valle (il pizzo Brunone), ma si annunciano discrete, mentre non si mostrano ancora le vette più alte e famose (le punte di Scais e Redorta).


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Attraversato il pianoro, riprendiamo a salire, con pendenza moderata, ed attraversiamo, alla bell'e meglio, aiutati da tronchi, per due volte altrettanti rami del torrente Caronno. La salita si fa, ora, più decisa, ed accanto ai più recenti segnavia bianco-rossi possiamo vedere ancora qualche "storico" segnavia giallo-rosso. la salita, che segue il filo di un ampio dosso, si stempera un po' ad una radura, poco sopra i 1800 metri, per poi riprendere decisa, con varie serpentine. Un cartello che invita gli escursionisti a portare legna al rifugio Mambretti ci fa capire che la prima tappa non è lontana. Qualche fatica ancora, fra rododendri, pini mughi e larici sempre più radi, ed ecco che il sentierino esce all'aperto: vediamo, in alto, leggermente a sinistra, il rifugio, con il simpatico tetto rosso, posto su una piazzola che si apre su un largo dosso erboso; un ultimo strappo ci porta alla capanna.


Alpe Caronno

Il rifugio è stato costruito nel 1924; su una targa leggiamo che esso è dedicato "alla memoria di Luigi Mambretti, caduto sulla punta di Scais il 7 settembre 1923", a soli 27 anni, e che è stata posata dalla sezione valtellinese del CAI il 25 settembre 1925. Ricordiamo che il rifugio non è custodito, per cui chi desidera utilizzarlo deve procurarsi le chiavi presso il sig. Arialdo Donati, Ispettore della sezione valtellinese del CAI (tel.: 0342.482.000); si possono, peraltro, ritirare le chiavi anche presso i guardiani della diga di Scais, pagando una quota per il pernottamento e lasciando in deposito un documento che si ritira alla riconsegna delle stesse. Ricordiamo che può ospitare fino a 25 persone e che, in caso di emergenza, si può fruire del localetto invernale (2 posti): ovviamente chi percorre la Gran Via delle Orobie troverà qui ricovero per la notte.


Apri qui una panoramica del rifugio Mambretti e della testata della Val Caronno

Sostiamo, ora, per breve tempo, quel tanto che basta per ascoltare la storia dell’ultimo orso dell’alpe di Scais, ucciso sul finire dell’Ottocento. La racconta Bruno Galli Valerio, naturalista ed alpinista che molto amava queste montagne: “E là allora, gli altri raccontarono dell'enorme orso che vagava nel bosco del Mottolone terrorizzando l'alpe di Scais e di Caronno, dove di quando in quando appariva per impossessarsi di una capra. Ecco là, sì, era un orso! Un giorno l'avevano visto entrare sotto un enorme blocco che formava come una specie di caverna. Si apprestarono a cercare su tutti gli alpeggi dei fucili, e li sistemarono intorno all'ingresso della caverna con un sistema di funicelle e di leve che dovevano uccidere l'animale con una scarica formidabile. Ma Martino, coi sui piccoli occhi, li guardava fare dal fondo del suo nascondiglio e sorrideva. E tutti all'alpe di Caronno, là nella notte, tendevano le orecchie. Si aspettavano ad ogni istante la scarica dei fucili. Ma all'improvviso si udirono i gridi spaventosi di una capra che veniva sgozzata.


Il rifugio Mambretti

- L'orso! tutti esclamarono rannicchiandosi nella piccola baita. - Giunta l'alba, andarono a vedere. Era scomparsa una capra. Salirono alla grotta: tutti i fucili erano ancora al loro posto e i colpi non erano partiti. Girando intorno al masso si accorsero che sotto i cespugli, quell'orso aveva un buco che comunicava con la grotta: Martino se ne era uscito tranquillo da lì lasciandovi solo qualche pelo e aveva ricominciato le sue scorribande. E un giorno, infine, G. Bonomi andò a cercarlo nel bosco del Mottolone. I due giocarono per qualche momento a nascondino. Poi si incontrarono faccia a faccia e il Bonomi con un sol colpo di fucile lo uccise. Quello fu l'ultimo orso di Scais”. (Bruno Galli Valerio, “Punte e passi”, a cura di Luisa Angelici ed Antonio Boscacci, Sondrio, 1998).


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Uno sguardo, infine, alla splendida parata di cime che sta di fronte a noi, a sud. Sul vertice di sinistra della valle riconosciamo l'appuntita ed adunca del pizzo Porola (m. 2981), che sembra esprimere tutto il suo disappunto per quei 19 metri che lo privato dell'onore di entrare, come quatro, nell'elite dei "tremila" orobici. Poi, a destra, l'imponente avancorpo della cresta Corti ci priva della vista della punta di Scais (m. 3038), che si nasconde dietro la sua sommità. Infine, poco più a destra, defilato ma riconoscibile, il pizzo Redorta (m. 3038).


Il rifugio Mambretti

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