La leggenda delle fiammelle della piana di Caiolo è fra le più note in Valtellina. Ma, più che leggenda, è una vicenda in cui storia e fantasia si intrecciano strettamente. Ed allora va raccontata un po’ come un film.
Partendo dall’antefatto, che ci porta assai addietro nel tempo, alla fine del secolo XV. Correva l’anno di grazia 1487. Un esercito proveniente da Coira (Lega Caddea, o della Casa di Dio) e dalla lega delle Dieci Diritture, in tutto sei o settemila fanti, con 400 cavalli ed una schiera di donne al seguito, scendendo dalla Valdidentro, si presentò, il 27 febbraio, alle porte di Bormio. Al loro comando Giovanni Loher, Ermanno Capaul e Nicola Buol. A quel tempo da circa un secolo e mezzo la Valtellina era sottoposta alla signoria dei Duchi di Milano, i Visconti prima, gli Sforza dalla metà del quattrocento. Le truppe del duca Ludovico il Moro rinunciarono a difendere la città, che venne saccheggiata. Era il primo di una serie di episodi destinati a ripetersi quasi in serie: gli invasori avevano in animo di fare bottino pieno discendendo per intero la valle, a titolo di risarcimento per la mancata esenzione dai dazi doganali da parte del governo ducale. Una debole difesa alla stretta di Serravalle fallì, costando la vita a quaranta soldati ducali. Solo Grosotto, narra un’antica leggenda, venne risparmiata per l’intercessione della Madonna, apparsa all’esercito grigione: a ricordo del miracoloso intervento fu poi costruito il primo nucleo del famoso santuario. Tirano venne, invece, investita l’8 marzo, la fortezza di Piattamala cadde ed il borgo subì il duro saccheggio. A Teglio, il 15 marzo, le cose andarono peggio: saccheggio, incendio ed assassinio del podestà. Le truppe ducali erano fino ad allora prudentemente indietreggiate, in attesa di ingaggiare battaglia su un terreno favorevole. Il giorno dopo cadde Gera di Chiuro ed i soldato d’oltralpe si presentarono alle porte di Sondrio, rinunciando, peraltro, ad entrare nel cuore della città. Potete immaginare il panico che, intanto, si era diffuso nella valle. Quei soldatacci arcigni, che sembravano fatti della stessa lega dei loro elmetti e delle loro pancere di ferro e mostravano minacciosamente lance e balestre, sembravano una sorta di punizione divina, di fronte alla quale aver salva la vita era da considerarsi già successo.
Ma, ricevuti alcuni rinforzi, le truppe ducali, comandate da Renato Trivulzio e concentrate intorno al castello di Caiolo, si stavano organizzando per fermare gli invasori, approfittando della natura ondulata del terreno e della boscaglia nella piana di Caiolo, che ben si prestava alle imboscate. I grigioni ripresero la marcia in quel medesimo 16 marzo, commettendo, però, un errore decisivo. Troppo sicuri di sé, si erano divisi in due colonne: l’una procedeva a nord dell’Adda, verso Berbenno, la seconda si era portata al navèt, cioè al traghetto sull’Adda in località Porto di Albosaggia, passando sul lato meridionale della valle e procedendo verso Caiolo e Fusine. I soldati procedevano lentamente, convinti di non incontrare resistenze; furono, però, sorpresi, nella piana fra i torrenti Livrio e Merdarolo, dalle truppe ducali, che balzaron fuori dalle postazioni nascoste. L’agguato ebbe successo, e mise in grave difficoltà le truppe grigione, che non potevano contare nell’aiuto della prima colonna, dal momento che non vi erano ponti sull’Adda in quel tratto. Il reale esito di quella che passò alla storia come battaglia di Caiolo fu, però, controverso: i grigioni cantarono comunque vittoria, vantandosi di aver visto le terga di diecimila-dodicimila soldati ducali in fuga disordinata. C’è da dubitarne, visto che chiesero subito di poter negoziare con l’autorità dei ducali. Un primo abboccamento a Caiolo portò a definire le linee di fondo dell’accordo che venne ratificato, il giorno dopo, ad Ardenno, nel cosiddetto trattato di Ardenno. I grigioni si impegnarono a por fine ai saccheggi ed a tornarsene al di là dei valichi dell’alta valle, dietro, però, pagamento di 12.000 ducati a titolo di risarcimento dei danni di guerra (uno per ogni presunto soldato ducale volto in fuga?). L’umiliante tributo fu versato, e l’esercito invasore rispettò i patti, sgomberando la valle. Sarebbero tornati, i grigioni, nel 1512, rendendo Valtellina e Valchiavenna tributarie, peraltro dopo 12 anni di odiosissima occupazione francese. Ma questa è un’altra storia. Torniamo a seguire il filo della nostra. Nella piana di Caiolo caddero numerosi fanti, dell’una e dell’altra parte. Non si sa quanti. Probabilmente vennero sepolti frettolosamente sul luogo. E con questa mesta scena termina la prima parte della storia.


