Farà piacere, forse, leggere alcune pagine dal romanzo storico del 1867, di C. F. Meyer, "Jürg Jenatsch", di C. F. Meyer, nelle quali viene menzionata anche Buglio. Vi si narra la vicenda dell'eroe grigione, protestante e nemico del partito cattolico, che fu per breve tempo pastore di Berbenno. Di qui dovette fuggire rocambolescamente, per scampare al cosiddetto "Sacro macello valtellinese". Tornato in patria, uccise Pompeo Planta, capo del partito cattolico e filospagnolo grigionese, convinto che fosse contrario agli autentici interessi del popolo grigione. Maturò, però, successivamente la convinzione che la successiva alleanza fra Grigioni e Francesi, contro Spagnoli ed Imperiali, non corrispondeva agli interessi strategici dei Grigioni, in quanto la Francia non avrebbe mai permesso a questi di tornare in possesso della Valtellina e delle Contee di Chiavenna e Bormio. Di qui la sua sofferta decisione di rinnegare la fede protestante e convertirsi al cattolicesimo; di qui la sua azione politica, coronata da successo, per indurre i Grigioni a quel rovesciamento di alleanze (distacco dalla Francia, riavvicinamento alla Spagna) che condusse alla fine delle guerre di Valtellina, con il Capitolato di Milano del 1639. La Valtellina era, con esso, riconsegnata alle Tre Leghe Grigie, con la clausola che il solo culto cattolico vi fosse ammesso. Il romanzo si chiude, però, in modo tragico: Rodolfo Planta, nipote di quel Pompeo Planta che lo Jenatsch aveva ucciso a colpi d'ascia, proprio nel momento in cui si festeggia il recupero della Valtellina, ordisce una congiura per assassinare l'eroe del momento. I sicari lo circondano, ed il suo destino è segnato. Non cadrà, però, per loro mano, ma ucciso da Lucrezia, figlia di Pompeo Planta, profondamente innamorata di lui. Costei, che pure lo ama, lo uccide con la medesima ascia che lo Jenatsch aveva usato per assassinare il padre, al fine di impedire che cada per mano dei nemici. Con questo tragico ed ambiguo gesto, nel quale si può leggere l'amore per l'eroe ma anche un inconsapevole desiderio di vendicare il padre (non a caso di questo personaggio si interessò anche Freud, nel tratteggiare le caratteristiche del complesso di Edipo al femminile), si chiude, tragicamente, il romanzo storico. Le pagine che seguono raccontano la visita allo Jenatsch, pastore a Berbenno, del giovane amico zurighese Waser, il successivo viaggio per visitare il forte spagnolo di Fuentes, lo scoppio del "sacro macello" e la caccia al protestante anche in quel di Berbenno, la convulsa fuga finale del pastore e dell'amico. Agli elementi storici si aggiungono, ovviamente, elementi di ricostruzione fantastica e congetturale, come in ogni romanzo storico; pesano anche le convinzioni dell'autore, soprattutto quella della superiorità morale dei protestanti rispetto ai cattolici. Nondimeno, lette in un'ottica critica, queste conservano anche un qualche valore di ricostruzione storica. Le pagine riportate (nella traduzione di Giuseppe Zoppi, per la collana BUR della Rizzoli) sono tratte dalla prima parte del romanzo; si aprono con il suggestivo, anche se alquanto caricato nei toni della descrizione del fanatismo cattolico, viaggio dell'amico Waser dal passo del Muretto a Berbenno, e si chiudono con il racconto del tragico assalto contro i protestanti a Berbenno e la fuga dello Jenatsch che scampa alla morte. Fra i personaggi compare anche "l'onesto Fausch", amico dello Jenatsch e pastore a Buglio.

CAPITOLO TERZO

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Raggiunsero il sommo del passo più in fretta di quanto Waser si fosse aspettato. Di lassù, verso il sud, lo sguardo dominava un oscuro ammasso di montagne, coronato di cime. Waser s'informò del nome di quel minaccioso gigante. — Ve ne sono molti, — rispose Agostino. — Qui lo chiamano diversamente da noi a Sondrio. Qui si chiama Monte della Disgrazia e da noi Monte del Dolore. — Spiacevolmente impressionato da queste denominazioni infauste, Waser lasciò andare innanzi il suo laconico compagno e, senza perderlo di vista, rimase un tratterello indietro, per abbandonarsi da solo, nella robusta aria montana, alla libera gioia del cammino.
Così s'andò giù per ore lungo il Malero schiumoso, rumoreggiante fra i sassi, mentre il sole ardeva sem­pre più intenso nella strettura della valle. Ora i castagni, sorgenti poderosi sullo sfondo delle praterie, cominciarono a coprir d'ombre il sentiero, e le prime pergole di vite sembrarono, coi loro pampani oscillanti, far cenni e cenni di saluto. Sulle colline scintillavano chiese magnificamente ornate, e il sentiero si mutava sempre più spesso in ben selciata via di villaggio. Infine attraversarono l'ultima gola, e davanti ai loro occhi stette, nell'aureo odorato lume della sera, la Valtellina larga e rigogliosa, coi suoi caldi vigneti, con le sue risaie paludose.
— Là è Sondrio, — disse Agostino a Waser che ora gli camminava nuovamente al fianco. E gli mostrò una città italiana con palazzi e torri luccicanti che allo Zurighese, appena uscito dalle alpestri solitudini, attraverso la stretta apertura di quella specie di porta rocciosa apparve come un magico ridente incanto.

—Paese allegro il tuo, Agostino, — esclamò Waser - lodevole Sassella, la perla dei vini! Ci è gelato in aprile, — replicò malinconicamente Agostino, — in punizione delle nostre colpe. Peccato, — ribatté Waser. — Ma quali colpe avete mai commesse?
— Tolleriamo fra noi la velenosa lebbra dell'ere­sia; ma fra breve ne saremo purificati, e la carne marcia sarà amputata. I Morti e i Santi in assemblea solenne han bilanciato il pro e il contro, l'otto maggio a mezzanotte là a San Gervaso e Protaso, — accennò a una chiesa che sorgeva innanzi a loro; — il custode ha sentito bene, e dallo spavento s'è ammalato: hanno disputato ardentemente... ma il nostro San Carlo, il cui voto vale per venti, ha vinto.
E non osservando con che espressione beffarda il suo compagno lo sbirciasse, Agostino fece ora ciò che lungo il cammino aveva sempre fatto appena s'imbattesse in una croce o in un'immagine sacra: giunto davanti a un variopinto tabernacolo della Madre di Dio, depose la gerla, si gettò in ginocchio, e stette immobile a guardare tra l'inferriata con occhi ardenti.
—Ha visto come mi accennava, — disse, come fuori .di sé, quando si furono rincamminati.
—Certo, — rispose allegramente Waser. — Sem­bri esserle ben accetto. Ma che cosa dunque ti ha ricordato?
—Di uccidere mia sorella, — rispose lui con un profondo sospiro.
Con questo, pel giovane Zurighese, la misura era colma. — Addio, Agostino, — disse. — Sulla mia carta è segnato un sentiero laterale per Berbenno : è questo, nevvero? Così accorcio la via. — E fece scivolare una moneta nella mano del compagno. Waser si volse a destra fra i muri dei vigneti, contornando i piedi della montagna, e, dopo breve cammino, scorse il villaggio di Berbenno — la sua mèta — quasi nascosto nel verde ombroso dei castagni. Un ragazzo seminudo gli indicò la canonica: una povera casa, ma circondata e coperta sul davanti da Una tale magnificenza di foglie e di grappoli, da così rigogliose corone di prepotenti pampini, che la costruzione meschina ne scompariva. Un largo tetto di pali intrecciati, sostenuto da tarlate colonne di legno, era nello stesso tempo sostegno a quella grave ricchezza, e atrio della casetta. Sopra, sulle calde foglie verdeoro, giocavano gli ultimi raggi del sole; sotto, giaceva tutto in profondissima ombra.
Mentre Waser si rimirava questa non mai veduta libera abbondanza, comparve sulla porta una figuretta lieve lieve, e, come uscì dalla verde ombra, ecco fu una bella donna, quasi ancora una fanciulla, che, andando per acqua, si portava la brocca sul capo. Il suo braccio nudo sosteneva facilmente il vaso posato sulle folte nere trecce; s'avvicinava movendosi con aerea grazia, le ciglia chine. Quando poi Waser, salutandola cortesemente, le stette innanzi, ed ella alzò su di lui i soavi occhi lucenti, gli parve di non aver mai visto in vita sua una così trionfante bellezza.
