SANTI (clicca qui per aprire la pagina relativa a questo giorno dal sito www.santiebeati.it): S. Apollonia

PROVERBI

Genée ‘l fa i pùnt e febrée i a rùmp (gennaio fa i ponti - di ghiaccio - e febbraio li rompe)
A macc muntàcc, a febrée quàcc (a maggio si fa la monta, a febbraio il caglio - Tirano)
Quant el pà 'l fa carnevàa el fiö ghe toka fa quarèsma
(quando il padre fa carnevale, al figlio tocca fare Quaresima – Morbegno)
Al fa de più una furmìga a portàr de fò che un car de bò a portàr de dìnt
(vale di più una spendere con parsimonia che avere grandi introiti - Sondalo)
Per fa pasà la fregiör, ghe vol bröö de galìna e scirupìn de cantìna
(per far passare il raffreddore, ci vuole brodo di gallina e sciroppino di cantina - Sacco, Valgerola)
Cent agn de murùs, gnanca ün dé de spùs (cent'anni da moroso, neanche uno da sposo)
ün nobal cor rafüda doma al tort (un cuore nobile rifiuta solo il torto - Val Bregaglia)
Cul vignì vec’, tüc’ i mal i divénta peg (a venir vecchi, tutti i mali pegigorano - Poschiavo)

VITA DI UNA VOLTA

Si commemora oggi Santa Apollonia, la quale, essendo stata martirizzata dopo che le furono cavati tutti i denti, è protrettrice di dentisti e di coloro che soffrono di mal di denti. Viene infatti rappresentata con la tenaglia con cui le vennero strappati i denti.

Il celebre alpinista e scrittore Oreste Forno, nel bel libro “Compagni di cordata” (edito da Mountain promotion), così descrive le processioni di Santa Apollonia e San Bello nella frazione di Monastero di Berbenno negli anni cinquanta del secolo scorso:
Il prete era la persona più colta e quella che contava di più, qualità che, insieme al ruolo di ministro di Dio, lo aiutavano a convincere le persone alla fede, o meglio a far sì che partecipassero alla Messa, ai Vespri e al Rosario che si teneva in chiesa ogni sera. A quei tempi c'era l'usanza che un gruppo di anziani accompagnasse le processioni, o i funerali, con addosso una tonaca rossa e cantando in latino inni come il "Te Deum", di cui conoscevano meglio la pronuncia che il senso delle parole. Erano i Confratelli, le stesse persone che durante le funzioni importanti prendevano posto dietro all'altare, sempre vestite di rosso, e formavano il coro maschile; alle loro voci si univano quelle più acute delle donne che salivano invece dai banchi. Era bello starle a sentire, e sembrava che dessero vita ai vari dipinti religiosi disegnati sulle pareti e sulle volte più alte.

Oltre alle processioni che ricordavano i maggiori eventi cristiani, c'era quella del patrono, San Benigno, chiamato San Bello, festeggiato il 12 febbraio, quella di Santa Appollonia e le "Rogazioni". Queste erano processioni particolari che avevano luogo in primavera e in estate in certe mattine dopo la Messa. La lunga fila di fedeli, tra cui tutti noi bambini, che litigavamo per indossare l'abito del chierichetto, s'incanalava lungo le strade che portavano ai campi e pregava e cantava per ingraziarsi la protezione divina sulla natura. In particolare al Creatore si chiedeva di tenere lontano sia la siccità che i temporali violenti, soprattutto con la benedizione dei campi da parte del prete.
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La festa di Santa Apollonia veniva e viene celebrata anche nel paesino di Nìgola, che si trova ai piedi del grande bastione di roccia che sostiene e nasconde Teglio, in una zona particolarmente fertile, un tempo per gran parte possesso della famiglia Besta di Teglio, circondata da pregiati vigneti che producono il vino Fracia e Ca’ Brioni. Siamo sul confine occidentale del comune di Teglio: qui si è conservato interamente il profumo d'antico. Nigola godette fama di isola felice e gaudente, nell’arcipelago del buon gusto rappresentato dalle contrade e dai borghi tellini.
Proprio un figlio di questa terra, Giuseppe Napoleone Besta, ci aiuta ad entrare in questo spirito narrando, nei suoi “Bozzetti Valtellinesi” (pubblicati nel 1878 dalla Tipografia Bonazzi di Tirano), il clima della sagra paesana che si celebrava a principio di febbraio in onore di Santa Apollonia (che si commemora il 9 febbraio), quando i primi tepori, incerti e contraddittori, che si sperava seguissero ai giorni della merla, attiravano da tutto il territorio di Teglio gran messe di persone desiderose di scrollarsi di dosso anzitempo il torpore del gelido inverno:

