SANTI (clicca qui per aprire la pagina relativa a questo giorno dal sito www.santiebeati.it):
S. Agnese, Ines

SANTI PATRONI: S. Agnese (Sondalo)

PROVERBI

De S. Agnes la luserta la cor gió per la scies (A Sant'Agnese la lucertola corre lungo la siepe - Montagna)
A Sant'Agnésa, un'ura distésa
(A sant'Agnese un'ora abbondante, cioè il giorno si è allungato di un'ora abbondante dal solstizio d'inverno del 21 dicembre - Bormio)
A sant Antòni un'óra bóna e a santa Nésa un'óra distésa
(a sant'Antonio il giorno si è allungato di un'ora buona ed a sant'Agnese di un'ora distesa - Grosio)
La néf la maja miga al lóf (la neve non la mangia il lupo - Bormio)
Sant Antòni e santa Nésa l'é i mercànt de la néf (sant'Antonio e santa Agnese portano neve - Grosio)
Dìu ta vàrdi di puarècc diventàa sciùr de culp (Dio ti guardi dai poveri diventati di colpo ricchi - Tirano)
Dòpu ‘l vént trì dì de bèl témp (dopo il vento tre giorni di bel tempo - Tirano)
Dòpu i nòzi sa vét i difècc (dopo le nozze si vedono i difetti - Tirano)
S'ha da cret metà da quel che se vett e gnent de quell che sent
(bisogna credere alla metà di ciò che si vede ed a nulla di ciò che si sente)
L'é mei gavé rot 'na gamba, chi la testa stramba (meglio una gamba rotta che una testa stramba - Poschiavo)

VITA DI UNA VOLTA

Si celebra la memoria di Sant'Agnese, rappresentata con un agnello in mano, con un crocifisso, con un giglio o con un libro.

Nel “Dizionario etimologico grosino”, di Gabriele Antonioli e Remo Bracchi (Sondrio, 1995, edito a cura della Biblioteca comunale di Grosio), leggiamo:
"Agnés (Nésa) n.pr.f. Agnese. Il Nome particolarmente diffuso in Grosio, specie in passato. Da una statistica dell'anagrafe comunale realizzata nel 1981 vi erano 46 persone con tale nome. La festa di s. Agnese (21 gennaio) è solennizzata a Sondalo. Per tale data si iniziano già a percepire i primi segnali della stagione primaverile, il giorno si è allungato di oltre un'ora (a sant Antòni un'óra bóna e a santa Nésa un'óra distésa) e la lucertola comincia a fare capolino fra la siepe (a stinta Néfa la luserda in dela scèfa), ma possono ancora verificarsi abbondanti nevicate (sant Antòni e santa Nésa l'é i mercànt de la néf). È tuttora viva nella tradizione locale la figura di una vecchia megera denominata Néfa del strasc lónch che viene evocata per indurre i bambini a non fare capricci."


Dal saggio di Riccardo Scotti sull’evoluzione del clima valtellinese nei secoli XVI-XIX (in aa.vv., “Economia e Società in Valtellina e nei contadi nell’Età moderna”, tomo II, Sondrio, Fondazione Gruppo Credito Valtellinese, 2007), leggiamo, su alcuni aspetti di quella lunga fase di raffreddamento del clima che durò dalla seconda metà del Cinquecento alla prima metà dell'Ottocento, chiamata Piccola Età Glaciale (PEG):
"Sul finire del decennio, il clima primaverile subisce un rapido deterioramento, tanto che per sei anni consecutivi si registrano nevicate tardive e/o prepotenti brinate. Una situazione che si commenta con la sola lettura dei passaggi di tre diverse cronache meteorologiche.
1738: "a due maggio scaricata della neve alla gagliarda perfin sul piano ... al susseguente notte vi tè succedere un gran gelo onde i germogli delle viti ci posero in gran timore ...; in Ponte niun gentilhuomo fece vendemmia".
1739: "dalla metà di febbraio fino alli 27 marzo non è venuto nè neve nè acqua mai; è quasi sempre stato freddo con venti furiosi e freddi e alli 27 marzo è fioccato quasi tutto il giorno in quantità, indiè seguito freddo quasi come d'inverno li 28, 29 e 30 alla sera è tornata la neve e tutta notte alli 31 tutta acqua".
1740: "3 maggio temporale formidabile di neve ... la notte seguente fu vento gagliardo e freddo e alli 4 continua simil tempo ma di più arrivò neve gelata fino al piano e durò il nevicare più di 3 ore. Durò il freddo tutto maggio con minaccia di neve quasi tutti i giorni ed in tutto il detto non vi furono che 2 o 3 giorni di sereno'''.
1741: "mite fino a aprile; nevi e brine a fine aprile che distrugge le vigne alte ed anche al piano ...; a Bormio e Poschiavo seminato il grano per la terza volta'''.
1742: "il ghiaccio dura a terra fino al 4 aprile"
1743: "fredda con ghiacci sino al maggio". Clamorose, per la loro collocazione temporale, le gelate dei mesi di maggio, nel 1738 e nel 1740
".


Si celebra oggi la festa patronale di Sondalo. A questo illustre paese ed al suo territorio è dedicata la seguente carrellata di leggende.