Quando egli le chiese del signor pastore, con la mano libera ella indicò tranquillamente, oltre la pergola e l'ombroso vestibolo, una porticina posteriore della casa, per cui entrava l'aureo lume del tramonto. Di là, con gran meraviglia di Waser, risonò a un tratto un canto di guerra :
Nessuna morte più bella
che per la man del nemico...
La canzone del lanzichenecco tedesco, che esprimeva nello stesso tempo in note sonore la gioia di morire e il coraggio di vivere, non poteva venire — su questo non c'era dubbio — che dalla gola possente del suo amico. Infatti eccolo là inginocchiato ai piedi di un robusto olmo, in atto di affilare alla mola — lui, parroco di Berbenno un gigantesco spadone.
Dalla sorpresa, Waser rimase lì un istante, impa­lato. Jenàtsch lo scorse, gettò la spada fra l'erba, d'un salto fu in piedi, allargò le braccia e, gridando : — O Waserino del mio cuore, — strinse l'amico sul suo largo petto.

CAPITOLO QUARTO

Quando il nuovo venuto si fu staccato dall'abbraccio del pastore, i due si misurarono reciprocamente con lieti sguardi.
Waser era un po' sbalordito; ma riuscì a non lasciarlo punto trasparire. Si sentiva un pochino umi­liato accanto alla statura atletica del Grigione, dalla cui nera testa barbuta emanava come uno splendore di forza selvaggia. La potenza di una volontà sfrenata, dopo essere stata assopita nei lineamenti foschi, quasi sonnolenti del suo compagno di scuola, s'era svegliata, scatenata — egli lo sentiva — agli sbaragli di una vita pubblica tempestosa.
Jenàtsch, da parte sua, era visibilmente contento dell'aspetto sciolto e lindo dell'amico che gli stava innanzi, con occhi prudenti e modesti, tuttavia a modo suo sicuro. Inoltre, in quella sua segregazione, era ben lieto di potersi intrattenere con un rappresentante della civiltà cittadinesca.
Con un cenno del capo il Grigione invitò il suo ospite a sedere sulla panchina che girava intorno all'olmo, e gridò con voce tonante : — Del vino, Lucia!
La bella donna tranquilla, che Waser aveva incontrato entrando in casa, recò ben presto due boccali colmi e, con un inchino insieme amabile e timido, lipose sulla panca, fra i due, riallontanandosi subito, umilmente.
- Chi è questa leggiadra creatura? — domandò Waser, seguendola con uno sguardo di compiacimento.
- Mia moglie. Capirai che qui, in mezzo agli idolatri... — Jenàtsch sorrise, — un pastore protestante non poteva rimaner celibe. È uno dei nostri capisaldi. Inoltre, l'attuale tepido governo, che mi voleva fuori dei piedi e che per punirmi mi mandò in questa parrocchia solitaria, m'ingiunse espressamente di strappare quante più anime potessi al pantano della superstizione. Questo fu il mio onesto proposito. Ma finora m'è riuscita una sola conversione: quella della bellissima Lucia. E come? Mettendo in pegno la mia stessa persona.
- È veramente bella oltre misura, — osservò Waser, pensoso.
- Giusto abbastanza per me! — disse Jenàtsch, porgendo al suo ospite uno dei boccali, e recandosi l'altro alle labbra. — È la soavità in persona. Per amor mio deve soffrir molto da parte dei suoi parenti cattolici. Ma che diavolo d'un magnifico corno da polvere mi hai addosso? Questo è bene un a pezzo ereditario della famiglia Alexander!... Il vecchio a Pontresina è morto, ed esso passa giustamente al prode Biagio, il mio collega di Ardenno. Di questo potrei invidiamelo. Ma come mai tocca proprio a te di portarlo in Valtellina?
- Ciò fa parte delle mie esperienze di viaggio : più tardi te le racconterò minutamente, — rispose Waser, il quale fra se stesso non sapeva ancor chia­ramente fino a che punto dovesse svelare l'avventura ammonitrice del Maloggia, senza esser trascinato contro il suo proposito, da quell'amico di sangue caldo, di confidenza in confidenza. — Ma ora, caro Giorgio, illuminami innanzi tutto intorno ai singolari avveni­menti che, in questi ultimi anni, hanno attirato l'attenzione di tutti i politici sulla tua patria. Quorum pars magna fuisti! Ne fosti il personaggio principale. — Su questo punto, almeno per ciò che riguarda la connessione dei fatti, puoi esser meglio informato di me, — rispose Jenàtsch ponendo il piede sinistro sulla mola e accavallando le gambe, — visto che lavori nella Cancelleria di Stato, e che i Signori di Zurigo non badano a spese pur di tenersi sempre al corrente. D'altronde tutto è andato molto naturalmente, secondo una stretta relazione da causa a effetto. Tu sai dunque, poiché nel vostro Consiglio la cosa sa­rà venuta spesso sul tappeto, che da anni Spagna e Austria comprano i cattolici dai Grigioni per ottenere la nostra alleanza e il libero passaggio delle loro bande guerresche, e che ora — indispettite di non aver raggiunto nulla attraverso i loro mercefiari — laggiù, — e accennò verso il sud, — contro tutti i trattati hanno costruito sulla soglia del nostro possedimento di Valtellina, come una minaccia quotidiana, il forte di Fuentes 3. Domani, se vorrai, Enrico, potremo visi­tarlo, e così, presso i tuoi graziosi Signori di Zurigo, potrai guadagnarti uno speciale favore con la descri­zione dell'oggetto di contesa visitato sul posto. Per noi questo forte fu un bel fastidio, ma infine non ne andava la vita. Ma poi, quando ogni uomo ben pen­sante acquistò la certezza che le potenze cattoliche si armano per una guerra a fondo contro il protestan­tesimo tedesco...
- Incontestabilmente, — osservò Waser.
Allora per la Spagna fu questione di vita l'assicurarsi a ogni costo una strada militare dal suo Stato di Milano al Tirolo, attraverso la nostra Val­tellina e le nostre montagne. Perciò il nostro partito spagnoleggiante doveva essere schiacciato io modo che non potesse rialzarsi mai più, mai più!
- Benissimo, — approvò lo Zurighese. — Tuttavia non avreste dovuto ricorrere a mezzi addirittura violenti; e il vostro tribunale popolare di Thusis avrebbe dovuto procedere un poco più secondo le debite forme, ed emanare condanne meno sanguinose!
- Sistemi grigioni! Chi, da noi, fa politica, ci rimette la testa. Ciò è nelle tradizioni e negli usi del paese. D'altronde le cose non sono poi andate tanto male. Fummo calunniati da libelli davvero eccessivi e i due Planta fecero il giro delle vostre diete e di tutti i paesi intorno per denigrarci e rappresentarci come malvagi.
- Fortunato Juvalt non legato a nessun partito, e stimato da tutti gli onesti, ha scritto a Zurigo che avete proceduto contro di lui in modo crudele.
- Questo pedante ebbe quel che si meritava. Nei tempi critici si deve saper prendere partito. Sta scritto: "e Vomiterò i tepidi dalla mia bocca".
- Si lamentava che testimoni falsi si sono levati contro di lui.
- Può darsi. Ma egli è sano e salvo: fu soltanto condannato a una multa di quattrocento corone per opinioni ambigue.
- Capisco, — continuò dopo un momento Waser, — che dovevate espellere dal paese Pompeo Planta e suo fratello Rodolfo; ma era forse neces­sario bollarli come comuni malfattori e minacciarli di pene patibolari, senza usar riguardo alcuno ai brillanti meriti dei loro antenati e alle profonde radici delle loro casate in paese?
- Miserabili! Traditori! — scattò Jenàtsch, lampeggiando di collera. — La colpa di tutti i nostriguai, di tutti i nostri impicci ricade su di loro, e così possa schiacciarli! Per i primi essi hanno tramato con la Spagna. Non una parola, Waser, in loro difesa!
Offeso da questa irruenza imperiosa, Waser disse con voce un po' eccitata e col sentimento di mettere il dito su una piaga: — E l'arciprete Niccolò Rusca?    Passava generalmente come innocente. —
— Credo che lo fosse, — sussurrò Jenàtsch, che a quel ricordo visibilmente non si sentiva troppo a suo agio e guardava fisso verso il crepuscolo.
Stupito di questa strana sincerità, l'altro tacque per un momento. — È morto sotto la tortura, troncandosi la lingua coi denti, — disse infine con aria di rimprovero.
Jenàtsch rispose con frasi corte, tronche: — Volevo salvarlo... Come avrei potuto immaginare che era tanto debole da non reggere ai primi gradi della tortura?... Aveva dei nemici personali. L'agitazione contro i pretonzoli romani voleva una vittima. I nostri sudditi cattolici qui in Valtellina andavano intimiditi. Accadde come sta scritto : "Meglio la morte di uno che non la rovina di tutto il popolo".