A Nigola il dì della sua sagra, si tiene e si teneva allora, un mercato di stoppa, di stoffe, di aringhe, di sardelle, di anguille ed altre serpi di palude, di gerle, di crivelli, di zangole e maciulle e altre simili derrate di rurale uso e consumo; e la ristrettezza del sito pel concorso del popolo, è tale che la gente vi si pigia come i fichi secchi in un barile. E le pettate, le gomitate, i palamenti, le testate sono tali e tante che quel mercato si appella, la fiera delle Palpacoscie (veramente si chiama con una parola un po’ più scurrile; ma la lasciamo nella penna). Non è a dire se al giungere della brigata dei tellini, tutto quell’ammasso di teste coperte di cento colori, dalle pezzuole rosso-porpora delle fanciulle, verdi delle fidanzate, violette delle spose, nere delle vedove, bianche di quelle di Castione ai neri cappelli tondi dei tellini, piatti di quei della Motta e Biancone; conici di quei d’Aprica; si dovesser muovere e volgere le cento faccie verso S. Giacomo, da dove per un sentiero tra le vigne s’avvicinava quella insospettata processione. Le case dei nigolesi per quel giorno ridotte ad osteria, erano zeppe di scioperoni, che fino dalla mattina giocavano alla mora e alle carte, a dispetto dei preti che cantavano messa nella vicina chiesuola. Era quindi impossibile pei nuovi ospiti, di trovare un posto appena conveniente onde unirsi ad asciolvere. …”
Peraltro non pare che i tellini fossero molto riconoscenti agli abitanti di Nigola per l’ospitalità nel giorno della sagra: affibbiarono, infatti, loro la denominazione di “Màia sciatt de Nìgula”, cioè “mangiarospi”.

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Perché, allora, se non proprio il 9 di febbraio, in una giornata, almeno, di quel mese, o del successivo marzo, non venire a Nigola per cercare di evocare, nell’immaginazione, il clima di quella sagra ed insieme per incamminarsi, con la calma di chi si vuol godere interamente il sole del primo meriggio, si per la grande rocca, fino a Teglio? Percorrendo la ss. 38 dello Stelvio, da Sondrio verso Tirano, dopo Chiuro e la rotonda di Chiuro, prestiamo, dunque, attenzione, sulla sinistra, allo svincolo segnalato per Nigola, che si trova prima della fine del tirone che porta a S. Giacomo di Teglio.
Lasciata la statale, percorriamo per breve tratto la strada che porta a ridosso del paese e parcheggiamo l’automobile al primo slargo utile (m. 340 circa). Imbocchiamo, quindi, la stradina che sale fra la case del paese, dove, a dispetto dell’evanescente significato del nome (Nìgola è voce dialettale che significa “nuvola”), il sapore d’antico non è ancora svaporato. Immaginiamo che dalla nostra destra, da S. Giacomo, se ne venga la turba degli scioperati tanto simpatici al Besta; immaginiamo, non appena da un suggestivo sottopasso sbuchiamo in vista dell’oratorio di S. Apollonia (m. 378), la calca dei devoti straboccare dalla piccola chiesetta, dalla quale esce la possente voce salmodiante dei confratelli, che contrappunta le acute impennate delle donne. Immaginiamo l’alternarsi degli uni e delle altre nelle interminabili litanie dei santi, perché nessun santo resti escluso, perché nessun santo abbia motivo di far mancare la propria benedizione. Immaginiamo la vicina calca dei gaudenti, con altro e più sguaiato salmodiare, perché, come si suol dire, tutti i salmi finiscono in gloria e c’è sempre chi preferisce il finale e salta la lunga e devota premessa. E, se ci riesce, portiamoci ancora più indietro nei secoli, quando questa terra era solo un pugno di rustici di una curtis longobarda, ed ancora l’oratorio non aveva le eleganti e settecentesche forme che ancora vediamo, forse ligariane, ma era niente più che austera costruzione con muratura a secco. Immaginiamo…
Intanto la strada volge a destra e ci lasciamo alle spalle le case più alte del paesino, per imboccare un ripido tratturo con fondo in cemento, che taglia con lunga diagonale il bel versante di vigneti. La salita è severa, ma affrontata con la calma d’altri tempi non pesa. Volgendo le spalle, gustiamo il bel panorama che spazia su una porzione via via più ampia della piana fra Chiuro e S. Giacomo, dominata dal lungo e regolare conoide della Fiorenza, accumulato da secoli e secoli di apporti alluvionali del torrente di Val Fontana. E poi, dietro, il colle di Triangia, sormontato dai monti Rolla e Canale, più dietro ancora il corrugato cupolone della cima del Desenigo, sul fondo un breve spicco delle Alpi Lepontine, sull’alto Lario. Raggiunto, quindi, una sorta di poggio, il tratturo volge leggermente a sinistra e questo panorama si chiude alle nostre spalle, per poi riaprirsi poco più avanti, quando superiamo una baita (m. 510), sulla nostra destra, con un dipinto che raffigura l’apparizione della Madonna al Beato Omodei, cui chiede l’edificazione di una chiesa a lei dedicata (il futuro Santuario della Madonna di Tirano). Tutt’intorno, muretti a secco che ancora reggono il peso del tempo ed il frutto della vite. Poco più avanti (m. 570), ecco una selva di castagni ed un bivio: noi stiamo sulla pista in cemento, che piega leggermente a sinistra. Dopo una svolta a sinistra ed una a destra, lasciamo alle nostre spalle anche la selva e ci immettiamo in una stradina asfaltata, che sale ad intercettare la strada S. Giacomo-Teglio, appena sopra Castelvetro e Posseggia.
Proseguiamo in salita, superando una sequenza di tornanti sx-dx-sx-dx, fino ad intercettare, a 710 metri circa, la strada Panoramica dei Castelli, fra Vangione di Sopra e S. Antonio: davanti a noi l’edificio dell’ex Latteria. Ora prendiamo a sinistra, scendendo per un buon tratto lungo la panoramica. Passiamo, così, davanti alle case di Vangione di Sopra, sulla facciata di una delle quali si vede un bel dipinto di Madonna con Bambino. Poco oltre si stacca, alla nostra sinistra, una pista che scende a Brione, in 10 minuti, nel cuore della fascia vinicola. Ignorata la deviazione, continuiamo a scendere, superando il ponte sulla Valle della Maga, chiamata così perché legata alla leggenda della terribile Magàda, strega piccola, orrenda a vedersi, con un solo occhio, i piedi a zampa di mulo ed un cappellaccio di paglia in testa. Più d’uno raccontava di averla vista con un sacco pieno di budella di bimbi rapiti, che cavava fuori, ancora sanguinolente, lavava all’acqua del torrentello, per poi divorarle tutte intere. Terminato l’orrido banchetto, risaliva la valle, fino alla strozzatura, dove, al tocco della verga che teneva in mano, le rocce si aprivano, lasciandola passare, per poi richiudersi alle sue spalle. Spariva così, lasciando i poveri contadini terrorizzati. Guardando sotto il ponte, possiamo ancora vedere quel che resta della cappelletta che, su una delle più battute mulattiere per Teglio, venne eretta per tenere lontana la minaccia di quell’essere malefico.