Il territorio di Sondalo è particolarmente ricco di leggende. Il nome stesso del paese, l’ultimo comune di medie dimensioni che si incontra risalendo l’alta Valtellina in direzione di Bormio, è legato ad una leggenda a sfondo storico, quello del terribile secolo XVII, nel quale la peste bubbonica, portata dai Lanzichenecchi che attraversarono la Valtellina durante una delle campagne della guerra dei Trent’anni, decimò le popolazioni della valle. La peste raggiunse anche il territorio di Sondalo, facendo strage nel fondovalle e nei maggenghi. Si racconta che alla furia del morbo scampò un solo pastore, ignaro di quel che era accaduto. Quanto questi scese, con il suo gregge, dall’alpe solitaria dove l’aveva condotta, non vide più anima viva aggirarsi fra le case. Si guardò intorno più e più volte, chiamò, gridò: nulla. Alla fine si arrese alla terribile evidenza, e sembra che abbia esclamato “Son da sol”, cioè “sono da solo”. Di qui il nome di Sondalo: almeno così vuole la leggenda. La storia, invece, ci insegna che tale nome si trova già in documenti che risalgono a diversi secoli prima, e precisamente al secolo XI.
Fra le leggende sondaline, però, la più nota è senza dubbio quella della bella majona di Boffalora, raccontata da A. Martinelli nel suo volume “L’erba della memoria”, edito da Bissoni, in Sondrio, nel 1964. Majona, nel dialetto locale, significa “ragazza”, ed infatti la protagonista della leggenda, che si fonda su personaggi e fatti storici, era Agnese, la bella figlia di Corrado Venosta, feudatario del castello di Boffalora. Questi, di parte ghibellina, fu un personaggio intrepido e risoluto e, nel 1270 al 1272, tenne prigioniero proprio in questo castello il vescovo di Como, Raimondo Torriani, dopo averlo sorpreso nella piana di Bolladore. L’illustre prigioniero fu, addirittura, esposto al pubblico ludibrio, chiuso in una gabbia. L’audace rapimento suscitò però la veemente reazione della parte guelfa dei Torriani. Nel 1273 da Milano salirono, infatti, in Valtellina le milizie di Napo Torriani, per vendicare l’offesa arrecata al prelato: il castello fu preso e distrutto il 25 settembre 1273.
È in questo contesto storico che si inseriscono le vicende narrate dalla leggenda. Agnese era una giovinetta gentile e bellissima. Di lei si invaghì un paggio, che fungeva anche da menestrello, suonando e cantando per i castellani. Più e più volte aveva lodato con le sue rime la sua bellezza, e non si trattava di versi di circostanza, ma di espressioni di un sentimento che nel suo cuore aveva preso la forza di una passione irrefrenabile, tanto da giungere ad accecarlo. Era disposto a tutto pur di averla, anche al tradimento. E l’occasione gli si presentò quando a cingere d’assedio il castello giunsero le milizie dei Torriani. Il paggio pensò che se questi avessero preso il castello ed ucciso il suo signore, avrebbe potuto coronare il suo sogno sposandone la figlia; si accordò, quindi, segretamente con loro, e, approfittando di una notte nella quale un violento temporale oscurava il cielo, aprì le porte al nemico, che irruppe in forze nel castello, sorprendendo i suoi abitanti immersi nel sonno.
Ma i Torriani non poterono cogliere la vittoria frutto del vile inganno: un lampo accecante fu seguito dalla tremenda scarica di un fulmine di inusitata violenza, che investì il castello, riducendolo ad un ammasso di rovine. Tutti i soldati, dell’una e dell’altra parte, terrorizzati, si diedero alla fuga, inseguiti dal boato immane del tuono, che riecheggiò fra le mura diroccate. Solo l’indomani, placatasi la furia degli elementi, alcuni fra i più fidi soldati della guarnigione del castello osarono tornare al castello, per cercare qualche traccia del loro signore, di cui non si avevano più notizie. Non trovarono né lui, né la figlia; l’unico cadavere rinvenuto nel castello fu quello del paggio, la cui fuga era stata impedita da una trave, che gli era rovinata addosso, schiacciandolo. Pagò, così, con il prezzo più alto il suo tradimento. Ma pagarono anche Corrado e la figlia, che non furono mai più trovati. Una variante della leggenda narra che del castello non rimase neppure la minima traccia, non una sola pietra, come se la terribile tempesta notturna l’avesse interamente inghiottito e portato via con sé.
La leggenda racconta anche che l’anima della giovinetta appare, talora, sulla sommità del dosso che ospitava il castello. Questo accade nelle notti illuminate dalla luna piena. È possibile scorgerne l’esile e pallido profilo, mestamente chino su un telaio, come se tentasse di riprendere il filo della vita tragicamente spezzata. La fama della giovane infelice si diffuse in Sondalo, e commosse tutti, tanto che nacque la consuetudine, fra le ragazze sondaline, di recitare per lei questa invocazione: “Pater, pater, torna indrée, / van per l’anima de lée”.
C’è però anche un’altra Agnese nel passato di Sondalo, e precisamente Sant’Agnese, cui è dedicata la bella chiesetta che ancora oggi si può vedere sulla destra all’inizio della strada che sale verso l’ospedale Morelli e che, secondo un’antica credenza, sarebbe stata fondata addirittura dall’imperatore Carlo Magno. Questi, all’inizio del IX secolo d. C., passò di qui con la sua corte, nel corso di una delle sue numerose campagne militari, ed avrebbe deciso di promuovere l’edificazione della chiesa, cui avrebbe donato anche la ricca dote di preziosi paramenti e di santissime reliquie. La credenza non ha probabilmente fondamento storico, anche se la chiesa di Sant’Agnese è sicuramente di antichissime origini.
Nella chiesetta si trovava, originariamente, un crocifisso in legno (con il Cristo, che indossa una lunga tunica, intagliato nel legno di olmo e la croce ricavata da legno di larice),poi trasportato nella chiesa di S. Francesco, edificata in tempi ben più recenti. Si tratta di una scultura di scuola tedesca, che risale al secolo XII. Fin qui la storia. La leggenda parla di un eremita (romìt, in dialetto), che aveva scelto i locali della chiesa di S. Agnese come propria dimora. Qui passava le sue lunghe giornate di preghiera e digiuni. La gente ne riconobbe ben presto la santità, e si rese conto che le sue instancabili preghiere avrebbero ottenuto per la comunità sondalina l’intercessione dei Santi del paradiso, la più efficace delle difese contro i mali che sempre incombono sulla fragile condizione umana. Per questo tutti volentieri contribuivano al sostentamento dell’eremita, il quale, per esprimere la sua riconoscenza, cominciò ad intagliare nel legno la figura del Cristo crocifisso.
L’eremita giunse, sereno, al termine della sua opera e dei suoi giorni, e di lui rimasero il ricordo e quel crocifisso che, esposto da allora nella chiesa di S. Agnese, fu la più limpida espressione di intenso misticismo. A ricordo del suo autore, fu chiamato “al romìt de Santa Nesgia”, cioè l’eremita di Sant’Agnese. Ma vi fu davvero un eremita in S. Agnese, cui si possa ricondurre questa leggenda? Pare proprio di sì: si tratta si frate Francesco Torriani, di Mendrisio, che dimorò nella chiesa fra il 1680 ed il 1690, come hanno appurato le ricerche di don Gianni Sala, riportate sulla “Voce Sondalese”. Non può essere lui, però, l’autore della scultura, che risale a diversi secoli prima.
A proposito di figure in odore di santità: vi è una leggenda legata ad un’analoga figura di pellegrino, che capitò, un giorno, in quel di Sondalo, dopo un lungo viaggio sul dorso del proprio cavallo. Stanco ed assetato, chiese ad un contadino se potesse offrire a lui ed al cavallo un po’ d’acqua. Questi rispose gentilmente che avrebbe avuto l’acqua, ma avrebbe dovuto prima pazientare, perché non c’erano fontane in paese, e bisognava procurarsela scendendo fino alla rive del fiume Adda. Così fece, e tornò dal pellegrino con un secchio pieno d’acqua. Questi, dissetatosi ed abbeverato il cavallo, fu preso da pietà per la fatica cui i sondalini dovevano assoggettarsi per procurarsi quotidianamente l’acqua. Colpì, allora, con il suo bastone, una roccia, facendo sgorgare da essa una fonte d’acqua purissima e fresca. L’acqua del miracolo servì, da allora, ad alimentare le prime due fontane di Sondalo, denominate “Bui de San Clemént” e “Bui Redont”.
Ma le leggende sondatine non sono solamente legate ai segni prodigiosi del bene. Come accade in tutti i luoghi, esse narrano del bene e del male. Ecco, allora, due ultime leggende che hanno come protagonisti animali malefici, un cavallo nero ed un cane diabolico.
La prima racconta di un sondalino che venne bandito dalla sua comunità per le sue azioni malvagie, e relegato in Val Fin, nella parte settentrionale del comune di Sondalo, presso il confine con il comune di Valdisotto. Era conosciuto come “Al Lél”, individuo spregiudicato e senza scrupoli, e di lui, dopo il bando da Sondalo, si persero le tracce. Comparve, però, nella valle ombrosa un misterioso cavallo, che venne avvistato da diverse persone. Si trattava di un cavallo nero, con gli occhi che sprizzavano fiamme, come raccontavano i testimoni, un cavallo lanciato in una folle corsa sui ripidi versanti della valle. I suoi zoccoli, colpendo grandi massi, li facevano rotolare sul fondovalle, fino al letto dell’Adda, rendendo pericoloso il transito di tutti coloro che si trovavano a passare nei paraggi.
Per porre fine al mistero alcuni audaci decisero di andare alla caccia del misterioso animale. Lo braccarono per giorni, nel cuore della valle, ed alla fine lo sorpresero sull’orlo di una profonda forra. Stavano per gettarlo giù, sul fondo del vallone, quando una voce che uscì dalla sua bocca li lasciò di sasso: il cavallo parlava, con una voce cupa e cavernosa che metteva i brividi. Quel che disse fu ancora più sorprendente: l’anima che lo spingeva a correre all’impazzata, senza pace, era quella del Lél, imprigionato per la sua malvagità nel suo corpo. Solo cento messe dette per la salvezza della sua anima avrebbero potuto porre fine al suo tormento.
Gli uomini si ricordarono, allora, del loro compaesano bandito molto tempo prima da Sondalo, compresero che era diventato una di quelle anime confinate di cui avevano sentito tante volte parlare, ridiscesero in paese e chiesero al parroco che fossero celebrate le cento messe. Questi accondiscese. Passarono così alcuni mesi, e giunse anche il giorno della centesima messa. Gli uomini tornarono, allora, nel cuore della valle. Del cavallo maledetto ed infelice non vi era più traccia. Compresero che l’anima del Lél era stata liberata dalla pena del confino.
Di un secondo animale maledetto parla la leggenda del “cagnöl del Ros”, un cane pauroso che minacciava, con ringhi paurosi, tutti coloro che passavano, a notte fatta, in località Ros, presso il ponte sul torrente Lenisco, fra Sondalo e Mondadizza. Anche in questo caso si trattava, con tutta probabilità, di un’anima condannata ad espiare la sua malvagità errando senza pace nel corpo del cane, ma nessuno seppe mai di chi si fosse trattato.
Di tutte queste leggende possiamo leggere nel bel volume “Lingua e cultura del comune di Sondalo”, di Silvana Foppoli Carnevali e Dario Cossi, edito a cura della Biblioteca Comunale di Sondalo e del Sistema Bibliotecario intercomunale dell’Alta Valle.