Come per scuotere da sé quella triste impressione, Jenàtsch s'alzò per condurre l'amico dal giardino ormai nereggiante in casa. Di sopra il muro si vedeva il campanile stagliarsi snello contro l'ultimo oro della sera.
— Del resto, l'infelice ha ancora numerosi partigiani, — disse. E poi, accennando alla chiesa : — E là, trent'anni or sono, disse la sua prima messa.
Nella stanza principale, che dava sul vestibolo, ardeva una lampada. Quando i due entrarono in casa, videro innanzi alla porta la giovane donna con un'amica che sembrava averla chiamata fuori, e andava sussurrandole qualcosa con gesti ansiosi. Dietro le due donne, nella via del paese ormai invasa dall'ombra del crepuscolo, passava gente correndo, e s'udiva un confuso vocio, da cui emerse acuto il grido d'una vecchia: — Lucia! Lucia! Quale spaventoso miracolo!
Jenàtsch, cui simili scene non dovevano esser nuove, cedendo il passo all'amico voleva varcare la soglia della stanza, quando la giovane donna gli si avvicinò e lo prese pel braccio. Waser; volgendosi, la vide levare le mani giunte, con sul volto un pallore di morte, verso il suo uomo.
— Va al focolare, bambina, òccupati tranquillamente della cena, — comandò egli amichevolmente, — in modo da farti onore presso il nostro ospite. — Poi si volse, sorridendo amaramente, a Waser: — Le pazze fantasie di questi Italiani! Non mi raccontano che il defunto arciprete Rusca se ne sta là in chiesa a dir la messa!... Voglio piombargli addosso, a questo miracolo. Vieni anche tu, Waser?
A costui corse un brivido per la schiena. Ma prevalse la curiosità e: — Perché no? — disse con voce coraggiosa. Poi, mentre seguivano lungo la via, verso la chiesa, quella folla di gente scombussolata, domandò con un fil di voce: — L'arciprete non è veramente più in vita?
Perdinci! ribatté il giovane pastore; — ero presente anch'io quando a Thusis lo sotterrarono ai piedi della forca.
Ora, per la porta principale, entrarono in chiesa. La navata che attraversarono, per la celebrazione del culto protestante era stata spogliata di ogni arredo sacro, e, all'infuori dei banchi per gli uditori, conteneva soltanto il battistero e un pulpito privo di ornamenti. Un assito, in cui s'apriva una porticina, separava da essa il vasto coro rimasto ai cattolici e adattato da essi a cappella.
Quando Jenàtsch entrò, si trovarono dirimpetto all'altare i cui arredi e il cui crocifisso d'argento, nell'ultimo barlume entrante per una finestruola ad arco, si riconoscevano appena. Innanzi ad essi si stringeva una folla inginocchiata e mormorante: donne, storpi, vecchi. Lungo le pareti si avanzavano miserabili figure di uomini che, guardando, tendevano innanzi i lunghi magri colli e si premevano convulsamente il cappello sul petto.
Sull'altare principale ardevano due lugubri ceri la cui luce combatteva con l'ultimo lume del crepuscolo baluginante dal di fuori. Le due fiammelle si movevano in una corrente d'aria lasciata entrare da un vetro rotto: essa minacciava di spegnerle: ombre danzanti facevano sull'altare uno strano gioco. Il vento moveva a volte, con lievi schiocchi, le pieghe, lievemente balenanti, della tovaglia. Sensi eccitati potevano benissimo scorgervi come la bianca veste d'un sacerdote inginocchiato sui gradini.
Jenàtsch s'avanzò con l'amico nel passaggio mediano della chiesa, avvertito appena dagli uni sprofondati nell'estasi, inseguito da altri con sguardi cattivi, ostili, e con maledizioni a voce bassa, ma non trattenuto da nessuno. Ora, nella sua atletica statura, visibile a tutti, se ne stava dirimpetto all'altare; ma innanzi a questo, già s'era assiepato minacciosamente un buon numero di sinistri figuri, come per far scudo di sé contro un sacrilegio. A Waser parve di veder lampeggiare pugnali.
— Che razza di stregoneria è mai questa! — esclamò Jenàtsch con voce sonora.-. Lasciate che io la infranga.
— Sacrilegio! — brontolava la folta schiera dei Valtellinesi stringendosi in cerchio intorno a lui. Due vollero afferrargli la mano levata; altri si gettarono alle sue spalle; ma egli se ne liberò con uno strattone potente. Per farsi aria anche davanti, afferrò con mano di ferro il più vicino dei suoi assalitori e lo scaraventò all'indietro contro l'altare. Costui batté con le braccia contro i gradini, allungando i piedi nudi verso la folla e affondando la nuca arruffata nella tovaglia dell'altare. Lampadari e reliquari tintinnirono; s'alzò un lungo e penetrante grido di dolore.
Questo momento di confusione fu la salvezza di Jenàtsch. Ne approfittò rapido come il lampo; traendosi dietro l'amico, attraversò a forza la folla che gli si raggomitolava attorno; raggiunse la sagrestia, uscì all'aperto insieme con Waser, s'affrettò verso casa.
Giunto fra le sicure pareti domestiche, il padrone spinse uno sportello e gridò verso la cucina: In tavola, Lucia cara!
Intanto Waser si scrollava dalle vesti la polvere del tafferuglio, si rimetteva in ordine polsini e gorgiera.
Imposture di preti! — disse, mentre attendeva con cura a quell'operazione.
- Forse, forse anche no! Perché non dovrebbero avere visto qualcosa? Un fantasma? Tu non sai quali ingannevoli vapori si levino su dalle paludi di quest'Adda? Peccato per questo popolo che altrimenti non è poi così cattivo. Nell'alta Valtellina vive una razza addirittura eccellente, diversa in tutto da questa.
- Voialtri Grigioni non avreste fatto meglio a conceder loro alcune limitate libertà civili? — obiettò Waser.
— Io avrei concesso non solo i diritti civili, ma anche i diritti politici. Sono un democratico, lo sai. Ma qui c'è un guaio. I Valtellinesi sono cattolici arrabbiati; insieme con la terza parte, che pure è papista, del nostro paese nativo, farebbero dei Grigioni uno stato cattolico: il che Dio non voglia!
Frattanto l'incantevole Lucia, ora molto abbattuta, aveva messo in tavola il risotto tradizionale del paese; e il giovane pastore riempì i bicchieri.
Al successo delle armi protestanti in Boemia! — esclamò, toccando con Waser. — Peccato che hai rinunciato al tuo piano e che, quindi, non sei a Praga. In questo momento forse vi si sparano i primi colpi. — Può ben darsi che sia più glorioso per me l'essere qui presso di te. Secondo le notizie più recenti, è lecito dubitare che il conte palatino sappia ben condurre lo stallone su cui s'è accomodato così galantemente. Non c'è dunque proprio nulla di vero nella notizia che voialtri vi siete alleati con la Boemia?
— Poco, purtroppo. Peraltro un paio di Grigioni sono partiti; ma niente affatto la gente che ci voleva.
— Avete osato molto!
— Al contrario: abbiamo osato poco! Non si guadagna se non si gioca tutto. Il nostro Governo è ne­gligente da far pietà. Soltanto mezze misure! Eppure abbiamo rotto i ponti, troncato o quasi le relazioni con la Spagna, respinta villanamente la mediazione della Francia. Non possiamo contare che su di noi. Fra un paio di settimane gli Spagnuoli di Fuentes possono irrompere qui: non s'è provveduto, lo puoi credere, Waser?, a nessuna difesa. Sono state scavate appena un paio di trincee, mobilitate un paio di compagnie che oggi vengono e domani si squagliano. Non disciplina, non denaro, non un capo! E il tuo amico, pel suo intervento arbitrario (come essi dicono), intervento che secondo loro non s'addice alla sua gioventù e al suo ministero, l'hanno tagliato fuori da ogni influenza sulla cosa pubblica, e relegato, il più lontano possibile dalle loro sale governative, in questa parrocchia di montagna. E il venerabile Sinodo mi ammonisce di predicare una pigra tranquillità, mentre già volano sulla mia patria, pronti a calare sulla preda, gli avvoltoi spagnuoli. È  da impazzirne! Ogni giorno aumentano i segni che qui, fra i Valtellinesi, cova una congiura. Non posso più a lungo starmene a vedere. Domani voglio intraprendere io stesso una ricognizione verso Fuentes, tu vieni con me, Waser, ho un pretesto decente, e posdomani cavalchiamo insieme fin dal Capitano grigione a Sondrio. È proprio soltanto capace, questo vampiro, di spillar sangue a questo grasso paese che domani possiamo perdere. Ma voglio metterlo al muro, voglio fargli uscir da tutti i pori il sudorino della paura. Tu mi aiuterai, Waser.