Poco sotto il ponte, eccoci a Villanuova, oltrepassata la quale siamo a San Giovanni, frazione i cui abitanti, per la curiosa abitudine di stendere ad asciugare le lenzuola nei campi, venivano chiamati “Biancheria de San Giuàn”. Lasciamo, ora, la Panoramica dei Castelli e saliamo a destra, fino alla bella chiesa cinquecentesca dedicata al santo, con un ossario staccato. Qui troveremo il cartello che segnala la partenza della più importante delle mulattiere che dal fondovalle salivano a Teglio, di origine probabilmente romana. La mulattiera, che in alcuni punto mostra l’antico fondo romano, proviene, probabilmente, da Chiuro e sale, in breve, ad un sito nel quale, su una formazione rocciosa affiorante, sono stati di recente scoperte incisioni rupestri. Il sito è riconoscibile perché si trova appena prima di una cappelletta nella quale è dipinta una Madonna incoronata con Bambino. Si trovano iscrizioni sia nel roccione a valle della mulattiera, che in alcune rocce immediatamente a monte. Continuiamo in leggera salita, poi, dopo un tratto in leggera discesa, ci intercetta, salendo da destra, una pista sterrata, che prosegue passando a monte di un ampio prato. Questo scenario è caratteristico dell’ampia zona montana che si stende a sud e ad ovest di Teglio: nei prati, un tempo, dopo la mietitura della segale, a fine giugno, veniva seminato il grano saraceno, da cui si ricavava quella farina nera che veniva poi utilizzata nella preparazione dei pizzoccheri, uno dei vanti della cultura gastronomica tellina (del resto sulla ss. 38, all’imbocco di San Giacomo, un cartello saluta gli automobilisti con un “Benvenuti a Teglio la patria del pizzocchero”).
La pista ci porta, in breve, ad un ampio prato concavo, delimitato dalla parte alta della Valle della Maga, che corre alla nostra destra. Guardando a sinistra, vediamo, invece, un’elevazione costituita da rocce levigate e boscaglia (eriche e ginepri sul brullo versante meridionale): si tratta del Dos de la Furca (Dosso della forca), chiamato così perché, a quanto si racconta, venivano lì eseguite le condanne a morte per impiccagione (forse, però, il toponimo rimanda ad un passaggio stretto, forca, appunto, nelle sue vicinanze). Una curiosità: il sistema penale tellino non prevedeva pene detentive, ma solo pene pecuniarie o corporali, a seconda della natura e gravità del crimine, fino alla pena capitale. La zona fu anch’essa interessata da insediamenti preistorici, e vi sono state rinvenute alcune rocce coppellate. Stretti fra il fosco mistero della Magada, a destra, ed il sinistro alone degli impiccati, a sinistra, riguadagnamo con sollievo la Panoramica dei Castelli, ad un tornante sx (per chi sale), e la seguiamo in leggera salita, passando per la bella frazione di Frigeri, i cui abitanti, per la loro grande laboriosità, erano un tempo soprannominati “Ranegàt de Cà Fregé”.
Proseguiamo sulla strada asfaltata, oltrepassando la frazione e giungendo ad un bivio: mentre prendendo a sinistra si sale a San Rocco, Ligone e Prato Valentino, voltando a destra si prosegue per Teglio.  Prendiamo, dunque, a destra e, dopo una breve salita, ci troviamo faccia a faccia con la chiesetta di San Martino, nei cui pressi si trova il cimitero di Teglio. La chiesetta, assai antica, è di probabile origine altomedievale ed è collocata sulla già citata via romana, di cui qui, però, non è rimasta traccia. Molto forte è sempre stata, nei secoli, la devozione dei tellini per il loro San Martino: all’edificazione, nel Seicento, di una cappella dedicata alla Beata Vergine di Caravaggio, in particolare, tenne dietro la pratica devozionale delle pie processioni che avevano come scopo di ottenere dalla Madonna la cessazione dei flagelli del cielo. Il luogo ispira a pensieri improntati a sentimenti delicati ed intrisi di malinconia, quando non cupi. L’attuale chiesetta, infatti, mostra l’aspetto assunto dopo la ricostruzione del 1560, e propone, sulla facciata, alcuni affreschi che si pongono in singolare contrasto con l’amenità del luogo. Il tema dominante è quello della morte: a destra uno scheletro inquietante è sormontato dalla scritta “Hodie mihi, cras tibi”, cioè “oggi a me, domani a te”, mentre a sinistra la raffigurazione della morte è commentata dalla frase “Omnia mihi subdita”, cioè “tutto è sottomesso a me”. Quando si dice parlare chiaramente!
Malinconiche sono le corde toccate, invece, da due poesie dell’illustre tisiologo ed accademico Bruno Besta (da “poesie”, edito a cura degli amici del Rotary Club, a Sondrio, nel 1965). Eccole.