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Del territorio di Sondalo fa parte anche la stupenda Val di Rezzalo, ricca di bellezze incontaminate, ma anche si leggende. C’è un filo conduttore che sembra legare le più note, il tema del confino, per volontà propria od altrui. Sembra, in particolare, che la valle, per la sua posizione in certo qual modo appartata, si prestasse bene ad ospitare spiriti e soggetti che altrove avrebbero fatto troppo danno. In particolare vi venne relegata l’anima di uno dei più famosi cunfinà, il Kuertur. I confinati erano anime che, per la loro malvagità in vita o per essersi macchiati di peccati particolari (qual è, nel nostro caso, l’eresia), non finiscono in paradiso, né in purgatorio, ma neppure all’inferno (perché il diavolo non li vuole), e sono quindi relegati nei luoghi più remoti e condannati in eterno (o, talora, fino all’espiazione delle loro colpe), a lavori gravosi e senza costrutto (classicamente, vibrare colpi di mazza contro le pietre in enormi gande, cavar oro che poi viene versato nei fiumi e si perde, spinger su per i più ripidi versanti grandi massi, che poi rotolano giù, e via di questo passo). Qualche volta la loro anima si unisce al corpo di un animale, che si manifesta particolarmente crudele ed ha un comportamento innaturale (può parlare e pronuncia le peggiori bestemmie e blasfemie).

Glicerio Longa, nel bel volume "Usi e Costumi del Bormiese”, (ed. "Magnifica Terra", Sondrio, Soc. Tipo-litografica Valtellinese 1912, ristampa integrale nel 1967 a Bormio e II ristampa nel 1998 a Bormio a cura di Alpinia Editrice), ci spiega chi era costui:
Kuertùr eretico di Mondadizza, si ammazzò precipitando in un burrone, mentre tagliava legna in un bosco. Quando alcuni andarono in cerca dello scomparso, incontrarono sul posto un terribile orso e se la dettero a gambe. Questo è avvenuto in Val de Rèz (Palù) dove Kuertùr, trasformato in orso, è confinato...”
Immaginate, dunque, la situazione: nella tranquilla Val di Rezzalo, un bel giorno, compare un orso minaccioso ed aggressivo: si scopre che in quell’animalaccio vive l’anima di un eretico confinato. Non penso che quelli della Val di Rezzalo l’abbiamo presa troppo bene: “Dobbiamo pagare noi per le colpe di quel pessimo soggetto di Mondadizza?” avranno, come minimo, pensato…
Una seconda versione, leggermente diversa, della medesima leggenda si legge nell’opera di Lina Rini-Lombardini, “In Valtellina – Colori di leggende e tradizioni” (Sondrio, 1961):  “…Il Quertur… in Piaz Merga, non lungi da Pineta di Sortenna, trasformandosi stranamente impauriva i pastorelli assumendo un aspetto di fauno con agreste volto coperto di muschio... Non parla, né lo potrebbe, il Quertur, che talvolta si aggira nei boschi di Sondalo, senza testa, ma quand’è scoperto, si butta nell’Adda con grande fragore.
Ma allora dove dove sta il verso Quertur (o Kuertur)? L’indicazione del Longa, infatti, non è univoca: Val di Rezzalo è, con voce dialettale, Val di Rézel e non di Rez, ma resta vero che l’aggiunta della località Palù riporta alla piana paludosa presso la chiesetta di San Bernardo, in Val di Rezzalo.