- Infatti, — osservò questi con un fare esitante e misterioso, — durante il mio viaggio pei Grigioni, anch'io ho avuto vento di qualcosa che forse si prepara.
- E me lo dici solo adesso, figlio della malora! —esclamò l'altro, aspro e teso. — Racconta subito tutto, punto per punto. Hai sentito qualcosa? da chi? cosa?
- Waser si ordinò rapidamente in testa l'accaduto per presentarlo al suo violento amico in modo conveniente.
— All'Ospizio del Maloggia... — cominciò cautamente.
- Ci sta come oste lo Scapi, un Lombardo, dunque uno che se la intende con gli Spagnuoli. Avanti!
- Ho sentito accanto alla mia camera, veramente così fra il sonno, un colloquio. E ho creduto che si parlasse di te... Chi è Robustelli?
- Jacopo Robustelli, di Grosotto, è un solenne ribaldo, un cavaliere dei miei stivali, arricchitosi come accaparratore di grano e fatto nobile dagli Spagnuoli, patrono e complice di tutti i malandrini e di tutti i briganti, capace di ogni misfatto e di ogni tradimento!
— Questo Robustelli, — disse Waser con insistenza, — se ho sentito bene, vuol farti la festa.
- Possibilissimo. Ma non è questo che più importa. Chi era l'altro con cui tramava?
- Non ho udito il suo nome, — rispose lo Zurighese che si recava a dovere di tenere il segreto al signor Pompeo e, quando Jenàtsch lo guardò minaccioso, continuò cordiale: — E se anche ne sapessi il nome, non te lo direi!
— Lo sai!.. Fuori il nome! — incalzava Jenàtsch. Giorgio, tu mi conosci! Sai che queste maniere forti non le tollero: astientene, per favore, — si difendeva Waser, con una faccia per quanto possibile fredda.
Allora l'altro gli mise in atto carezzevole il forte braccio intorno alle spalle, e gli disse con tenerezza calorosa: — Sii schietto, Waserino del mio cuore! Non farmi torto! Non a me io penso, ma al mio carissimo paese dei Grigioni. Chi sa, forse pende dalle tue labbra la sua salvezza e la vita di migliaia di uomini!
— Qui il tacere è questione d'onore, — ribatté Waser, e tentò di sottrarsi a quell'abbraccio appassionato. Ora, sul volto del Grigione passò come una vampa oscura. — Perdio! — gridò stringendosi a sé l'amico, — se non parli, ti strozzo! — E siccome questi, sgomento, ancora taceva, afferrò il coltellaccio con cui aveva tagliato il pane e ne diresse la minacciosa punta contro la gorgiera di Waser.
Costui avrebbe certo resistito ancora, perché inti­mamente era sdegnato; ma, a un incauto movimento ch'egli fece per sottrarsi, l'acuta punta d'acciaio gli fece una scalfittura nel collo, e due gocce di sangue gli scivolarono giù, sinistramente calde, verso la gorgiera.
— Lasciami, Giorgio! — disse, impallidendo un poco. — Voglio mostrarti una cosa! — Prima si trasse fuori la sua bianca pezzuola e s'asciugò con cura il sangue; poi il suo librettino tascabile, lo aprì alla pagina contenente lo schizzo delle colonne del Giulio, lo depose sulla tavola davanti a Jenàtsch, il quale in fretta lo afferrò. Al primo sguardo gettato sul disegno, egli s'imbatté nelle parole scritte da Lucrezia fra le due colonne, e si sprofondò a un tratto in cupa meditazione.
Waser, che lo osservava in silenzio, si sgomentò dell'impressione prodotta su Jenàtsch dal messaggio di Lucrezia, da lui suo malgrado recato. Non aveva potuto sospettare come l'acume di quel Capopopolo avrebbe indovinato la connessione dei fatti, e con quale sicurezza e implacabilità li avrebbe riallacciati l'uno all'altro. Dolore e collera, ricordi teneri e decisioni aspre, sembravano a vicenda tenere in balia quel suo viso, rivolto ora per metà altrove. — Povera Lucrezia! — lo udì Waser sospirare dal profondo del petto. Poi la sua espressione divenne sempre più enigmatica, chiusa, per farsi infine dura, impenetrabile. — Erano sul Giulio... Suo padre è dunque nei Grigioni. Superbo signor Pompeo, hai come complice un Robustelli.. Sei caduto bene in basso! — disse quasi tranquillo.
D'un tratto balzò in piedi : — Perdonami, Waser, quella mia maledetta furia. Già a scuola ne hai avuto a soffrire, e ancor oggi non so dominarla! Va a letto, e dimentica nel sonno la tua brutta avventura!... Domani, nella frescura del primo mattino, su due muli irreprensibili cavalchiamo verso Fuentes. Troverai in me il compagno sopportabile d'un tempo. E, cammin facendo, potremo chiacchierare di molte cose.

CAPITOLO QUINTO

Il signor Waser si svegliò prima dell'alba. Quando aprì a fatica l'imposta contro cui s'era spinto e intrecciato strettamente il rigoglioso fogliame d'un fico, il suo spirito si dibatteva nel dubbio di opposti pensieri. S'era addormentato col proposito di lasciare al più presto il suo prepotente amico e di passare senza ritardo, per il primo sentiero buono, dalla troppo avventurosa Valtellina a Chiavenna. Ma un sonno ristoratore aveva attenuato queste impressioni del giorno prima e resa vacillante la sua decisione. L'affetto per il suo strano compagno di gioventù riebbe tosto il sopravvento. Come si poteva far colpa a quella natura violenta e, come egli diceva, punto nobilitata da una educazione cittadina, se, vedendo in pericolo e la patria e la vita, scattava? E non conosceva forse da tempo quei bruschi cambiamenti d'umore, quegli scherzi selvaggi e impetuosi? Una cosa, comunque, era ben certa: con una partenza improvvisa non avrebbe evi tato il male che poteva derivare dalle mezze confessioni che Giorgio gli aveva strappate a forza; se invece restava, avrebbe comunicato interamente all'amico ciò che aveva saputo e vissuto, in modo da acquistarne la fiducia e da sapere come mai le relazioni di Giorgio col padre di Lucrezia si fossero così aspramente guastate. Soltanto allora sarebbe venuto il momento di far valere la sua influenza conciliatrice.
Cavalcavano così, confidenzialmente chiacchierando, verso Fuentes. Jenàtsch non tornò sulle, cose del giorno avanti: era lieto come un chiaro d'attico. Quasi a cuor leggero accolse la relazione che Waser gli fece del suo viaggio, e rispose di buona voglia alle sue minuziose domande. Ma Waser venne a sapere assai meno, e anche cose meno importanti, che non s'aspettasse. Dopo un ultimo anno d'Università a Basilea, raccontava Jenàtsch, era tornato nel suo Domleschg. Là aveva trovato il padre morente e, dopo la di lui scomparsa, nonostante i suoi verdi diciott'anni, dai cittadini di Scharans era stato eletto pastore all'unanimità. Al Riedberg aveva fatto una visita sola, durante la quale era bensì entrato col signor Pompeo in discussioni politiche. Questioni personali non c'erano state; ma l'uno e l'altro ebbero l'impressione che fosse meglio evitarsi. Quando s'era levata la prima tempesta popolare contro i Planta, dal pulpito aveva sconsigliato i suoi compaesani dal parteciparvi: a quei tempi, era ancor d'avviso che un ecclesiastico non debba immischiarsi di politica. Ma quando vide che, in mezzo ai pericoli sempre crescenti, il timone dello Stato non aveva trovato un coraggioso pilota, la compassione pel suo popolo lo sopraffece. Certo aveva collaborato alla costituzione del tribunale di Thusis, da lui considerato come una sanguinosa necessità, e gli aveva assegnato il compito da svolgere. Invece la condanna dei Planta, le cui mene del resto eran note a tutto il paese, egli non l'aveva né favorita, né attenuata: era uscita dal popolo come un grido unanime.
Così il colloquio si volse interamente alla politica. Waser dapprima s'era bene sforzato di fissarlo sui ca­si personali dell'amico; ma fu sopraffatto e trascinato dalla violenza con cui Giorgio investiva i problemi politici. Questi, del resto, interessavano altamente lo Zurighese che li aveva meditati a fondo. Ma rimase atterrito e sconvolto dall'ardimento con cui Giorgio tagliava senza riguardo gli aspri nodi, la cui circospetta soluzione Waser considerava come il più alto compito e l'auspicato trionfo della diplomazia.