LA PERDUNANZA

E' qualche cosa come il chiedere ed ottenere perdono: si va a chiedere la perdunanza in chiesa quando ci si reca a pregare all'Ave Maria o al cimitero alle tombe dei propri defunti.

Quancc ann l'è mai che sò n'dacc via de cà
per andà gió 'n culecc: Sondri, Pavia
e pö, finida l'Università
Roma, Amburgo, Berlin, Siena e via via
tüta sta vita sempre n' muviment
per rivà a diventà quel che sö incö
prufesúr genoves: e finalment,
mama e papà, el turna a cà el vòs fiö.
L'è vegnüt a truvaf chi a S. Martin
cun en mazzett de fiù de biancuspin
senza grande pretesi d'eleganza.
E 'l coeur, stu coeur vécc, strach, ch'el fa un po’ ‘l matt
al piang cúntent, perchè l'è medegatt
cul balsum de la vósa perdunanza.

Prima della Prolusione ufficiale a Genova. 19 aprile 1958

PERCHÈ CASCIASSELA? (1)

Adess che a podi a poch so andree a muri
el me fa gola de vedè tütt quell
che, quand che stavi ben, ai mé bei dì,
gò propri avüt mai voeuia de vedell;
forse l'è perchè gó la sensaziun
ch'el temp el pasa inesurabilment
e che se só anc mu (2) pien d'ambiziun,
de mi, tra poch, el ghe sarà più nient.
Se gira tùtt el mund, crüzià de bun (3),
cun la pena nel coeur, cun el magun (4);
se cred, magari, illüs, d'ess arivà
fina a vedé la gran felicità!
Ma perchè casciass tant, se poeu alla fin,
m' finirà foeu 'n di crap de San Martin? (5).


27 settembre 1958
1) Perché prendersela?
2) Ancora.
3) Angosciati.
4) Malinconia.
5) Luogo dove è il cimitero di Teglio.

Dopo questo doveroso omaggio allo spirito di San Martino, procediamo sulla strada che entra in Teglio, via San Martino e poi Via Modesto Tudori, fino ad incontrare il celebre Palazzo Besta, splendida espressione del rinascimento tellino e monumento nazionale. Giunti, dunque, a Teglio non possiamo non fare un bel giro per visitarla, con il proposito, però, di ritrovarci qui, a Palazzo Besta, per iniziare il ritorno.
Infatti davanti alla chiesetta di San Lorenzo, che sta di fronte al palazzo, troviamo un cartello che ci indirizza a destra (per chi entra da via Tudori), dando Sant’Antonio a 20 minuti. Imbocchiamo, così, una strada senza uscita, che ci porta ad un cartello di “Proprietà privata”: qui prendiamo a destra (ovest) imboccando un sentierino, che ci porta ad intercettare una pista sterrata, sulla quale troviamo un secondo cartello che dà S. Antonio a 10 minuti. Scendiamo ancora, attraversiamo una roggia su un ponticello e, ad un bivio, prendiamo a sinistra, su pista meno larga, e non a destra, dove parte una pista più larga. Confluiamo, quindi, in una pista più larga, che scende con andamento molto regolare: alla fine della discesa, siamo alle case della frazione di S. Antonio, i cui abitanti venivano un tempo soprannominati “Bósc de Sant’Antòne”, cioè uomini rudi, selvatici. Oltrepassata la frazione, eccoci al sagrato della chiesa di S. Antonio (m. 700), che serve le frazioni di Vangione e S. Antonio. Straordinariamente suggestiva nel suo isolamento, soprattutto quando se ne ammirano le linee sullo sfondo delle Orobie, anche questa chiesa ha radici antiche: venne edificata probabilmente a partire dal 1646, quando le comunità rurali si stavano riavendo dalla duplice batosta delle pestilenze del 1630 e 1635. L’ossario vicino alla chiesa è memoria anche di questo. La zona, peraltro, ha radici che affondano ben oltre la storia, perché, come attestano ritrovamenti in località vicine, era abitata in età protostorica.
Torniamo, dunque, sulla Panoramica dei Castelli e scendiamo oltrepassando Vangione di Sopra (rifacendo un pezzo di percorso dell’andata). Alla prima deviazione a sinistra, però, la lasciamo e proseguiamo la discesa, si pista sterrata, verso sud-ovest (indicazione per Brioni). Scendiamo, così, attraversando una zona boscosa di grande suggestione, dove la luce, fra i grandi castagni, disegna ricami preziosi e talvolta inquietanti. Ignorate alcune deviazioni, rimaniamo sulla pista principale, che lascia la fascia dei boschi e scende alla bellissima fascia di vigneti compresa fra il Dosso Bello (l’inquietante dosso del sabba delle streghe, secondo antiche leggende) ed il lungo dosso che da Teglio scende al fondovalle. Non dobbiamo, però, percorrere interamente la pista: questa, infatti, dopo un ultimo tornante sinistrorso, termina ad una piccola piazzola, presso il rudere di una baita (c’è una traccia di pista poco sotto, ma ben presto termina anch’essa), mentre a sinistra un sentiero porta di nuovo alla valle della Maga, ad est della quale si trova una nuova fascia di vigneti. Torniamo, dunque, all’ultimo tornante sinistrorso: qui troviamo una seconda pista, che si stacca da quella percorsa sulla destra, e riprende la discesa verso sud-ovest. E’ la pista intercettata dalla stradina che scende da Ca’ Fracia. Si tratta di una pista con fondo in cemento, che taglia la fascia dei vigneti e termina alla cascata del torrente Rogna. Di qui ci portiamo facilmente alle porte orientali di Chiuro e, imboccata una stradina asfaltata che prende a sinistra (est), torniamo a Nigola, dopo circa 4 ore di cammino (il dislivello approssimativo in altezza è di 560 metri).