Se, dunque, rimane il dubbio sui luoghi nei quali scorazzava l’orso malvagio, è sicuro dove venne confinato un secondo soggetto, ancor peggiore. La terra di Bormio era, un tempo, afflitta da un diavolo fra i più pestiferi, chiamato diavolo bormino. Pestifero perché aveva l’incredibile potere di seminar zizzania, di mettere le persone le une contro le altre, di fomentare liti, dissidi, contese senza fine. Figuratevi che, proprio per questo, era stato addirittura cacciato dall’inferno: i suoi colleghi diavoli non ne potevano più di continuare a litigare fra loro per causa sua. Una volta sbucato dalle viscere della terra, il diavolaccio si guardò un po’ in giro ed essendogli piaciuta la terra di Bormio (non a caso chiamata Magnifica Terrza), la scelse come sua dimora, soggiornando, in particolare, nella Valle di Uzza. I Bormini, dunque, sperimentarono a loro volta cosa vuol dire la discordia e quanta sofferenza possa arrecare. Corsero, quindi, ai ripari e riuscirono ad ottenere il suo allontanamento. Il diavolo bormino (diaol bormìn, o diaol de Uza) venne, allora, confinato, indovinate dove?, sì, anche quello in Val di Rezzalo.
Ne è giunta l’eco perfino alla stampa, e se ne parla in un  articolo dell’ “Eco delle Valli” del 16 giugno 1955. La cosa è andata così. I Bormini, tenuto consulto sul da farsi, decisero di chiamare in soccorso San Bartolomeo apostolo, confidando che la sua grande potenza nella lotta contro il male potesse avere la meglio sul diavolo. Così accadde: San Bartolomeo riuscì a trascinarlo via e decise di seppellirlo in un terreno della contrada Dossi Alti, sopra Fumero. I suoi abitanti erano noti per la mitezza e bontà d’animo, per cui il santo, in perfetta buona fede, era convinto che, quand’anche il diavolo fosse riuscito a metter di nuovo fuori la testa dalla terra, non avrebbe avuto presa su quella brava gente. Ma, sapete come si dice, di buone intenzioni è lastricata la via che conduce all’inferno… Il diavolo rimise fuori le corna, e poi la testa, e poi tutto il resto, e ricominciò ad esercitare il suo mestiere. Risultato: gli abitanti della sfortunata contrada divennero i più litigiosi del mondo.
La presenza di un diavolo così diabolico attirò, poi, a Fumero anche tre streghe altrettanto perfide. Narra una leggenda che il covo delle streghe in quel di Sondalo era la piana della Scala: di qui, dopo i rintocchi dell’Ave Maria della sera, le perfide maliarde spiccavano il volo. Alcune si dirigevano verso le prese, altra verso Mondadizza e tre, appunto, a Fumero. L’alpeggio della Scala, sopra Frontale, aveva fama sinistra per via di una cupa storia di streghe. Si racconta che un giorno una bambina, che se ne in un prato con il padre intento a falciarlo, gli disse, forse per noia, forse per desiderio di suscitare la sua ammirazione: “Vuoi vedere che so far piovere?” Il padre dapprima la prese sul ridere, poi, vista la sua insistenza, la seguì alla vicina fontana, dove quella tracciò con il dito alcuni cerchi nell’acqua. Era una di quelle giornate in cui non si vede in cielo una nuvola, ma all’improvviso il cielo si rabbuiò, densi nuvolosi venuti fuori da chissà dove si addensarono in tutta la valle e scoppiò un violentissimo temporale. Il padre trascinò via la figlia nella loro baita, e le chiese, esterrefatto: “Ma chi ti ha insegnato questo?” La bimba, tutta orgogliosa, rispose: “La mamma”. Il contadino comprese allora di aver sposato una strega, ed averne generato un’altra. Aspettò che tornasse il sole e che la campagna si asciugasse, poi, con un pretesto, portò nei prati moglie e figlia, le legò entrambe, le avvolse in un covone e diede loro fuoco.
Oltre a diavolo e streghe, dobbiamo registrare una terza importante presenza del male in Val di Rezzalo. Per incontrarla, però, dobbiamo scendere da Fumero a Frontale, dove i poveri contadini vivevano, un tempo, una paura che letteralmente toglieva loro il sonno, quella del calcaröl. Come dice il termine stesso, il calcaröl è un essere che “calca”, cioè preme. Un essere diabolico che si introduceva, di notte, nelle case della gente, ponendosi sul loro petto e cominciando a premere, e premere, e premere. Ora, o il povero disgraziato riusciva a svegliarsi in tempo e cacciarlo, oppure moriva asfissiato. Per questo i contadini si premuravano di chiudere bene tutte le fessure delle baite, per impedire che entrasse. Ma non sempre bastava. Per essere più sicuri bisognava deporre sulla soglia di casa libri religiosi, come il libro dell’Ufficio delle preghiere o il Messale.

Per chiudere questa breve carrellata sulle presenza malvagie in Val di Rezzalo, citiamo quella più divertente. Una volta all’alpeggio di Ronzòn una vecchia, che viveva sola in una baita, udì, sull’uscio, il pianto di un bambino. Aprì la porta e vide un bambino di pochi mesi, che piangeva a dirotto. Ne ebbe pietà e, senza chiedersi chi fosse o di chi fosse, lo fasciò e gli preparò una pappa con latte e farina, che allora si chiamava “pòlt”. Con molta pazienza e dolcezza prese, poi, ad imboccarlo. Il bambino non si fece pregare, mangiò tutto avidamente. “Avevi proprio fame, eh…”, gli disse allora, sorridendo. Girò un attimo lo sguardo per deporre sul tavolo il recipiente vuoto della pappa, e quando tornò a guardare il bambino non lo vide più. Sparito. Letteralmente sparito. Restavano solo le fasce, afflosciate su loro stesse. Corse, allora, all’uscio, per vedere se in qualche modo fosse sgattaiolato fuori. Fuori non c’era nessuno, ma più in là, ad una certa distanza, vide un omaccio enorme, brutto e deforme, che se ne andava via cantando, allegro: “U, u, u che sont plèn de pòlt!”. Altro che bambino! L’ingenua vecchietta aveva sfamato nientemeno che un orco!
Ma torniamo alla considerazione iniziale: sembra che la Val di Rezzalo abbia avuto in sorte di essere la valle degli esseri confinati. Per scelta altrui, come il diavolo bormino ed il Quertur. Ma anche per scelta propria. Ecco una leggenda ed una storia che mostrano questa seconda possibilità.
Gli abitanti di Frontale vengono scherzosamente apostrofati dai Sondalini con l’epiteto di “strölech”, zingari. Il motivo risiede nell’origine leggendaria del paese. Pare che in temi remoti una tribù di zingari risalisse la Valtellina, con l’intendo di passare nelle terre di lingua tedesca. Trovarono, però, la via sbarrata alla stretta di Serravalle, la storica porta d’accesso alla contea di Bormio, perché i Bormini non ne volevano sapere di farli passare, diffidando della loro onestà. Gli zingari decisero, allora, di eludere l’ostacolo passando per la Val di Rezzalo che, avevano sputo, terminava ad un passo per il quale agevole era la discesa in alta Valtellina. Si incamminarono, dunque, sui sentieri di accesso alla valle ma, sorpresi dalla prima neve, decisero di svernare sull’ampio poggio all’ingresso della valle. Venne, così, la primavera, ed il luogo assunse un volto così gentile ed ameno, da persuaderli a fermarsi lì, ponendo fine al loro vagabondare.
Una variante, sul medesimo tema del forestiero che decide di stanziarsi a Frontale, è sviluppato da questa leggenda. Una terribile pestilenza aveva fatto strage di tutti gli abitanti di Frontale, risparmiando solo, un anziano, chiamato il véc’ de la Val, e le sue tre belle figlie. Costui pensava, con angoscia, a cosa potesse fare, solo com’era, con le tre figlie. Un giorno bussarono alla sua porta tre giovani trentini, che erano ricercati per diserzione. Il vecchio li accolse benevolmente, ma, più che dalla benevolenza del vecchio, furono colpiti dalla bellezza delle tre figlie. Com’è facile intuire, la storia andò a finire in un bel matrimonio, anzi, in tre. Dalle tre nuove famigliole ebbero, poi, origine le tre contrade del paese, “al segondìn”, “i falculìn” e “i turch”.
Infine, una storia vera. La storia di una donna di Fumero, Maria, moglie di Stefano Mazzetta, che, colpita da un male che temeva incurabile, scelse volontariamente di relegare se stessa in un angolo remoto della valle. La sua vicenda è ricordata da un dipinto ex-voto, nella chiesetta della Madonna del sassello, o della Pazienza, al quartiere Combo di Bormio, dipinto che ritrae una donna in mezzo alle rocce ed un uomo, più in basso, presso un ponte ed una baita.
Una nota, sotto, racconta la grazia che la donna ricevette dalla Vergine Maria: “Maria moglie di Stefano Mazzetta della Cura di Frontale e Fumero in Valle Tellina inferma et abbandonata di ogni aiuto e sostegno humano a caso portatasi li 31 Marzo a hora 14 1687 su l’alto e sassoso monte sopra il Bosco Scuro nella Valle di Rezzel sotto la pendenza d’un sasso a Ciel scoperto senza alimento fuor che di pura neve, giorno e notte fra intolerabili freddi, nevi e geli noti e sperimentati in quella stagione, ivi dimorò sino li 9 Aprile a hore 22 del anno suddetto dove fu ritrovata viva e ben stante e ricondotta alla casa di suo marito in Fumero con incredibil e generale stupore manifestò et oggidì li settembre 1687 ancor vivente manifesta esser stata ivi conservata in vita per gratia particolare della Madonna della Sassella hor detta della Pazienza situata in Bormio a cui fra quei sassosi dirupi si votò.” (cfr., sulla vicenda, l’articolo di Dario Cossi sul sito www.altavaltellinacultura.com)
Insomma: la poveretta, disperata per la sua malattia, alle due pomeridiane del 31 marzo 1687 lasciò la casa di Fumero e, vagando a caso, raggiunse un anfratto in cima al Bosco Scuro, dove venne ritrovata, fra la neve, alle 10 di sera del successivo 9 aprile. Dopo oltre nove giorni di permanenza all’addiaccio e di digiuno, era, miracolosamente, indenne, in buona salute, guarita. Un miracolo, della Madonna della Pazienza, cui la donna aveva fatto voto. La vicende suscitò enorme scalpore e commozione, di cui in valle non si è persa l’eco. Così come non si sono persi il Bosco Scuro (bos’c s’cur), che dalla Fontanaccia (fontanàscia, sulla strada che da Fumero sale in valle, m. 1575) sale fino al maggengo delle Gande (li ghènda, m. 1674), e la roccia sul suo limite superiore, dove la donna si portò, il sasc di planàsc. Percorrendo la pista della Val di Rezzalo, guardiamo alle ombre di questo bosco: potremo ancora sertirvi aleggiare la profonda angoscia della donna, e la luminosa gioia per la grazia ricevuta.