In questo rapido scambio di botte e risposte era appena appena riuscito ad avanzare un'unica timida domanda per sapere se, durante i torbidi nel Dom­leschg, Lucrezia avesse abitato al Riedberg. Come la sera prima, Giorgio s'era improvvisamente offuscato, e aveva risposto brevemente. Da principio. La fanciulla ha sofferto molto. È un saldo cuore fedele... Ma devo io portare le catene di una ragazza?... E per di più, d'una Planta? Pazzie! E vedi che ci ho posto fine.
A questo punto aveva spronato così violentemente il mulo, che questo balzò innanzi spaventato, mentre Waser teneva a stento in freno il suo.
Giunti ad Ardenno, si spinsero fino alla porta del pastore; ma questa era chiusa. Biagio Alexander non era in casa. Jenàtsch, che sembrava aver confidenza con le abitudini del suo solitario amico, girò attorno alla casetta cadente, trovò la chiave della porticina posteriore nella cavità d'un vecchio pero, entrò con Waser nella camera di Alexander. Offuscata dagli alberi d'un selvaggio giardino, questa non conteneva che una panca di legno lungo il lato a finestre, e una tavola tarlata su cui era deposta una grossa Bibbia. Accanto a quest'arma spirituale sogguardava fuori da un cantuccio anche un'arma materiale. Era un moschetto, eredità degli avi; ora Jenàtsch appese a un chiodo, sopra di esso, il corno da polvere, trofeo della guerra di Musso, portatogli dal compagno. Poi strappò un foglio dal libriccino di Waser e ci scrisse sopra : «Un pio Zurighese ti aspetta presso di me stasera al suono dell'Ave. Vieni a confermarlo nella fede!». E depose il foglietto sulla Bibbia, che era aperta al Libro dei Maccabei.
Il sole ardeva già in tutta la sua forza quando Jenàtsch mostrò al compagno la roccaforte elevantesi minacciosa dalla valle dell'Adda or divenuta più larga: il mostro, come egli diceva, che stendeva una zampa verso Chiavenna, anch'esso possedimento dei Grigioni, e l'altra verso la sua Valtellina. Sulla strada che conduceva alle mura si trascinava una lunga nube di polvere. Lo sguardo acuto del Grigione vi riconobbe una fila di pesanti carriaggi. Dal gran numero di questi egli arguì che Fuentes veniva approvvigionata per lungo tempo e per un forte presidio. E tuttavia girava pei Grigioni la voce che le truppe degli Spagnuoli erano state ridotte a metà dalle febbri malariche ivi imperversanti e che il soggiorno nella fortezza passava presso di loro come mortale. Ciò era stato confermato a Jenàtsch da un giovanissimo luogotenente della Franca Contea che a Fuentes s'era ammalato e che, per sottrarsi a una fine ingloriosa, aveva passato un paio di settimane all'aria montana di Berbenno. Per accorciare il tempo aveva portato con sé un libro spagnuolo, una storia così divertente, che gli pareva ingiusto di riderci sopra da solo, e che perciò aveva fatto conoscere al giovane pastore da lui frequentato con piacere, e ritenuto perfettamente capace, per lo spirito e la conoscenza della lingua spagnuola, di gustarlo. Questo libro era rimasto alla canonica, e Jenàtsch pensava di adoperare l'ingegnoso hidalgo Don Chisciotte — così suonava il titolo — come chiave per penetrare nella fortezza.
Ora, appunto, innanzi al primo carriaggio, s'aprì un portone dell'estremo vallo, e Jenàtsch stimolò la sua cavalcatura già stanca per ottenere più facilmente l'ingresso. Ma quando gli amici raggiunsero la fortezza, stava sul ponte levatoio, a sorvegliare l'entrata, un capitano spagnuolo, un compagnone aspro e giallo, soltanto pelle e ossa: la febbre l'aveva conciato così, divorando in lui tutto ciò che c'era da divorare. Misurò i nuovi venuti con gl'incavati occhi diffidenti, e quando Jenàtsch, cortesemente salutando, si informò della salute del suo giovane amico, si senti rispondere in breve così: — Partito. — E siccome poi, preso da un sospetto, domandò ancora per dove e per quanto tempo, non senza aggiungere che aveva fra mano qualcosa che apparteneva al giovane, lo Spagnuolo ribatté amaramente: — Per laggiù. Per sempre. Lei si può considerare suo erede. — E così di­cendo tese l'indice della sua mano ossuta verso gli scuri cipressi d'un camposanto. Poi diede un ordine alla sentinella, e volse ai due le spalle.
Siccome Jenàtsch non conosceva nessun altro mezzo per entrare nella fortezza rigorosamente sorvegliata, propose all'amico di cavalcare ancora fino alla riva del lago di Como che si vedeva scintillare amenamente a breve distanza. Presto ne raggiunsero l'estremità settentrionale, a un approdo. L'onda, animata dallo schioccare di chiare vele, alitava loro incontro. Il golfo era pieno di battelli appena scaricati e alleggeriti delle loro merci. Olio, vino, seta greggia e altri prodotti della grassa Lombardia venivano posti su carri e muli che li avrebbero trasportati oltre i monti. La piazza davanti al grande albergo offriva l'aspetto di un mercato variopinto: assordante il rumore, allegra la folla. I muli dei due amici s'aprirono a fatica la strada, passando via innanzi a corbe piene di turgide pesche e di odorose susine, fino alla porta dell'albergo. Nel cupo andito l'oste se ne stava in ginocchio davanti a un barile, e per quella ressa di ospiti assetati andava spillando un beveraggio rossastro, spumeggiante. Uno sguardo nella annessa mescita convinse. Jenàtsch che qui, fra tanto chiasso d'uomini e scodinzolio di cani affamati, non si poteva trovare un angolo tranquillo. Si volse perciò verso il giardino: que­sto formava un'unica folta pergola; i muri e le scalette d'approdo erano lambiti dalle onde.
Quando passarono per l'andito, accanto all'oste sempre circondato da un folto crocchio di contadini che gli tendevano brocche vuote, costui sembrò volere opporsi al proposito di Jenàtsch, ma in questo momento venne loro incontro dal giardino un paggio, vestito secondo una foggia straniera, il quale, volgendosi con un grazioso saluto a Waser, in leggiadro francese espose la seguente ambasciata: — Il mio illustre Signore, il Duca Enrico di Rohan, in viaggio per Venezia, dal giardino in cui sta riposandosi ha creduto veder scendere innanzi all'albergo due ecclesiastici riformati, e li prega, se mai preferissero sottrarsi alla calca, di non lasciarsi distogliere, per via della sua presenza, da una visita al giardino.
Visibilmente rallegrato da questo bel caso e dall'onore che gliene veniva, il signor Waser rispose, esprimendosi con qualche rigidezza, ma pure irreprensibilmente, nello stesso idioma, che lui e il suo amico chiedevano di ringraziare personalmente Sua Altezza del riguardo loro usato. Gli amici seguirono il bel ragazzo sotto i pergolati del giardino. Verso sud, esso aveva una sporgenza in guisa di balcone; attraverso le pareti di fogliame, ne venivano un scintillamento di vesti di seta e un chiacchiericcio di donne, sopraffatto a volte da un lieto grido puerile. Là, su cuscini di velluto, s'appoggiava una dama snella, pallida; parlava rapida, mutando a ogni istante l'atteggiamento del volto; si capiva che la vivacità del suo spirito non la lasciava pervenire a un riposo ristoratore. Davanti a lei, sulla tavola di pietra, sgambettava gridando di gioia una bambina di due anni, sostenuta per le manine da una graziosa cameriera. Risonava inoltre l'aria malinconica d'una canzone popolare, suonata sul mandolino, a rispettosa distanza, da un giovinetto italiano.
Il Duca, ritiratosi nel più tranquillo angolo del giardino, sedeva solo su un muretto lambito dall'onda, con sui ginocchi una carta geografica con cui andava dubitosamente paragonando le gigantesche montagne che gli sorgevano innanzi.
Ora Waser aveva raggiunto il giardino, e presentava, con un profondo inchino, se stesso e l'amico. Lo sguardo di Rohan rimase subito preso dall'aspetto, attraente nella sua selvaggia forza, dello Jenàtsch.