 

 

 

 

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A Santa Apollonia è dedicata anche una graziosissima chiesetta sopra la frazione Valletta di Traona. Ecco qualche elemento per saperne di più.

Punti di partenza ed arrivo
Tempo necessario
Dislivello in altezza
in m.
Difficoltà (T=turistica, E=escursionistica, EE=per escursionisti esperti)
Valletta-S. Apollonia-S.Caterina-Valletta
1 h e 30 min
170
T

La frazione della Valletta (m. 206) è la più importante di Traona, ed è la prima che si incontra, sulla destra, percorrendo la strada provinciale Valeriana Occidentale, dal ponte sull’Adda all’uscita di Morbegno verso Traona, dopo il primo tratto, in cui questa corre stretta fra i roccioni del versante montuoso, a destra, ed il fiume Adda, a sinistra.
Deve il suo nome alla valletta che scende dal monte in prossimità del suo limite orientale. Ha sempre conservato una propria gelosa identità, di cui è, di recente (1980), diventata immagine anche la nuova chiesa dedicata alla Beata Vergine Maria, impreziosita dall’artistico portale dello scultore Abram, di Delebio. È significativo, però, ricordare che la prima pietra di tale chiesa è stata tolta dalla cella campanaria della patronale di Traona, S. Alessandro, per sottolineare il forte vincolo fra la comunità della Valletta e la comunità madre di Traona.
Possiamo visitarla, cogliendo l’occasione per una simpatica camminata che sfrutta la mulattiera per S. Apollonia. Portiamoci, dunque, sulla strada provinciale Valeriana, prendendo a sinistra dopo il ponte sull’Adda all’uscita settentrionale di Morbegno; lasciamola, però, al primo svincolo a destra, che troviamo, subito dopo una curva a destra, all’ingresso del lungo rettilineo che conduce alle porte di Traona. Svoltiamo, poi, subito a sinistra, e lasciamo l’automobile nel parcheggio non lontano dalla nuova chiesa della Beata Vergine Maria, per poi incamminarci in direzione opposta (est), percorrendo una via che, per un tratto, corre, a pochi metri di distanza, parallela alla strada provinciale. Passiamo, così, a sinistra di un edificio sulla cui facciata si trova un dipinto di Madonna con Bambino.
Poi la strada volge a sinistra e, dopo una breve salita, conduce al ponte sulla valletta, che imbocchiamo, sulla destra, immettendoci sulla via S. Apollonia. Qui, sulle pareti degli edifici rustici, troviamo un secondo dipinto e l’indicazione “Per S. Apolonia e Corlazio”. Comincia da qui la salita a S. Apollonia. Alla stradina in asfalto si sostituisce, ben presto, un tratturo, che entra in una selva e diventa mulattiera. Prima di immergerci nell’ombra delle piante, gettiamo uno sguardo al fondovalle, sotto di noi: è assai interessante, infatti, osservare il corso del fiume Adda, che, dopo essere stato costretto quasi a lambire il versante retico, sospinto a nord dal grande conoide del fiume Bitto, taglia quasi in diagonale la piana, riportandosi più vicino al versante sud. Da qui si vede bene anche il curioso isolotto, interamente ricoperto da una selva, che il fiume forma dividendosi, per un breve tratto, in due rami.
Nella selva ci attende (non c’era da dubitarne) una cappelletta, che, sulla destra della mulattiera veglia sui passi del viandante. Poi incontriamo alcuni tornanti: il fondo della mulattiera è assai buono, in grisc (una sorta di mosaico sapiente di ciottoli arrotondati). Dopo un tornante sinistrorso, ecco un grande edificio ormai diroccato, una dimora che doveva essere di una certa importanza, anche se ormai è quasi soffocata dalla vegetazione. Pochi passi ancora, e ci ritroviamo fra le baite di S. Apollonia, raccolte intorno alla chiesetta di origine secentesca, completata nel secolo XVIII (m. 356).
Vicino alla chiesetta si trova un bel lavatoio, diviso in due settori, che testimonia della vita che doveva animare questo nucleo nel tempo passato. Una vivacità testimoniata anche dal dipinto di una Madonna incoronata con Bambino, sulla facciata di una delle baite. Di questa vita, ora, resta solo una flebile eco, perché il silenzio di una profonda solitudine sembra aver preso di nuovo possesso di questi luoghi, rotto solo da qualche rara pausa di grande animazione (come quella rappresentata dalla camminata del marzo 2006, all’insegna del “ciamà l’erba” nella Costiera dei Cech” e della parola d’ordine: fra i Cech la primavera arriva prima).
La camminata, però, non si chiude qui: dobbiamo salire alla vicina e più antica chiesetta di S. Caterina di Corlazzo. Per farlo, ci basta seguire la mulattiera, che, poco sopra, si divide in due rami. Entrambi portano alla strada asfaltata che si stacca da quella Traona-Mello e si conclude alla frazione di Corlazzo. Prendiamo il ramo di destra, che ci porta proprio alla chiesetta, recentemente recuperata dal suo stato di abbandono. Chiesetta più antica, si diceva: risale, infatti, almeno al secolo XV, ed è pure quattrocentesco il dipinto dell’Annunciazione dell’arcangelo Gabriele a Maria che possiamo osservare sulla sua parete nord. Quegli strani segni e simboli di cui è costellato non appartengono alla fantasia del pittore, ma sono opera della vena dissacratoria di quei soldati Lanzichenecchi che passarono anche di qui, fra il 1629 ed il 1630, nel contesto della Guerra dei Trent’Anni, portando una terribile epidemia di peste che dimezzò la popolazione dell’intera Valtellina.
Il punto più alto della camminata l’abbiamo raggiunto (m. 375): ora comincia la discesa. Seguiamo la strada asfaltata verso sinistra, incontrando il ponte sulla Valletta. Poco oltre, imbocchiamo la strada asfaltata che se ne stacca sulla sinistra e, dopo un tornante destrorso, diventa un tratturo di cemento che scende, fra selve e vigneti, alla Valletta. Tornati alla frazione, ci dirigiamo verso la chiesa e recuperiamo, dopo circa un’ora e mezza di cammino, l’automobile (il dislivello in altezza superato è davvero alla portata di tutte le gambe: 170 metri circa).
Questo anello può essere sfruttato anche dagli amanti della mountain-bike. A costoro, però, suggerisco un anello un po’ più ampio. Dalla chiesa della Valletta prendiamo verso ovest, fino a raggiungere la frazione di Coffedo, salendo poi ad intercettare la strada che da Traona porta a Mello. Percorriamo, poi, una lunga diagonale, fino al primo tornante sinistrorso, dove la lasciamo, prendendo a destra (via Somagna) e proseguendo nella salita fra splendidi vigneti. Raggiungiamo, così, lo svincolo che scende alla Valletta, prima indicato come via per il ritorno nella camminata; noi, però proseguiamo, varchiamo la valletta sul ponte e ci portiamo a S. Caterina. Da qui, sfruttando il sentierino che parte, sulla destra, appena dopo la chiesetta, scendiamo a S. Apollonia. La mulattiera sopra descritta ci riporta, alla fine, alla Valletta. Un giro tranquillo e piacevole, soprattutto in autunno, inverno e primavera.

