SANTI (clicca qui per aprire la pagina relativa a questo giorno dal sito www.santiebeati.it):
S. Caterina d'Alessandria vergine e martire

SANTI PATRONI: S. Caterina d'Alessandria (Albosaggia)

PROVERBI

De S. Cateréna se scumincia a impizzà la pégna
(a Santa Caterina si comicia ad accendere la stufa - Morbegno)
S. Caterina o név o brina, el frecc el se rafìna
(A santa Caterina c'è neve o brina e il freddo è più pungente- Sondrio)
S. Cateréna la vaka a la caséna e la granda e la pinéna
(Santa Caterina la mucca torna alla stalle, la grande e la piccola - Morbegno)
S. Caterina, porta la crapilìna
(S. Caterina, porta la crapilina - calzatura per la neve - Valle di Morbegno)
A Santa Cateréna la vàca a la cadéna (da Santa Caterina la mucca va legata: cessa il pascolo libero)
A santa Caterina el su ‘l dà ‘l rivedés e pö ‘l camìna
(a Santa Caterina il sole dà l’arrivederci e se ne va, perché in diversi paesi d’inverno non compare mai)
A Santa Caterìna, néf u brìna (a Santa Caterina neve o brina - Tirano)
Par S.Caterina porta peur e c(h)èvar in casina (a Santa Caterina porta pure le capre nella stalla - Fraciscio)
A Santa Caterina o nef o brina (a santa Caterina o neve o brina)
Santa Caterina la porta la scaldina (santa Caterina porta lo scaldino - Poschiavo)

Vita di una volta

VITA DI UNA VOLTA

Nella prefazione di Remo Bracchi al “Dizionario etimologico grosino”, di Gabriele Antonioli e Remo Bracchi (Sondrio, 1995, edito a cura della Biblioteca comunale di Grosio), leggiamo:
"La presenza di dettagli geomorfologici che attirino l'attenzione suscita in genere un senso di religiosità spontanea, che è alla base di eziologie mitiche. I massi erratici sono ritenuti, in qualche località alpina, uova di drago.
I cunfinè "anime di dannati", rifiutati da Dio e dal diavolo, si raffigurano erranti sulle balze rocciose, condannati a far rotolare sassi a valle e a riportarli di notte a spalla sulle cime. Simili ad essi sono i brigulà o prigulà, "anime dei deceduti per morte violenta (mala­mòrt) e degli stregoni" e simile è il loro destino. Spesso essi sono legati al luogo della loro morte prematura o a località segregate e impervie. Appaiono isolati, non in massa, cavalcando per l'aria, come nella "caccia selvaggia".
Si tramanda nelle leggende che il carsant "carro santo" abbia raccolto e portato via per sempre dal paese streghe e stregoni.
Diffusa è la credenza di spiriti vaganti nell'aria, specialmente durante alcune manifestazioni vistose degli agenti atmosferici. ... Il suono delle campane alla minaccia dei temporali aveva lo scopo di allontanare le streghe e i loro malefici. A Bormio la campana deputata a spaventare le megere era detta baiòna, a Grosio salvatèra."