— Il suo abito mi indusse a crederla un ecclesiastico protestante, — disse, volgendosi a lui con interesse. — Sebbene c'incontriamo su questo suolo, e nonostante i suoi occhi neri, potrebbe dunque non essere un Italiano. Allora lei è bene un figlio della vicina Rezia, e perciò vorrei pregarla di darmi una chiara idea dei monti che attraversai ieri passando lo Spluga e che in parte mi vedo ancora innanzi. Questa carta m'ha lasciato in asso. Si segga qui, accanto a me. Jenàtsch considerò avidamente l'ottima carta, e vi si orizzontò subito. Con pochi tratti precisi schizzò al Duca un'immagine della situazione geografica della sua patria, ordinando l'intrico delle molte valli secondo i fiumi che vi nascono e s'incamminano per esse verso tre diversi mari. Poi venne a parlare dei numerosi passi alpini, e con sempre maggior calore, con predilezione, con mirabile competenza, ne mise in rilievo l'importanza militare.
Il Duca aveva seguito la rapida spiegazione con visibile piacere, con interesse crescente. Ora alzò su Jenàtsch, che gli stava in piedi accanto, il suo sguardo mite e penetrante, lasciandolo, per così dire, riposare su di lui.
Sono un uomo di guerra e me ne vanto, — disse,— ma vi sono momenti in cui stimo felici quelli che possono predicare al popolo: beati i pacifici. Oggi la stessa mano non può più reggere la spada dell'apostolo e la spada del generale. Siamo nel Nuovo Testamento, signor Pastore; non più nell'Antico, coi suoi profeti ed eroi. Passati sono i tempi della doppia missione d'un Samuele, d'un Gedeone Ognuno oggi attenda fedelmente al suo proprio ufficio. Considero come grave disgrazia, — e qui sospirò, — che nella mia Francia i pastori protestanti si siano lasciati trasportare dal loro zelo fino ad aizzare gli spiriti alla guerra civile. Tocca all'uomo di Stato assicurare i diritti civili delle comunità protestanti; al soldato il difenderli. L'ecclesiastico vegli sulle anime; altrimenti non fa che del male.
Il giovane Grigione arrossì, non senza malumore; e tacque.
In questo momento comparve il paggio, con la rispettosa notizia che la barca del Duca era pronta per la partenza. Rohan congedò i due amici con un benevolo cenno di mano.
Mentre cavalcavano verso casa, il signor Waser si diffuse in considerazioni sulla parte avuta in politica dal Duca, il quale proprio allora, nella guerra civile, aveva ottenuto combattendo una pace onorevole  pei suoi concittadini protestanti. Lo Zurighese credeva che sarebbe stata di corta durata e provava piacere a rappresentare al suo amico, coi più neri colori, la situazione di Rohan e dei Riformati francesi. Sembrava un po' risentito e un po' offeso perché, davanti al Duca, la sua persona accanto a Giorgio era rimasta nell'ombra, anzi scomparsa affatto. Dai tempi di Enrico IV - sosteneva egli — la politica francese mirava a pro­teggere i Protestanti in Germania contro l'Imperatore e l'Impero, a tagliar le gambe invece ai Riformati in casa propria. Col ristabilimento dell'unità statale, essa tendeva ad acquistar forza d'espansione verso l'estero. Ne derivava questa strana conseguenza: i Protestanti francesi dovevano soccombere, affinché ai Protestanti tedeschi restasse assicurato l'aiuto diplomatico e militare della Francia, di cui avevano tanto bisogno. Così pendeva sul Duca, nonostante l'altezza della sua posizione e del suo carattere, il triste destino di usare la sua forza in conflitti insanabili, e di perdere sempre più terreno alla corte di Francia. E ora, per aver la mano più libera appena fosse scoppiata la prossima tempesta, egli portava moglie e bambina a Venezia.
- Sei divenuto un diplomatico matricolato! — diceva ridendo Jenàtsch. — Ma non ti pare che su questa pianura regna un'afa spaventosa? Là c'è un granaio... Non sarebbe meglio che legassimo per un poco i nostri muli all'ombra, e che tu posassi il tuo saggio capo sul fieno?
Waser fu d'accordo. Poco appresso erano stesi tutt'e due sul giaciglio odoroso e s'erano assopiti.
- Quando Waser si risvegliò, Jenàtsch gli stava innanzi, e se lo veniva rimirando con occhio beffardo. — Eh, tesoruccio, che faccia raggiante mi fai su dormendo! — disse. — Parla, parla! Cosa sognavi? Della tua bella? Della mia fidanzata teneramente diletta, vuoi dire. Ciò non sarebbe fuori del consueto; ma in realtà feci un sogno meraviglioso.
- Ora capisco... sognavi di essere Borgomastro di Zurigo.
-   Proprio così... per un caso assai strano, — disse il giovane, raccogliendosi. — Sedevo nella sala del Consiglio e pronunciavo un discorso su questioni gri­gionesi... sull'importanza del forte di Fuentes. Quand'ebbi finito, il Consigliere più vicino si volse a me con le parole: «Sono interamente dell'opinione di Sua Eccellenza il signor Borgomastro». Mi guardai attorno cercando di lui; ma ecco che sedevo io stesso sulla sua poltrona e portavo sul petto la sua collana.
Anch'io ho sognato, — disse Jenàtsch, — e cose ben singolari. Tu sai, o forse non sai, che un astrologo ungherese esercita il suo mestiere a Coira . Con questo dotto, durante l'ultimo interminabile Sinodo, sono entrato di nottetempo in relazione, per vedere come stessero le cose.
- Per amor del cielo, l'astrologia! E sei un ecclesiastico! — esclamò Waser, sgomento. — Essa distrugge la libertà umana, il fondamento di ogni morale! Io sono un deciso fautore della libertà umana.
-Bene, benissimo! — continuò l'altro imperturbato. — Sia detto passando, non son riuscito a cavar dallo stregone nulla di sodo e di afferrabile. O non sapeva nulla, o temeva di essere tradito. Poc'anzi, in sogno, rividi il mio uomo: per conoscere il mio destino, pieno d'ira e d'impazienza, gli puntavo il  pugnale al petto. Allora si decise a mostrarmelo e, con le solenni parole: «Questo è il tuo destino!», tirò via la tenda dal suo specchio magico. Dapprima non vidi che un chiaro paesaggio lacustre. Poi emerse un muro coperto di verdura, e su di esso, con davanti la carta dei Grigioni, muto e pallido come l'abbiamo veduto or ora, sedeva Enrico di Rohan.

CAPITOLO SESTO

Così discorrendo, i due amici avevano trottato innanzi un buon pezzo sul polveroso stradone che risale la Valtellina. Già risplendevano in lontananza il castello e le mura di Morbegno.
Ora Jenàtsch guardava fissamente l'ultima giravolta del sentiero che correva con un grande arco fino a quella cittadina. Su di essa veniva innanzi lentamente un uomo a cavallo: piccolo, bruno.
— Benissimo! — esclamò Jenàtsch. — Qui fai una magnifica conoscenza! Quello è il Padre Pancrazio, un tempo, dieci anni fa, Cappuccino al convento di Almens e confessore delle monacelle di Cazis. Il suo convento gliel'abbiamo soppresso. Se tutti i Cappuccini fossero così buoni Grigioni come lui, e compagnoni così spiritosi, li avremmo lasciati in pace. D'allora in poi ha trovato ricovero nella casa d'un Ordine religioso in qualche luogo sul Lago di Como e conduce qui attorno, predicando e questuando, una vita errabonda.
— Non mi è sconosciuto, — replicò Waser. — L'anno scorso andava facendo collette a Zurigo pei poveri superstiti dello scoscendimento di Piuro e sottolineava con patetiche parole il lato buono di tali catastrofi, cioè che in questi casi angosciosi, al di sopra d'ogni divario di confessione, ci si tende cristianamente una mano fraterna. Poco appresso non mi vien sott'occhio, stampata, una predica dove, con mio dispetto e stupore, sostiene in grossolano linguaggio che lo scoscendimento era una sentenza ammonitrice e una punizione divina per aver tollerato l'eresia? Questo si chiama tenere il piede in due scarpe.
— Chi potrebbe farne carico a un Cappuccino e a un uomo pratico come lui? — rise l'altro. — Vedi, ha messo l'asinello al trotto, mi ha riconosciuto.
Sul suo asino, il quale, accanto a lui, portava anche due corbe piene, veniva innanzi trottando così rapido, che la polvere gli turbinava attorno. Ma l'allegro saluto che Waser s'aspettava, non venne. La corta figura di Pancrazio si avanzava in fretta, e allungava verso di loro la destra con gesti che dissuadevano, come se volesse far capire ai viaggiatori di voltare le cavalcature. Quando li ebbe ormai raggiunti, gridò: — Indietro, Jenàtsch! Non andare a Morbegno!