 

 

 

 

 

 

STORIA
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AMBIENTE

 

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I PROVERBI SONO IN GRAN PARTE TRATTI DAI SEGUENTI TESTI:

Gaggi, Silvio, "Il volgar eloquio - dialetto malenco", Tipografia Bettini, Sondrio, 2011
Laura Valsecchi Pontiggia, “Proverbi di Valtellina e Valchiavenna”, Bissoni editore, Sondrio, 1969
Gabriele Antonioli, Remo Bracchi, "Dizionario etimologico grosino" (Sondrio, 1995, edito a cura della Biblioteca comunale di Grosio)
Dott. Omero Franceschi, prof.ssa Giuseppina Lombardini, "Costumi e proverbi valtellinesi", Ristampa per l'Archivio del Centro di Studi Alpini di Isolaccia Valdidentro, 2002
AA.VV. "A Cà Nossa ai le cünta inscì", a cura della Biblioteca Comunale di Montagna in Valtellina, Piccolo Vocabolario del dialetto di Montagna con detti, proverbi, filastrocche e preghiere di una volta (1993-1996)
Glicerio Longa, "Usi e Costumi del Bormiese”, ed. "Magnifica Terra", Sondrio, Soc. Tipo-litografica Valtellinese
"Parla 'me ta mànget - detti, proverbi e curiosità della tradizione comasca, lecchese e valtellinese", edito da La Provincia, 2003
Pier Antonio Castellani, “Cento proverbi, detti e citazioni di Livigno” I Libri del Cervo, Sondrio, 1996
Pier Antonio Castellani, “Cento nuovi proverbi, detti e citazioni di Livigno” I Libri del Cervo, Sondrio, 1999
Pier Antonio Castellani, “Cento altri, detti e citazioni di Livigno” I Libri del Cervo, Sondrio, 2000
Pier Antonio Castellani, "Detti e citazioni della Valdidentro", I Libri del Cervo, Sondrio, 2000
Luigi Godenzi e don Reto Crameri, "Proverbi, modi di dire, filastrocche raccolti a Poschiavo, in particolare nelle sue frazioni", con la collaborazione di alcune classi delle Scuole di Avviamento Pratico, Tip. Menghini, Poschiavo (CH), 1987
Lina Lombardini Rini, "Favole e racconti in dialetto di Valtellina", Edizioni Sandron, Palermo-Roma, 1926
Cici Bonazzi, “Detti, proverbi, filastrocche, modi di dire in dialetto tiranese”, ed. Museo Etnografico Tiranese, Tirano, 2000
Luisa Moraschinelli, "Dizionario del dialetto di Aprica", IDEVV (Istituto di Dialettologia e di Etnografia Valtellinese e Valchiavennasca"), Sondrio, 2010
Tarcisio Della Ferrera, Leonardo Della Ferrera (a cura di), "Vocabolario dialettale di Chiuro e Castionetto", Comune di Chiuro ed IDEVV (Istituto di Dialettologia e di Etnografia Valtellinese e Valchiavennasca"), Sondrio, 2008 (cfr. anche www.dialettochiuro.org)
Giovanni Giorgetta, Stefano Ghiggi (con profilo del dialetto di Remo Bracchi), "Vocabolario del Dialetto di Villa di Chiavenna", IDEVV (Istituto di Dialettologia e di Etnografia Valtellinese e Valchiavennasca"), Sondrio, 2010
Luigi Berti, Elisa Branchi (con contributo di Remo Bracchi), "Dizionario tellino", IDEVV (Istituto di Dialettologia e di Etnografia Valtellinese e Valchiavennasca"), Sondrio, 2003
Sergio Scuffi (a cura di), "Nü’n cuštümàva – Vocabolario dialettale di Samolaco", edito nel 2005 dall’Associazione Culturale Biblioteca di Samolaco e dall’Istituto di Dialettologia e di Etnografia Valtellinese e Valchiavennasca. Giacomo Maurizio, "La Val Bargaia", II parte, in "Clavenna" (Bollettino della Società Storica Valchiavennasca), 1970 Gabriele Antonioli e Remo Bracchi, "Dizionario etimologico grosino", Sondrio, 1995, edito a cura della Biblioteca Comunale di Grosio.
Silvana Foppoli Carnevali, Dario Cossi ed altri, “Lingua e cultura del comune di Sondalo” (edito a cura della Biblioteca Comunale di Sondalo)
Serafino Vaninetti, "Sacco - Storia e origini dei personaggi e loro vicissitudini degli usi e costumi nell'Evo", Edizioni Museo Vanseraf Mulino del Dosso, Valgerola, 2003
Sito www.fraciscio.it, dedicato a Fraciscio
Sito www.prolocodipedesina.it, dedicato a Pedesina
Massara, Giuseppe Filippo, "Prodromo della flora valtellinese", Sondrio, Della Cagnoletta, 1834 (ristampa anastatica Arnaldo Forni Editore)
Massara, Giuseppe Filippo, "Prodromo della flora valtellinese", Sondrio, Della Cagnoletta, 1834 (ristampa anastatica Arnaldo Forni Editore)