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Riportiamo, infine, dal bel volume "Storia, arte e civiltà nel territorio di Sondalo", di Nando Cecini (Milano, Giuffrè edizioni, 1961), queste note sulle tradizioni sondaline .

"È un argomento che mi risulta particolarmente difficile da trattare per il semplice fatto che Sondalo non ha mai avuto una tradizione folkloristica.
Inoltre in questi ultimi decenni anche quelle poche manifestazioni, che erano state importate o da Bormio o da altri paesi della Valtellina sono praticamente scomparse.
Le brevi note che faccio seguire vogliono essere un excursus folkloristico in quella che poteva essere la Sondalo di cento anni fa. I Sondalini più vecchi forse leggendole ritroveranno il sapore ormai lontano della loro giovinezza; gli altri conosceranno tradizioni, che nel loro paese una volta erano vive e piacevoli ed ora non ci sono più.
Il mese di dicembre (al mes de natal) è un mese tradizionale, caro al popolo e che ci commuove un po' tutti. Il 6 dicembre è dedicato a San Nicola. Alcuni bimbi fortunati ricevono i primi doni. La tradizione di questo Santo è di origine tedesca, svizzera in modo particolare, dove questa festa è molto sentita.
Il 13 dicembre ricorre la festa di Santa Lucia. C'è un proverbio che dice: Al dì de Santa Lucia l'è 'l dì più kurt ke ghe sia. Non guardiamo troppo per il sottile l'esattezza astronomica di questo enunciato. In occasione della festa di Santa Lucia viene celebrata una messa assai frequentata nell'Oratorio di Somtiolo.
Finalmente arriva il Natale. A Sondalo, come in tutto il mondo del resto, è ancora viva la tradizione dell'albero e del presepio. Forse il Natale è l'unica festa ancora sentita e cara, che raccoglie le famiglie in un più stretto vincolo di amore e di reciproci doni.
Ho visto quest'anno risplendere a mezzo la salita, proprio nel cuore del paese, le cento luci dell'albero di Natale. Una tradizione gentile, che spero si rinnovi ancora negli anni futuri.
La notte della vigilia di Natale i bambini espongono il piatto fiduciosi che Gesù lo riempia di doni. I grandi invece vanno alla messa di mezzanotte. Dopo la cerimonia religiosa si ritrovano tutti a casa per mangiare il panettone e brindare con lo spumante.
Nelle case più antiche di Sondalo la notte di Natale si accende il camino e si veglia nella grande a stüa in attesa della mezzanotte.
All'Epifania, 6 gennaio, c'è il gabinatt: questa parola significa a giorno di doni a e l'usanza del gabinatt è di origine tedesca. A noi però giunse traverso il Tirolo e da lì si sparse in Engadina, nella Valtellina e nel Trentino.
Chi pronuncia per primo a gabinatt a incontrando un amico o un conoscente ha diritto a un triplice regalo, che deve essere pagato entro la festa di Sant'Antonio il 17 gennaio. Il tempo utile per la vincita inizia verso le ore quindici della vigilia e termina all'Ave Maria della sera dell'Epifania.
Un proverbio popolare del giorno dice:
l'Epifania tuti i festi la porta via.
A Sondalo c'è un'antica chiesa dedicata a Santa Agnese, che è anche la patrona del comune, la sua festa si celebra il 21 gennaio ed è la festa più sentita da tutta la popolazione di Sondalo. In questo giorno si vende un dolce confezionato con noci pestate cotte con il miele, che si chiama o la Kupeta de Santa Nesa.
Il due febbraio è tradizione chiamare o dare l'appuntamento a una persona fuori di casa e quando è vicina dire:«L'è fö l'ors da la tana», «È fuori l'orso dalla tana».
Cioè per tradurla in termini comuni, finisce un mese e ne inizia un altro. Se la persona è gentile sorride di buon grado e rientra al caldo.
Febbraio porta il Carnevale. Una particolarità che non ho mai riscontrato in altre manifestazioni carnevalesche è che a Sondalo durante il carnevale si celebra la festa degli spazzacamini.
Un'altra tradizione carnevalesca, questa però comune a molti paesi della Valtellina, è il «Carnevale dei Vecchi» festeggiato la prima domenica di Quaresima. Nello stesso giorno si mangiano le «manzole» dolci frittelle zuccherate, che si servono con la panna montata.
A Sondalo la mezzanotte del martedì grasso, suona la campana per segnare il passaggio dal Carnevale alla Quaresima.
Per completare queste sommarie e scheletriche notizie sul Carnevale sondalino riporto anche un antico proverbio popolare: «La val una Kanzon de Karneval» per significare una cosa di poco conto.
A Mondadizza, frazione di Sondalo, il 1° marzo, c'è il «marzarolo». I ragazzi, muniti di campanacci e di tolle, percorrono i viottoli di campagna e strepitando risvegliano la natura dal lungo sonno invernale. Una tradizione gentile, che rivela l'animo bucolico della gente valtellinese.
La settimana Santa a Sondalo non ha usanze particolari. C'è la processione del Venerdì Santo e ci sono tutte le altre cerimonie liturgiche che la Chiesa prescrive.
Il giorno di Pasqua e la domenica «In Albis», il prevosto benedice le case e riceve un dotto da ogni famiglia.
Il 1° maggio a Sondalo si mangiano le castagne bianche cotte. Non ho saputo l'origine di questa tradizione e delle persone che ho interrogato, nessuno ha saputo dirmi qualcosa. Il gusto delle tradizioni muore lentamente anche nel cuore del popolo!
Ernest Hemingway scriveva che i pilastri della tradizione di un popolo sono la morte e l'amore. Prima di chiudere questa breve notizia folkloristica su Sondalo voglio accennare ai due argomenti.
Quando la morte entra in una casa, il paese si stringe vicino ad essa. E questa partecipazione è fatta di conforto e di preghiere: il Rosario dei morti. A chi recita il rosario in casa del morto i parenti donano un pane o mezzo chilo di sale come riconoscenza per un debito di onore.
La morte crea anche leggende. Ne trascrivo due che mi sembrano significative. Una è la storia del Kuertur, un eretico di Mondadizza che si ammazzò precipitando in un burrone, mentre tagliava legna in Val di Rez. Invano i suoi lo attesero a casa. Il Kuertur non tornò più. Quando alcuni valligiani andarono a cercarlo incontrarono un orso spaventoso. Da allora la gente dice che il Kuertur è confinato in Val di Rez sotto le spoglie di un orso e uccide tutti quelli che gli vanno vicino.
L'altra è la leggenda del «Lel».
Il Lel era un Sondalino confinato al ponte del Diavolo in Val Fine. Alcuni montanari dicevano di averlo visto trasformato in un grande cavallo nero, che galoppava di notte su e giù per la valle, sprizzando scintille. Altri montanari dicevano invece di aver udito i colpi di mazza che il povero Lel picchiava sui dirupi granitici della montagna.
Persino un soldato lo vide e gli chiese :
- Cosa fa qui? E il Lel rispose asciugandosi il sudore.
- Sono un confinato.
Proseguì poi a raccontare al soldato la sua vita avventurosa. Prima però di sparire per andare a picchiare di nuovo sul granito il Lel disse al soldato:—Se vuoi liberarmi fa celebrare cento messe.—
Le cento messe furono celebrate e da allora non si vede e non si sente più il povero Lel confinato in Val Fine al ponte del Diavolo.
Dopo la morte, l'amore. Un tema interessante che esula un poco dalla serietà prefissami nel piano di questo lavoro. Mi limiterò a ricordare due piacevoli tradizioni che purtroppo, come tutte le altre stanno scomparendo. La «Serra» e le «Tolle» per una vedova rimaritata.
Glicerio Longa scrive della Serra:
-
L'usanza della Serra è antichissima; risale almeno al 1500. Gli statuti di Bormio, di quel tempo, vietavano severamente. tanto a un forestiero, quanto a un indigeno, di tradurre fuori del contado, e nonostante il suo consenso, una donna ivi abitante e dimorante, qualunque fosse stata la sua condizione: "Copulata" o Copulanda". La multa imposta a quanti incorrevano "in simili peccato et vitio" era di 25 libbre imperiali che andavano a favore del comune. Pare che la multa venisse poi elevata in proporzione dei beni esportati con la donna -.
Si deve perciò ricercare in una multa l'origine della Serra attuale che praticamente consiste in una tassa di esportazione simboleggiata in alcuni nastri tagliati e in bottiglie di buon vino e leccornie varie, che lo sposo deve pagare senza battere ciglio ai giovani coscritti della sposa. Se la tassa non fosse richiesta tornerebbe a disonore della ragazza. Si battono le Tolle o si suonano i campanacci quando uno dei novelli sposi è vedovo. Se il vedovo offre qualcosa di sostanzioso alla «banda» improvvisata per l'occasione, tutto si tace. Altrimenti per un anno, così vuole la tradizione, lo sfortunato ex-vedovo, non avrà sonni tranquilli. Oggi la pena è ridotta a un piccolo periodo di tempo."