Amleto Del Giorgio, nel bel libro "Samolaco ieri e oggi" (Chiavenna, 1965), descrive in questi termini l’esperienza della morte e l’omaggio ai defunti nella Samolaco di un tempo:
“Nell'umano alternarsi della gioia e del dolore giungeva spesso, anche dai nostri, ora con lugubre preavviso, ora crudelmente improvvisa, la morte. Iniziava, la campana detta 'da morto', il suo tragico annunzio con un concitato suono a distesa. Cinque minuti così e poi altri cinque di lenti, ossessionanti rintocchi, poi ancora a distesa, e quindi i rintocchi: per quasi un'ora, specie se il morto era un anziano, la campana si lamentava. Era la cosiddetta 'agonia', che nel suo variare di tono e di cadenza voleva forse simboleggiare l'eterna lotta fra la vita e la morte, ora drammaticamente tesa e agitata in furioso duello, ora rassegnata in paziente e quasi serena, seppur dolorosa, accettazione del tragico destino umano.
La vita del paese aveva un attimo di sosta: ovunque il lavoro veniva interrotto, gli anziani si levavano il cappello, si facevano il segno di croce e recitavano a mezza voce un lentissimo requiem. I giovani rimanevano un momento fermi, con il capo chino a pensare. Tutti si chiedevano ansiosi a quale casa avesse bussato la morte. Intanto il morto, lavato e vestito con gli abiti della festa, con le calze belle, veniva adagiato su due assi accostate, sorrette da due panche e ricoperte da un lenzuolo. Una candela ardeva su un tavolo accanto, sul quale in bella evidenza stavano quadretti e immagini sacri.
La sera, dopo l'Ave Maria, si recitava il rosario nella casa del morto. La partecipazione era generale e non solo, purtroppo, per zelo religioso e senso di pietà per il defunto. Il fatto è che un'antica usanza voleva che a tutti i partecipanti alla recita del rosario e, il giorno seguente, al funerale, si distribuisse un piccolo dono consistente, in antico, in un pugnello di sale e più recentemente in una "mìc(h)a" di pane.
La motivazione vera di tale regalia era da ricercarsi in motivi religiosi e di giustizia: il morto poteva aver mancato verso il prossimo e spettava quindi agli eredi di riparare, in qualche modo, a tali sue mancanze, sì da permettergli di riposare in pace. Ma tali considerazioni sfuggivano ai più, che vedevano nell'usanza solo una comoda occasione per mangiar pane, allora prezioso, gratis. E i sacchi di pane, arrivati di fresco da Chiavenna a cura dei parenti del morto apparivano, infatti, appena a tergo dell'uscio di casa, e se ne sentiva la fragranza nei vari locali dove, ammassati all'inverosimile, tutti recitavano le preci. Famiglie intere, con ragazzini incapaci ancora, non dico di pregare, ma neppure di parlare, fior di uomini e giovanotti, tutti, tutti a corona, quella sera! E dopo un rosario o due addirittura, intercalati dalla recita del 'miserere' del 'dies irae", quando molti dormivano o stavan ritti sulle panche solo perché impossibilitati a cadere per la gran ressa, ecco l'inizio della distribuzione, ecco il risveglio generale, ecco le avemarie recitate con nuovo, vigoroso tono di voce! ... E al funerale la scena si ripeteva, nei pressi della chiesa, dove la strada si restringeva sotto l'arco del "Culumbée": due distributori, con gran sacchi di 'miche', sbracciavano per darne una a tutti, mentre il lungo, muto corteo avanzava, in quel tratto, con studiata lentezza. Così, in chiesa, ognuno teneva la preziosa pagnotta fra le mani e molti ragazzi, nella lunga liturgia del funerale, cedevano facilmente alla tentazione e rosicchiavano più o meno tranquillamente. Povere, piccole cose umane! E pensare che tale regalia era considerata cosa della massima serietà, indispensabile per poter affermare che il morto era stato 'messo via' con onore!
E il sacrificio per molte famiglie, già duramente provate dalla dolorosa perdita di un suo membro, magari valido o addirittura unico sostegno! Poveri morti! Se dall'altra vita avessero potuto riguardare i loro cari con occhio e giudizio ancora umani, quanta pena avrebbero provato!”

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Draghi sulle Alpi: da S. Agostino a Scheuchzer