Utilissima anche la consultazione di Massimiliano Gianotti, "Proverbi dialettali di Valtellina e Valchiavenna", Sondrio, 2001

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PRINCIPALI TESTI CONSULTATI:

Laura Valsecchi Pontiggia, “Proverbi di Valtellina e Valchiavenna”, Bissoni editore, Sondrio, 1969
Gabriele Antonioli, Remo Bracchi, "Dizionario etimologico grosino" (Sondrio, 1995, edito a cura della Biblioteca comunale di Grosio)
Dott. Omero Franceschi, prof.ssa Giuseppina Lombardini, "Costumi e proverbi valtellinesi", Ristampa per l'Archivio del Centro di Studi Alpini di Isolaccia Valdidentro, 2002
Tullio Urangia Tazzoli, "La contea di Bormio – Vol. III – Le tradizioni popolari”, Anonima Bolis Bergamo, 1935;
AA.VV. "A Cà Nossa ai le cünta inscì", a cura della Biblioteca Comunale di Montagna in Valtellina, Piccolo Vocabolario del dialetto di Montagna con detti, proverbi, filastrocche e preghiere di una volta (1993-1996);
Giuseppina Lombardini, “Leggende e tradizioni valtellinesi”, Sondrio, ed. Mevio Washington, 1925;
Lina Rini Lombardini, “In Valtellina - Colori di leggende e tradizioni”, Sondrio, Ramponi, 1950;
Glicerio Longa, "Usi e Costumi del Bormiese”, ed. "Magnifica Terra", Sondrio, Soc. Tipo-litografica Valtellinese 1912, ristampa integrale nel 1967 a Bormio e II ristampa nel 1998 a Bormio a cura di Alpinia Editrice;
Glicerio Longa, "Vocabolario Bormino”, Perugia, Unione Tipografica Cooperativa, 1913;
Marcello Canclini “Raccolta di tradizioni popolari di Bormio, Valdisotto, Valfurva, Valdidentro e Livigno – Il ciclo della vita – La nascita e l'infanzia” (Centro Studi Storici Alta Valtellina, 2000);
Marcello Canclini “Raccolta di tradizioni popolari di Bormio, Valdisotto, Valfurva, Valdidentro e Livigno – Il ciclo della vita – Fidanzamento e matrimonio” (Centro Studi Storici Alta Valtellina, 2004);
Luigi De Bernardi, "Almanacco valtellinese e valchiavennasco", II, Sondrio, 1991;
Giuseppe Napoleone Besta, "Bozzetti Valtellinesi", Bonazzi, Tirano, 1878;
Ercole Bassi, “La Valtellina (Provincia di Sondrio) ”, Milano, Tipografia degli Operai, 1890;
"Ardenno- Strade e contrade", a cura della cooperativa "L'Involt" di Sondrio;
"Castione - Un paese di Valtellina", edito a cura della Biblioteca Comunale di Castione, in collaborazione con il Sistema Bibliotecario di Sondrio;
don Domenico Songini, “Storie di Traona – terra buona”, vol. II, Bettini Sondrio, 2004;
don Domenico Songini, “Storia e... storie di Traona – terra buona”, vol. I, Bettini Sondrio, 2001;
Scuola primaria di Sirta: calendari 1986 e 1991 (a cura dell'insegnante Liberale Libera);
Luisa Moraschinelli, “Uita d'Abriga cüntada an dal so dialet (agn '40)”;
Giovanni Bianchini e Remo Bracchi, "“Dizionario etimologico dei dialetti della Val di Tartano”, Fondazione Pro Valtellina, IDEVV, 2003;
Rosa Gusmeroli, "Le mie care Selve";
Cirillo Ruffoni, "Ai confini del cielo - la mia infanzia a Gerola", Tipografia Bettini, Sondrio, 2003;
Cirillo Ruffoni, "Chi va e chi resta - Romanzo storico ambientato in bassa Valtellina nel secolo XV", Tipografia Bettini, Sondrio, 2000;
Cirillo Ruffoni, "In nomine Domini - Vita e memorie di un comune della Valtellina nel Trecento", Tipografia Bettini, Sondrio, 1998;
Mario Songini (Diga), "La Val Masino e la sua gente - storia, cronaca e altro", Comune di Val Masino, 2006;
Tarcisio Della Ferrera, "Una volta", Edizione Pro-Loco Comune di Chiuro, 1982;
"Parla 'me ta mànget - detti, proverbi e curiosità della tradizione comasca, lecchese e valtellinese", edito da La Provincia, 2003;