— Che significa questo? — chiese tranquillamente costui.
- Niente di buono, — replicò Pancrazio. — Miracoli e segni appaiono in Valtellina, il popolo è in agitazione, gli uni sono in ginocchio nelle chiese, gli altri caricano gli schioppi, affilano i coltelli. Non farti vedere a Morbegno, non tornare alla tua canonica, volta il mulo e fùggiti a Chiavenna!
— Come, come? E devo lasciare mia moglie? — proruppe Jenàtsch, — non avvertire i miei amici, il bravo Alexander e l'onesto Fausch nel suo paesino di Buglio? Mai più! Cavalco verso casa, naturalmente evitando Morbegno e passando oltre l'Adda. Il mio compagno, qui, il signor Waser di Zurigo, non conosce paura, e tu. Pancrazio, mi fai il piacere di venire con me. E pernotti a casa mia. I miei Berbennesi  non sono così abbandonati da Dio che non tengano in onore la cocolla di San Francesco.
Dopo breve riflessione, il Cappuccino acconsentì. — Per conto mio, infine... — disse. — Oggi sono io il tuo patrono e protettore; un'altra volta sarai tu il mio.
Così, con tutta la rapidità concessa alle loro cavalcature, mossero verso Berbenno; e, per quanto questi selvaggi avvenimenti non andassero molto a genio a Waser, egli fece buon viso a cattiva fortuna e si recò a onore di meritarsi quella lode di coraggio che gli era stata attribuita.
Sonava appunto la pacifica campana della sera, quando smontarono davanti alla canonica di Berbenno. Sotto i bassi archi d'ingresso della pergola stava un uomo serio e quadrato, di piccola statura, ma con una testa molto espressiva, in atto di considerare attento e pensoso il suo cappello, che si rigirava fra le mani d'ogni parte e teneva contro luce. Era un alto cappello a punta, di color nero.
— Che razza di profonde elucubrazioni mi fai, collega Fausch? — lo salutò Jenàtsch. Cos'ha dunque il tuo cappello? Squarciato in cima, vedo. Vuoi adoperarlo, d'ora innanzi, come canna di rinforzo per la tua voce di basso?
Tutto pensoso, il piccolo uomo replicò: — Guarda più da vicino, Giorgio mio. Gli orli sono bruciacchiati. C'è passata attraverso una palla, speditami da qualcuno dei tuoi Berbennesi, mentre scendevo giù pei vigneti. Naturalmente, secondo la loro intenzione, era diretta a te; di sopra il muro non si vedeva che la mia testa, la quale, come sai, somiglia appuntino alla tua. Mi prenda il diavolo, — continuò con maggior violenza, — se non getto la tonaca alle ortiche. Le parti sono inuguali : a noi è consentita soltanto la spada dello spirito, mentre la nostra carne è aggredita con ferro e fuoco.
Ricòrdati, Fausch, figlio mio, del tuo giuramennto di predicare il Vangelo usque ad martyrium —disse, dal fondo della pergola, la voce un po' sorda d'un uomo dalla barba grigia, che, seduto col torso eretto su una panchina all'ombra, si faceva mescere del buon Sassella dalla bella Lucia. Ma appena la gio­vane donna scorse il suo uomo, gli corse incontro, si strinse pallida e timorosa al suo fianco, come cercandovi protezione contro un'angoscia spaventosa.
Exclusive, Biagio, exclusive! Fino al martirio, ma senza entrarci! — rispose Fausch, rivolgendosi al suo collega, prendendogli il bicchiere e vuotandolo fino all'ultima goccia.
Intanto Jenàtsch fece fare all'amico zurighese la conoscenza del pastore Biagio, forte nella fede, e poi gli presentò ridendo il pastore Lorenzo Fausch, un compagno del "Buco" di Zurigo, di cui Waser si ricordava come d'un tipo d'un paio d'anni maggiore di lui, e alquanto sciamannato. — Quest'uomo ha avuto di poi una parte eminente nelle cose grigioni, — affermò Giorgio battendo al piccolino un colpo sulla spalla.
Padre Pancrazio sembrava conoscere benissimo i due pastori, e Fausch continuò nel suo eccitato discorso, rivolgendosi stavolta a Waser: — Lo crederesti, signor Zurighese? Mentre tu, nella tua illustre città. vai tutto costumato alla predica e, di sopra il libro di canto, fai castamente l'occhiolino alla tua bella, io, povero guerriero di Dio, non salgo mai al pulpito senza stringermi rabbrividendo nella schiena pel timore che il coltello o una pallottola dei miei parrocchiani non m'entri fra le spalle! Ma, — continuò dopo essere passato con gli altri nella stanza interna, — pastore, adesso, lo sono stato anche troppo! Questa esperienza, — e mostrò lo strappo nel cappello, — è stata decisiva. La misura è colma. Ho ereditato duecento fiorini, giusto abbastanza per avviare un mestiere sicuro. Via questa tonaca! — e pose la mano sul suo abito di religioso. — Aspetta, amico! — gridò Jenàtsch. — Lo facciamo insieme. Anche per me la misura oggi s'è fatta colma! Non una palla nemica scaccia me dal pulpito, ma un discorso amichevole. Il duca Enrico ha ragione, — e si rivolse al meravigliatissimo Waser..— Spada e Bibbia non se la dicono insieme. I Grigioni han bisogno della spada, e perciò io metto da parte l'arma spirituale, per afferrare di buon animo quella materiale. — Con queste parole si strappò di dosso l'abito di Predicante, staccò il suo spadone dalla parete e se lo cinse sul giubbone di cuoio.
— Cospetto di Bacco, date proprio un bell'esempio! — esclamò il Cappuccino con una risata sonora. — Quasi quasi mi verrebbe voglia di imitarvi. Ma la mia cocolla bruna è purtroppo assai tenace, ed ha un tessuto più forte delle vostre vesticciole, reverendi signori!
Biagio Alexander, che osservava la scena senza meraviglia, ma disapprovandola, congiunse le mani e disse solennemente: — Io però intendo perseverare nel mio ufficio sino alla fine, usque ad martyrium, fino alla morte per martirio, e Dio m'aiuti!
Nessuna morte più bella che per la mais del nemico...
cantava Jenàtsch con occhi fiammeggianti.
— Mi farò confettiere, — dichiarò Fausch seriamente. — Con accanto, questo va da sé, un piccolo spaccio di vino. — Così dicendo, si pose a tavola, si slegò d'intorno alla vita una cintura grave di denari, e, contandoli con zelo, cominciò a disporre i pezzi d'oro in un bel mucchiettino.
Intanto Jenàtsch, vedendo entrare Lucia, l'abbracciò e baciò con tenerezza traboccante : — Sii di buon animo, amore mio, e rallégrati. Il tuo Giorgio ha get­tato or ora alle ortiche il nero abito che ti ha inimicata coi tuoi. Ora partiamo di qui, sarai felice, e avrai nel tuo uomo onori a bizzeffe.
Lucia arrossì di gioia, e, con ammirazione beata guardava Jenàtsch, dal cui viso raggiava una gioia selvaggia. Non l'aveva mai visto così contento. Certo, un oscuro timore si partiva dal cuore di lei, un dolore che di giorno in giorno era stato più grave a portarsi, e che le aveva fatto venire in uggia la vita in patria.
— Giorgio, fratello mio, — disse ora Fausch, che aveva terminato il suo conto, — eccoti qui il mio regalo pel tuo battesimo di cavaliere. Per l'acquisto del destriero e della corazza. Il capitale è ben collocato. Io me la caverò con un sol centinaio. — E gli spinse innanzi la metà di quanto aveva ereditato.
Giorgio strinse con forza, ma senza speciale commozione, la mano corta e larga che s'era protesa verso di lui; e intascò il denaro.
Frattanto Waser s'era seduto accanto a Padre Pancrazio per tastargli il polso. Il contegno disinvolto del Cappuccino, la sua allegria, il suo dominio di sé, gli sembravano ambigui, sospetti. Ma la diffidenza scomparve quando toccò con mano la sua premura cordiale, non affettata, pei suoi concittadini grigioni. Dovette anzi ammirare con che giustezza Pancrazio afferrasse quelle pericolose vicende, e con che acume avesse osservato gli indizi della tempesta che s'avvicinava. — Temo che siano dei grandi signori, — diceva il padre. — Spagnuoli, fors'anche Grigioni, che stavolta si tengono in mano le fila dell'azione, e, pei loro scopi di avidità e dominio, abusano della pia e semplice fede del popolo valtellinese. A Morbegno si diceva che le bande assassine del Robustelli fossero già in cammino per scendere nella valle. Voglia Dio che un tale orrore non sia che una fantasia di cervelli italiani! Ma una cosa è certa, e meditatela bene, voialtri uomini, —continuò alzandosi e rivolgendosi ai tre Grigioni, — rimanere in Valtellina i Protestanti non possono più. Ora Jenàtsch alzò la voce: — Non dubitate, fratelli. Pancrazio consiglia bene. Non c'è un minuto da perdere. Dobbiamo fuggire. Raduniamo in fretta i nostri pochi correligionari, conduciamo il nostro gregge spirituale, uomini donne ragazzi, oltre i monti, nei Grigioni, e copriamo in armi la ritirata.