Chiesa di San Vittore a Caiolo

La seconda ci proietta in avanti di un bel po’ di tempo. Non sappiamo quanto, perché la cronaca, ora, tace, e lascia libero campo alla leggenda. Nella piana di Caiolo si cominciarono a vedere, a sera fatta, misteriosissime fiammelle. Fiammelle dal comportamento singolare, che si muovevano come se fossero dotate di volontà propria, come se fossero anime di infelici condannati a vagare senza pace fra quei luoghi sinistri. Sinistri per diversi motivi: erano teatro anche delle scorrerie di branchi di lupi che, nel seicento soprattutto, scendevano al piano, durante le settimane più fredde dell’inverno, per cercare di che sfamarsi, minacciando anche le persone. Ma, insomma, se l’inverno era dei lupi, le altre stagioni erano delle fiammelle. I viandanti solitari più e più volte avevano raccontato di essersi imbattuti nelle fioche ed inquietanti luci animate. Come sempre, in questi casi, alla fine vien fuori l’eroe, o l’aspirante tale. Il nostro eroe è rimasto anonimo, ma se il nome è oscuro, chiarissime furono le sue intenzioni: voleva vederci chiaro in quella faccenda di fiammelle animate, perché gli sembrava del tutto inverosimile. Decise, quindi, una sera di percorrere uno dei sentierini che godevano della peggior fama quanto a fiammelle. Fama che non fu smentita, perché ben presto saltò fuori, senza che potesse ben percepire da dove, una fiammella.
Eccoli, finalmente, l’uno di fronte all’altra, l’intrepido scettico e la dispettosa luce vagolante. L’uomo stette un po’ fermo, poi si mosse in direzione della fiammella, con l’intenzione di afferrarla e di portarsela via con sé, come trofeo da esibire di fronte ai compaesani increduli. Era a portata di mano, e la mano si mosse, rapida, per stringerla nella presa, ma quella indietreggiò, più rapida, lasciando l’uomo con un palmo… di mano vuota. Non se l’aspettava, davvero. Fece un passo avanti e provò di nuovo. Stesso esito. Provò una terza volta, e per la terza volta rimase a mano vuota. La fiammella gli volteggiava, ora, davanti. Non poteva essere nulla di naturale. Solo una realtà soprannaturale poteva tanto. Ed allora ebbe paura, fu scosso da un brivido, era rimasto totalmente spiazzato. Volse le spalle alla fiammella e si incamminò, con passo rapido, verso il paese. Ma quella lo seguì. Quando se ne accorse, accelerò. E quella sempre dietro. Corse, infine, senza più volgersi indietro. Solo quando fu giunto, senza fiato e senza forse, alla piazza, del paese, si voltò di nuovo. Stavolta era solo. Per qualche giorno tenne per sé l’accaduto, un po’ perché era ancora spaventato, un po’ perché temeva di essere deriso. Poi si decise, e raccontò ad alcuni amici la disavventura. Ovviamente ingigantì un po’ le cose, raccontando di come nel fuoco gli era parso proprio di intravedere due occhi diabolici. Gli amici diffusero il racconto aggiungendoci del loro, ed alla fine la notizia delle anime dannate e malvagie che infestavano la piana era di pubblico dominio.
La gente aveva una paura dell’accidente, e c’era già chi parlava di lasciare le case al piano, per tornare, come gli antenati, su, al monte, dove non c’erano fiammelle di cui temere. Per scongiurare un esodo disastroso per l’economia locale, vennero allora scomodati i luminari. Quelli che, si sa, voglion tutto spiegare con cause razionali e scientifiche. Costoro, carte alla mano, spiegarono che non c’era da stupirsi: niente anime dannate, si trattava solo di fuochi fatui, e non c’era proprio da meravigliarsi della loro presenza in quella piana, che era stata teatro della battaglia di qualche secolo prima: le esalazioni dei cadaveri sono all’origine del fenomeno. La loro spiegazione risultò alla fine persuasiva e vincente: vuoi per convinzione, vuoi perché effettivamente lasciar andare alla malora i campi che era costato tanta fatica coltivare pareva proprio brutto, fatto sta che nessuno si mosse dal paese. Né si sentì da allora, più parlare delle fiammelle. Forse, sdegnate da tanta miscredenza, se ne erano andate in cerca di luoghi e genti più suggestionabili. O forse le anime dei soldati defunti si erano sentite paghe del ricordo loro tributato, dopo secoli di oblio. Ogni leggenda finisce con un forse. Forse.
Per stare a quanto è certo, ricordiamo che la leggenda è riportata nel numero speciale della "Rassegna economica della Camera di Commercio di Sondrio, intitolato "Dov'è più bello andare. Genti e paesi ed itinerari della Valtellina e della Valchiavenna", di Bruno Gualzetti (Sondrio, 1971, pg. 47).

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