Massimiliano Gianotti, "Proverbi dialettali di Valtellina e Valchiavenna", Sondrio, 2001;
Associazione Archivio della Memoria di Ponte in Valtellina, "La memoria della cura, la cura della memoria", Alpinia editrice, 2007;
Luisa Moraschinelli, "Come si viveva nei paesi di Valtellina negli anni '40 - l'Aprica", Alpinia editrice, 2000;
Aurelio Benetti, Dario Benetti, Angelo Dell'Oca, Diego Zoia, "Uomini delle Alpi - Contadini e pastori in Valtellina", Jaca Book, 1982;
Patrizio Del Nero, “Albaredo e la via di San Marco – Storia di una comunità alpina”, Editour, 2001;
Amleto Del Giorgio, "Samolaco ieri e oggi", Chiavenna, 1965;
Ines Busnarda Luzzi, "Case di sassi", II, L'officina del Libro, Sondrio, 1994;
aa.vv. “Mondo popolare in Lombardia – Sondrio e il suo territorio” (Silvana editoriale, 1995) Pierantonio Castellani, “Cento proverbi, detti e citazioni di Livigno” I Libri del Cervo, Sondrio, 1996 Pierantonio Castellani, “Cento nuovi proverbi, detti e citazioni di Livigno” I Libri del Cervo, Sondrio, 1999 Pierantonio Castellani, “Cento altri, detti e citazioni di Livigno” I Libri del Cervo, Sondrio, 2000
Cici Bonazzi, “Detti, proverbi, filastrocche, modi di dire in dialetto tiranese”, ed. Museo Etnografico Tiranese, Tirano, 2000
Luisa Moraschinelli, "Dizionario del dialetto di Aprica", IDEVV (Istituto di Dialettologia e di Etnografia Valtellinese e Valchiavennasca"), Sondrio, 2010
Tarcisio Della Ferrera, Leonardo Della Ferrera (a cura di), "Vocabolario dialettale di Chiuro e Castionetto", Comune di Chiuro ed IDEVV (Istituto di Dialettologia e di Etnografia Valtellinese e Valchiavennasca"), Sondrio, 2008 (cfr. anche www.dialettochiuro.org)
Giovanni Giorgetta, Stefano Ghiggi (con profilo del dialetto di Remo Bracchi), "Vocabolario del Dialetto di Villa di Chiavenna", IDEVV (Istituto di Dialettologia e di Etnografia Valtellinese e Valchiavennasca"), Sondrio, 2010
Luigi Berti, Elisa Branchi (con contributo di Remo Bracchi), "Dizionario tellino", IDEVV (Istituto di Dialettologia e di Etnografia Valtellinese e Valchiavennasca"), Sondrio, 2003
Pietro Ligari, “Ragionamenti d’agricoltura” (1752), Banca Popolare di Sondrio, Sondrio, 1988
Saveria Masa, “Libro dei miracoli della Madonna di Tirano”, edito a cura dell’Associazione Amici del Santuario della Beata Vergine di Tirano” (Società Storica Valtellinese, Sondrio, 2004)
Sergio Scuffi (a cura di), "Nü’n cuštümàva – Vocabolario dialettale di Samolaco", edito nel 2005 dall’Associazione Culturale Biblioteca di Samolaco e dall’Istituto di Dialettologia e di Etnografia Valtellinese e Valchiavennasca. Giacomo Maurizio, "La Val Bargaia", II parte, in "Clavenna" (Bollettino della Società Storica Valchiavennasca), 1970 Gabriele Antonioli e Remo Bracchi, "Dizionario etimologico grosino", Sondrio, 1995, edito a cura della Biblioteca Comunale di Grosio.
Silvana Foppoli Carnevali, Dario Cossi ed altri, “Lingua e cultura del comune di Sondalo” (edito a cura della Biblioteca Comunale di Sondalo)
Serafino Vaninetti, "Sacco - Storia e origini dei personaggi e loro vicissitudini degli usi e costumi nell'Evo", Edizioni Museo Vanseraf Mulino del Dosso, Valgerola, 2003
Sito www.fraciscio.it, dedicato a Fraciscio
Sito www.prolocodipedesina.it, dedicato a Pedesina
Massara, Giuseppe Filippo, "Prodromo della flora valtellinese", Sondrio, Della Cagnoletta, 1834 (ristampa anastatica Arnaldo Forni Editore)
Galli Valerio, Bruno, "Materiali per la fauna dei vertebrati valtellinesi", Sondrio, stab. tipografico "Quadrio", 1890

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