E ancora, sul medesimo tema, ecco quanto leggiamo nel bel volume “Lingua e cultura del comune di Sondalo” di Silvana Foppoli Carnevali, Dario Cossi ed altri (edito a cura della Biblioteca Comunale di Sondalo):
Le usanze e tradizioni del territorio sondalino sono pressapoco le stesse dei paesi vicini e sono già riportate in alcuni testi fracui: «Usi e costumi del bormiese» di Glicerio Longa. Abbiamo perciò ri­tenuto sufficiente un semplice accenno fornendo spiegazioni più dettagliate solamente per le usanze caratteristiche del sondalese e non riportate in altri testi.
Nei giorni 5 e 6 gennaio si festeggia il Gabinàt; il 17 gennaio, Sant'Antonio, era consuetudine, nel passato, portare gli animali sul sagrato della chiesa per la benedizione.
Il 21 gennaio, festa di Sant'Agnese patrona del comune, viene celebrata la messa nell'antica chiesetta dedicata alla Santa, si svolge la fiera che è una delle più importanti del paese ed è consuetudine acquistare la cupeta il tipico dolce a base di miele e noci.
Il 31 gennaiol'e fò sgineròn. Con un pretesto si cerca di far uscire qualche conoscente di casa, poi gli si fa capire che è stato uno scherzo dicendogli appunto l'e fò sginerón.
Stessa burla il 2 febbraio, l'e fò l'órs fò de la téna.
Il carnevale è festeggiato a Sondalo con le tradizionali mascherate e sfilate di carri, sopravvivono però alcune usanze caratteristiche tipiche delle frazioni di Le Prese e Mondadizza.
Il giovedì grasso a Le Prese è il giorno degli spazzacamini: i giovanotti del posto, muniti si scale e corde, si recano presso le famiglie e offrono i loro servigi per la pulitura del camino col brusch che è di solito un piccolo pino frondoso (pignach in dialetto). Ogni famiglia contribuisce con un'offerta all’organizzazione di una festa da ballo a cui è invitata tutta la popolazione e che si tiene solitamente il sabato successivo (sabato grasso). Questa usanza è nata probabilmente dalla necessità di tenere puliti i camini per evitare gli incendi che costituivano un gravissimo pericolo quando nelle case il materiale prevalente era il legno: tetti di schèndoli, crapéna, còmot, lòbia di assi, e le stesse camere, li stua, erano foderate di legno.
Il martedì grasso sia a Le Prese che a Mondadizza si ripete da anni l'usanza de la papa e quella de l'aradèl. Questa tradizione è particolarmente sentita negli anni bisestili quando l'iniziativa dell'organizzazione spetta al sesso femminile. Già nelle primissime ore del mattino inizia la caccia ai componenti dell'altro sesso per darghe la papa cioè per tingerli di fuliggine; le cronache registrano avventurose fughe sui tetti e nei luoghi giudicati inaccessibili, nascondigli ingegnosissimi. Durante persino chi preferisce abbandonare momentaneamente il paese ma spesso tutto ciò risulta inutile e l'usanza viene rispettata. Durante questa fase tutti indossano abiti vecchi e logori: vestì de brut. Nel pomeriggio viene trascinato a braccia per le vie del paese un vecchio aratro (l'aradèl) mentre i componenti dell'altro sesso cercano di impadronirsene per acquistare il diritto di dar la papa l'anno successivo. A sera a si ritrovano tutti, vincitori e vinti, maschi e femmine, vestì de bèl, a festeggiare il carnevale senza più alcuna animosità. L'usanza  si riallaccia probabilmente agli antichi riti propiziatori della primavera, al culto della dea madre, la terra, fonte e principio di vita.
Stessa origine probabilmente ha avuto l'usanza dei marzaròi, i ragazzi che nei primi giorni di marzo girano per le campagne muniti lacci, bastoni, coperchi e scatole per svegliare la terra che dorme (cèmàr l'erba). Anche ai marzaròi si usa fare un'offerta solitamente di cibarie (uova, farina, latte, salsicce) con cui la sera possono preparaare un gustoso pranzetto da consumare in compagnia.
Le cerimonie religiose più importanti sono quelle della Settimana Santa e sono le stesse praticate in tutti i paesi cattolici.
La fiera del bestiame (di bes-cèm) a Sondalo si svolge il 25 settembre quando il bestiame torna dagli alpeggi.
Per finire vogliamo parlare di una simpatica usanza non più praticata e di cui pochi ormai si ricordano: l'usanza di intraversèr l’èn. Era praticata la notte del 31 dicembre.
I giovanotti che si ritrovavano in allegra compagnia per attendere l’arrivo dell'anno nuovo usavano sbarrare le strade del paese con oggetti e attrezzi voluminosi per impedire all’anno vecchio di andarsene. Era un modo ingenuo e popolare per esprimere l'eterno desiderio umano: fermare la fuga del tempo, conservare la gioia e a della gioventù. Questa tradizione forniva ai giovani il pretesto per combinare burle ad amici, parentie conoscenti. Per intraversèr l'èn trafugavano dalle case attrezzi agricoli, scale, slitte, carri e li portavano lontano. Cosi il mattino di Capodanno si trovava la scala di un abitante di Bolladore (ad esempio) nella parte più alta del paese o il carro di uno del Pónt de San Ròch portato a Terapicena o addirittura a Samacologna e posto di traverso sulla strada per intraversèr l'èn. E i rispettivi proprietari, la mattina di Capodanno, dovevano andare a riprendersi gli attrezzi, brontolando, ma sottovoce, perché le tradizioni andavano rispettate ed era considerato di cattivo gusto offendersi per uno scherzo innocente. Tutt'al più potevano fare un pensierino: ci ritroveremo l'anno prossimo; a bón render!”