Aprì un forziere, ne trasse in fretta delle carte, alcune le stracciò, altre se le ripose nelle tasche della giubba.
Quando sentì parlar di fuga, Biagio Alexander scosse il capo e caricò di mala voglia il moschetto —che non aveva mancato di portare con sé — con la polvere attinta al grande corno, trofeo di famiglia, che gli pendeva sui fianchi. Poi si pose l'arma fra le ginocchia e continuò, lentamente ma ininterrottamente, a vuotar un bicchiere dopo l'altro, senza che quel vino di fuoco animasse per nulla lo sguardo freddo e tranquillo dei suoi occhi o imporporasse il suo smunto viso.
Il giovane Zurighese lo guardava preoccupato, e alla fine non poté trattenersi dal chiedere se il nobile liquore, assaporato in tal copia, non gli sarebbe anda­to alla testa e non avrebbe turbato nei prossimi momenti del pericolo la tanto necessaria chiarezza di spirito.
Il vecchio gli gettò un'occhiata un po' sprezzante, ma rispose calmo e punto offeso: — Nel Signore che mi dà forza, io posso tutto.
— Parola veramente cristiana! — esclamò il Cappuccino facendo tintinnire i bicchieri, e, di sopra la tavola, tese al vecchio Predicante la mano.
Intanto era sorta la luna e, fuori, irrorava di chiara luce il fogliame dell'olmo e quello, grave, del fico; ma solo un tenue chiarore penetrava per le finestruole nella stanza larga e profonda, disegnando sul pavimento di pietra le massicce inferriate in forma di croce.
Lucia posò sulla tavola la lampada di ferro, e, tirando su gli stoppini, fece sorgere tre chiare fiammelle che gettarono un riflesso rosso sul suo amabile viso chino.
La sua bocca innocente sorrideva: ella era gioiosamente pronta a lasciare il paese con l'uomo sulla cui valida protezione contava senza riserve. Waser, affascinato dall'aspetto di lei, guardava commosso quella espressione di infantile fiducia.
Improvvisamente la lampada precipitò tinnendo al suolo, e si spense. Un colpo era stato sparato attraverso la finestra. Gli uomini balzarono in piedi tutti insieme, mentre la giovane donna, senza dir parola, piombava a terra. Una palla aveva colpito al petto la soave Lucia.
Waser vide inorridendo il bel viso morente su cui cadeva il lume della luna e che Jenàtsch, piegato sui ginocchi, si teneva fra le braccia, piangendo forte. Mentre il Padre si sforzava di riaccendere la lampada, Biagio Alexander aveva afferrato lo schioppo ed era uscito, calmo, nel giardino rischiarato dalla luna.
Non dovette cercare a lungo l'assassino. Fra i tronchi degli alberi, se ne stava accoccolato un lungo uomo, il cui viso chino all'innanzi era nascosto da capelli neri ricadenti. Con la corona del rosario in mano, gemeva e pregava. Accanto a lui giaceva una grossa pistola ancora fumante.
Magio gli spianò contro senz'altro il fucile e, con un colpo alle tempie, lo uccise. Poi gli s'accostò — l'infelice era caduto col viso a terra — lo capovolse, lo guardò e disse in un soffio : — Me l'immaginavo : è il fratello di lei, Agostino il pazzo! — Stette un momento in ascolto. Poi, spiando di sopra i muri del giardino, di nuovo scivolò dentro la casa. Nel silenzio della notte un rumore incerto veniva al suo orecchio. — Due uccellini han fischiato, — disse per conto suo. — Presto tutto lo stormo ci piomberà sul tetto.
Venne a un tratto dal villaggio un grido stridente, risonò su di lui. La campana si mise a sonare affrettatamente a martello. Lo sguardo di Alexander cadde sul chiarore, di nuovo trapelante nel buio, della lampada che li aveva traditi. Chiuse le grosse imposte del pianterreno, e rientrò in casa con l'intenzione di difenderla con gli amici fino all'ultimo; già si sparava nella via accanto, già si vibravano colpi contro la porta anteriore. Fausch l'aveva sprangata or ora, e s'avventò su per la scala della soffitta per guardare dagli abbaini. Ma Biagio caricò di nuovo il moschetto e si pose dietro l'infemata della finestruola di cucina come dietro ma feritoia.
— Birbanti! — gridò a Waser che usciva in fretta dalla sua camera, ove aveva preso la valigia e aveva cinto lo spadino da viaggio. — Vogliamo vender cara la pelle!
— Per l'amor di Dio, signor Biagio, — osservò Waser. — Anche lei, un servitore della Parola, intende sparare sulla gente?
— Chi non vuol udire, senta, — rispose freddo il Grigione.
Ma ora Pancrazio afferrò il prode vecchio con le due braccia e lo strappò dalla finestruola: — Vuoi mandarci tutti alla morte con la tua pazza resistenza? Andate, fuggite attraverso i monti!
— Misericordia! — tonava la voce di Fausch giù per l'apertura della scala. — Vengono a grosse schiere, assaltano la casa del Poretto! Siamo perduti! — Andatevene, andatevene! — gridava il Padre: sulla porta grandinavano colpi sempre più violenti. — Bene, Padre, — disse Biagio che ora trascinava fuori dalla cucina fasci di stipa e di paglia e li ammucchiava con mano esperta nell'andito fra le due porte. — Noi ce ne andiamo pel ghiacciaio di Bondasca in Bregaglia. Fausch, spalanca tutti gli abbaini, affinché ci sia aria! E poi corri giù!
Fausch scivolò giù per la scala carico d'ogni genere di cibarie trovate lì sopra, e Waser si volse in giro cercando di Jenatsch.
- Qui si dividono i nostri sentieri, Pancrazio, — disse il vecchio Predicante, e strinse al padre la mano di sopra il baluardo della stipa, mentre il pezzo centrale del portone scricchiolava sotto l'urto degli assedianti. — A te la porta davanti. La fiamma copre la nostra ritirata per quella di dietro. — E diede fuoco al mucchio. — Andatevene, uomini balzava su per l'ariosa apertura della soffitta, Jenatsch, con la sua morta fra le braccia, uscì dalla stanza nel chiarore vivo, oscillante.
Nella sua destra lampeggiava la lunga spada, con la sinistra reggeva, come non avvertendone il peso, la sua morta; la testa di lei, immota, soave, gli posava sulla. spalla come un fiore piegato sullo stelo. Non voleva abbandonarla sul luogo ov'era stata assassinata. Nonostante il pericolo, Waser non poteva distogliere lo sguardo da quello spettacolo notturno di muta ira e d'implacabile dolore. E pensava senza volerlo a un angelo del Giudizio che portasse tra le fiamme un'anima innocente. Ma quello non era un messo della luce, bensì un angelo della spavento.
Mentre i Grigioni fuggivano pel giardino, verso il piede della montagna, in cucina Padre Pancrazio accanto al fuoco e al fumo, attendeva risolutamente l'istante in cui la porta volasse in pezzi. Allora, brandendo nella destra il crocifisso, balzò fra gli stipiti, e alla moltitudine assetata di sangue gridò: — Santa Madre di Dio! Volete bruciare con gli eretici?... Un fumo piombato dal cielo li ha distrutti. Spegnetelo! Salvate il vostro villaggio!... — Dietro di lui crepitava la brace, rossa.
Con un urlo di dolore che non aveva più nulla di umano, gli assalitori diedero indietro spaventati: nacque una confusione indescrivibile. Rapida come il lampo si diffuse la voce che San Francesco in persona avesse annientato gli eretici nella canonica protestante, e fosse apparso, sublime figura, ai credenti. In tal modo il Cappuccino riuscì a montare senza esser visto sull'asinello che aveva ricoverato in una stalla vicina. E lasciandosi alte alle spalle rossori d'incendio e grida di assassinio, per sentieri fuori di mano, col cappuccio calato profondamente sugli occhi, cavalcò verso il suo convento sul Lago di Como.