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STORIA
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AMBIENTE

Galli Valerio, Bruno, "Materiali per la fauna dei vertebrati valtellinesi", Sondrio, stab. tipografico "Quadrio", 1890:

 

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I PROVERBI SONO IN GRAN PARTE TRATTI DAI SEGUENTI TESTI:

Gaggi, Silvio, "Il volgar eloquio - dialetto malenco", Tipografia Bettini, Sondrio, 2011
Laura Valsecchi Pontiggia, “Proverbi di Valtellina e Valchiavenna”, Bissoni editore, Sondrio, 1969
Gabriele Antonioli, Remo Bracchi, "Dizionario etimologico grosino" (Sondrio, 1995, edito a cura della Biblioteca comunale di Grosio)
Dott. Omero Franceschi, prof.ssa Giuseppina Lombardini, "Costumi e proverbi valtellinesi", Ristampa per l'Archivio del Centro di Studi Alpini di Isolaccia Valdidentro, 2002
AA.VV. "A Cà Nossa ai le cünta inscì", a cura della Biblioteca Comunale di Montagna in Valtellina, Piccolo Vocabolario del dialetto di Montagna con detti, proverbi, filastrocche e preghiere di una volta (1993-1996)
Glicerio Longa, "Usi e Costumi del Bormiese”, ed. "Magnifica Terra", Sondrio, Soc. Tipo-litografica Valtellinese
"Parla 'me ta mànget - detti, proverbi e curiosità della tradizione comasca, lecchese e valtellinese", edito da La Provincia, 2003
Pier Antonio Castellani, “Cento proverbi, detti e citazioni di Livigno” I Libri del Cervo, Sondrio, 1996
Pier Antonio Castellani, “Cento nuovi proverbi, detti e citazioni di Livigno” I Libri del Cervo, Sondrio, 1999
Pier Antonio Castellani, “Cento altri, detti e citazioni di Livigno” I Libri del Cervo, Sondrio, 2000
Pier Antonio Castellani, "Detti e citazioni della Valdidentro", I Libri del Cervo, Sondrio, 2000
Luigi Godenzi e don Reto Crameri, "Proverbi, modi di dire, filastrocche raccolti a Poschiavo, in particolare nelle sue frazioni", con la collaborazione di alcune classi delle Scuole di Avviamento Pratico, Tip. Menghini, Poschiavo (CH), 1987
Lina Lombardini Rini, "Favole e racconti in dialetto di Valtellina", Edizioni Sandron, Palermo-Roma, 1926
Cici Bonazzi, “Detti, proverbi, filastrocche, modi di dire in dialetto tiranese”, ed. Museo Etnografico Tiranese, Tirano, 2000
Luisa Moraschinelli, "Dizionario del dialetto di Aprica", IDEVV (Istituto di Dialettologia e di Etnografia Valtellinese e Valchiavennasca"), Sondrio, 2010
Tarcisio Della Ferrera, Leonardo Della Ferrera (a cura di), "Vocabolario dialettale di Chiuro e Castionetto", Comune di Chiuro ed IDEVV (Istituto di Dialettologia e di Etnografia Valtellinese e Valchiavennasca"), Sondrio, 2008 (cfr. anche www.dialettochiuro.org)
Giovanni Giorgetta, Stefano Ghiggi (con profilo del dialetto di Remo Bracchi), "Vocabolario del Dialetto di Villa di Chiavenna", IDEVV (Istituto di Dialettologia e di Etnografia Valtellinese e Valchiavennasca"), Sondrio, 2010
Luigi Berti, Elisa Branchi (con contributo di Remo Bracchi), "Dizionario tellino", IDEVV (Istituto di Dialettologia e di Etnografia Valtellinese e Valchiavennasca"), Sondrio, 2003
Sergio Scuffi (a cura di), "Nü’n cuštümàva – Vocabolario dialettale di Samolaco", edito nel 2005 dall’Associazione Culturale Biblioteca di Samolaco e dall’Istituto di Dialettologia e di Etnografia Valtellinese e Valchiavennasca. Giacomo Maurizio, "La Val Bargaia", II parte, in "Clavenna" (Bollettino della Società Storica Valchiavennasca), 1970 Gabriele Antonioli e Remo Bracchi, "Dizionario etimologico grosino", Sondrio, 1995, edito a cura della Biblioteca Comunale di Grosio.
Silvana Foppoli Carnevali, Dario Cossi ed altri, “Lingua e cultura del comune di Sondalo” (edito a cura della Biblioteca Comunale di Sondalo)
Serafino Vaninetti, "Sacco - Storia e origini dei personaggi e loro vicissitudini degli usi e costumi nell'Evo", Edizioni Museo Vanseraf Mulino del Dosso, Valgerola, 2003
Sito www.fraciscio.it, dedicato a Fraciscio
Sito www.prolocodipedesina.it, dedicato a Pedesina
Massara, Giuseppe Filippo, "Prodromo della flora valtellinese", Sondrio, Della Cagnoletta, 1834 (ristampa anastatica Arnaldo Forni Editore)
Massara, Giuseppe Filippo, "Prodromo della flora valtellinese", Sondrio, Della Cagnoletta, 1834 (ristampa anastatica Arnaldo Forni Editore)


Utilissima anche la consultazione di Massimiliano Gianotti, "Proverbi dialettali di Valtellina e Valchiavenna", Sondrio, 2001

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PRINCIPALI TESTI CONSULTATI:

Laura Valsecchi Pontiggia, “Proverbi di Valtellina e Valchiavenna”, Bissoni editore, Sondrio, 1969
Gabriele Antonioli, Remo Bracchi, "Dizionario etimologico grosino" (Sondrio, 1995, edito a cura della Biblioteca comunale di Grosio)
Dott. Omero Franceschi, prof.ssa Giuseppina Lombardini, "Costumi e proverbi valtellinesi", Ristampa per l'Archivio del Centro di Studi Alpini di Isolaccia Valdidentro, 2002
Tullio Urangia Tazzoli, "La contea di Bormio – Vol. III – Le tradizioni popolari”, Anonima Bolis Bergamo, 1935;
AA.VV. "A Cà Nossa ai le cünta inscì", a cura della Biblioteca Comunale di Montagna in Valtellina, Piccolo Vocabolario del dialetto di Montagna con detti, proverbi, filastrocche e preghiere di una volta (1993-1996);
Giuseppina Lombardini, “Leggende e tradizioni valtellinesi”, Sondrio, ed. Mevio Washington, 1925;
Lina Rini Lombardini, “In Valtellina - Colori di leggende e tradizioni”, Sondrio, Ramponi, 1950;
Glicerio Longa, "Usi e Costumi del Bormiese”, ed. "Magnifica Terra", Sondrio, Soc. Tipo-litografica Valtellinese 1912, ristampa integrale nel 1967 a Bormio e II ristampa nel 1998 a Bormio a cura di Alpinia Editrice;
Glicerio Longa, "Vocabolario Bormino”, Perugia, Unione Tipografica Cooperativa, 1913;
Marcello Canclini “Raccolta di tradizioni popolari di Bormio, Valdisotto, Valfurva, Valdidentro e Livigno – Il ciclo della vita – La nascita e l'infanzia” (Centro Studi Storici Alta Valtellina, 2000);
Marcello Canclini “Raccolta di tradizioni popolari di Bormio, Valdisotto, Valfurva, Valdidentro e Livigno – Il ciclo della vita – Fidanzamento e matrimonio” (Centro Studi Storici Alta Valtellina, 2004);
Luigi De Bernardi, "Almanacco valtellinese e valchiavennasco", II, Sondrio, 1991;
Giuseppe Napoleone Besta, "Bozzetti Valtellinesi", Bonazzi, Tirano, 1878;
Ercole Bassi, “La Valtellina (Provincia di Sondrio) ”, Milano, Tipografia degli Operai, 1890;
"Ardenno- Strade e contrade", a cura della cooperativa "L'Involt" di Sondrio;
"Castione - Un paese di Valtellina", edito a cura della Biblioteca Comunale di Castione, in collaborazione con il Sistema Bibliotecario di Sondrio;
don Domenico Songini, “Storie di Traona – terra buona”, vol. II, Bettini Sondrio, 2004;
don Domenico Songini, “Storia e... storie di Traona – terra buona”, vol. I, Bettini Sondrio, 2001;
Scuola primaria di Sirta: calendari 1986 e 1991 (a cura dell'insegnante Liberale Libera);
Luisa Moraschinelli, “Uita d'Abriga cüntada an dal so dialet (agn '40)”;
Giovanni Bianchini e Remo Bracchi, "“Dizionario etimologico dei dialetti della Val di Tartano”, Fondazione Pro Valtellina, IDEVV, 2003;
Rosa Gusmeroli, "Le mie care Selve";
Cirillo Ruffoni, "Ai confini del cielo - la mia infanzia a Gerola", Tipografia Bettini, Sondrio, 2003;
Cirillo Ruffoni, "Chi va e chi resta - Romanzo storico ambientato in bassa Valtellina nel secolo XV", Tipografia Bettini, Sondrio, 2000;
Cirillo Ruffoni, "In nomine Domini - Vita e memorie di un comune della Valtellina nel Trecento", Tipografia Bettini, Sondrio, 1998;
Mario Songini (Diga), "La Val Masino e la sua gente - storia, cronaca e altro", Comune di Val Masino, 2006;
Tarcisio Della Ferrera, "Una volta", Edizione Pro-Loco Comune di Chiuro, 1982;
"Parla 'me ta mànget - detti, proverbi e curiosità della tradizione comasca, lecchese e valtellinese", edito da La Provincia, 2003;
Massimiliano Gianotti, "Proverbi dialettali di Valtellina e Valchiavenna", Sondrio, 2001;
Associazione Archivio della Memoria di Ponte in Valtellina, "La memoria della cura, la cura della memoria", Alpinia editrice, 2007;
Luisa Moraschinelli, "Come si viveva nei paesi di Valtellina negli anni '40 - l'Aprica", Alpinia editrice, 2000;
Aurelio Benetti, Dario Benetti, Angelo Dell'Oca, Diego Zoia, "Uomini delle Alpi - Contadini e pastori in Valtellina", Jaca Book, 1982;
Patrizio Del Nero, “Albaredo e la via di San Marco – Storia di una comunità alpina”, Editour, 2001;
Amleto Del Giorgio, "Samolaco ieri e oggi", Chiavenna, 1965;
Ines Busnarda Luzzi, "Case di sassi", II, L'officina del Libro, Sondrio, 1994;
aa.vv. “Mondo popolare in Lombardia – Sondrio e il suo territorio” (Silvana editoriale, 1995) Pierantonio Castellani, “Cento proverbi, detti e citazioni di Livigno” I Libri del Cervo, Sondrio, 1996 Pierantonio Castellani, “Cento nuovi proverbi, detti e citazioni di Livigno” I Libri del Cervo, Sondrio, 1999 Pierantonio Castellani, “Cento altri, detti e citazioni di Livigno” I Libri del Cervo, Sondrio, 2000
Cici Bonazzi, “Detti, proverbi, filastrocche, modi di dire in dialetto tiranese”, ed. Museo Etnografico Tiranese, Tirano, 2000
Luisa Moraschinelli, "Dizionario del dialetto di Aprica", IDEVV (Istituto di Dialettologia e di Etnografia Valtellinese e Valchiavennasca"), Sondrio, 2010
Tarcisio Della Ferrera, Leonardo Della Ferrera (a cura di), "Vocabolario dialettale di Chiuro e Castionetto", Comune di Chiuro ed IDEVV (Istituto di Dialettologia e di Etnografia Valtellinese e Valchiavennasca"), Sondrio, 2008 (cfr. anche www.dialettochiuro.org)
Giovanni Giorgetta, Stefano Ghiggi (con profilo del dialetto di Remo Bracchi), "Vocabolario del Dialetto di Villa di Chiavenna", IDEVV (Istituto di Dialettologia e di Etnografia Valtellinese e Valchiavennasca"), Sondrio, 2010
Luigi Berti, Elisa Branchi (con contributo di Remo Bracchi), "Dizionario tellino", IDEVV (Istituto di Dialettologia e di Etnografia Valtellinese e Valchiavennasca"), Sondrio, 2003
Pietro Ligari, “Ragionamenti d’agricoltura” (1752), Banca Popolare di Sondrio, Sondrio, 1988
Saveria Masa, “Libro dei miracoli della Madonna di Tirano”, edito a cura dell’Associazione Amici del Santuario della Beata Vergine di Tirano” (Società Storica Valtellinese, Sondrio, 2004)
Sergio Scuffi (a cura di), "Nü’n cuštümàva – Vocabolario dialettale di Samolaco", edito nel 2005 dall’Associazione Culturale Biblioteca di Samolaco e dall’Istituto di Dialettologia e di Etnografia Valtellinese e Valchiavennasca. Giacomo Maurizio, "La Val Bargaia", II parte, in "Clavenna" (Bollettino della Società Storica Valchiavennasca), 1970 Gabriele Antonioli e Remo Bracchi, "Dizionario etimologico grosino", Sondrio, 1995, edito a cura della Biblioteca Comunale di Grosio.
Silvana Foppoli Carnevali, Dario Cossi ed altri, “Lingua e cultura del comune di Sondalo” (edito a cura della Biblioteca Comunale di Sondalo)
Serafino Vaninetti, "Sacco - Storia e origini dei personaggi e loro vicissitudini degli usi e costumi nell'Evo", Edizioni Museo Vanseraf Mulino del Dosso, Valgerola, 2003
Sito www.fraciscio.it, dedicato a Fraciscio
Sito www.prolocodipedesina.it, dedicato a Pedesina
Massara, Giuseppe Filippo, "Prodromo della flora valtellinese", Sondrio, Della Cagnoletta, 1834 (ristampa anastatica Arnaldo Forni Editore)
Galli Valerio, Bruno, "Materiali per la fauna dei vertebrati valtellinesi", Sondrio, stab. tipografico "Quadrio", 1890

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