Il 25 novembre 1479 il segretario ducale Bartolomeo Calco scrisse al referendario di Como, cioè all’autorità per gli affari religiosi ed ecclesiastici: “Intendemo che nel loco de Gaspano de quella nostra valle de Valtelina debbe essere stato morto uno animale, quale ha forma de draco con le ale, con la testa como quella de uno cane et grosso come una ocha, el quale fu trovato [che] mangiava uno volto de una femena che era. morta de peste, et che quilli homini lo deno havere facto salare, acciò non se corompesse. Per tanto volemo che vedi de trovare uno pinctore el quali mandi ad retrahere dicto animale in carta et poy così retracto subito ne lo mandaray” (lettera segnalata alla Società Storica Valtellinese da Guido Scaramellini). Sì, avete capito bene: a Milano giunse la notizia che a Caspano era stato ritrovato un animale simile ad un piccolo drago con le ali, grande quanto un’oca, con la testa simile a quella di un cane. Di che animale si sarà trattato? Inquietante ed anche un po’ orripilante, di certo, se era intento a divorare il volto del cadavere di un’appestata. A distanza di secoli, quello sul draghetto di Caspano resta un interrogativo che attende ancora risposta.
Molte sono le leggende, in terra di Valtellina e Valchiavenna, come nell'intero arco alpino ed oltre, sui draghi, i più misteriosi, terribili e nobili rappresentanti di un universo immaginario (?) che ha sempre impaurito ed affascinato l'uomo.
Drago, dal greco “dràkon”, è l’animale che fissa lo sguardo, che vede con sguardo acuto in lontananza. Ma è, soprattutto, il più noto fra gli animali immaginari, che si trova, anche se con diverse connotazioni, in culture differenti. Se nella cultura cinese esso è simbolo positivo di forza e saggezza, nelle culture occidentali prevale l’immagine negativa di animale malvagio, che minaccia il mondo, è artefice del male o, più semplicemente, è posto a guardia di un tesoro. Nell'Apocalisse e nella tradizione cristiana diviene l'espressione stessa del male, in un passo rimasto celebre: "Un segno grandioso apparve nel cielo: una donna vestita di sole, con la luna sotto i suoi piedi e, sul capo, una corona di dodici stelle. Era incinta e gridava per le doglie e il travaglio del parto.
Allora apparve un altro segno nel cielo: un enorme drago rosso, con sette teste e dieci corna e sulle teste sette diademi; la sua coda trascinava un terzo delle stelle del cielo e le precipitava sulla terra. Il drago si pose davanti alla donna, che stava per partorire, in modo da divorare il bambino appena lo avesse partorito." Nonostante l'immagine giovannea della donna vestita di luce si riferisca alla chiesa, venne interpretata tradizionalmente come rappresentazione della Madonna. L'immagine del drago, poi, si fuse-confuse con quella del serpente-maligno di cui si dice, nella Genesi, che sarà schiacciato dal tallone della sua nemica, la donna (di nuovo interpretata come Maria Santissima). Di qui il tema di molte rappresentazioni sacre: il serpente-drago schiacciato dal tallone della Madonna.
Altra rappresentazione profondamente impressa nell'immaginario religioso è quella del cavaliere san Giorgio che uccide il drago, episodio che ha per secoli colpito la fantasia dei credenti, che vi hanno visto uno dei più significativi episodi della lotta del bene contro il male.
Essere marino, terrestre o, più spesso, celeste, il drago si caratterizza per l’aspetto serpentiforme, con l’aggiunta di elementi tratti da animali diversi. Sputi o meno fuoco, sia o meno alato, ha il potere di evocare, con il suo solo nome, paure arcane, sgomenti profondi, ma anche ammirazione stupita: dire, metaforicamente, di una persona che è un “drago” significa lodarne le eccezionali capacità in qualche campo.
Le Alpi sono state sempre considerate dimora prediletta dei draghi. Quando vennero fra queste montagne? Non possiamo non consultare, al proposito, Aurelio Garobbio, uno dei maggiori studiosi dell’universo immaginario dell’arco alpino, il quale, nella bella raccolta “Leggende delle Alpi Lepontine e dei Grigioni” (Rocca San Casciano, Cappelli, 1969, pg. 148), ci assicura che ”draghi e serpi compaiono insieme all'uomo, stanno legati all'uomo come il male sta accanto al bene e l'amore all'odio.”
Fino a tutto il settecento era vivissima la convinzione che questi abitassero le cime più alte, considerate inaccessibili, ma potessero anche, in questo o quel luogo, infestare passi e valichi (ne è convinto, fra gli altri, lo stesso S. Agostino). Perfino uno studioso metodico e scrupoloso come il naturalista Johannes Jacob Scheuchzer (Zurigo, 1672-1733), che per primo esplorò le Alpi con l’intenzione di descriverne sistematicamente gli aspetti meteorologici, geologici, mineralogici, botanici e zoologici (scoprì, fra l’altro, una campanula che in suo onore viene chiamata campanula di Scheuchzer) e raccolse i resoconti di nove grandi viaggi di studio nell’opera “Itinera alpina”, riporta, in alcuni capitoli della sua opera, prove dell’esistenza dei draghi. Secondo lui questi animali rappresentano una sorta di variante di dimensioni maggiori dei serpenti, dai quali si differenziano per i seguenti particolari: sono più grandi e dotati, spesso, di barba e baffi, sono rivestiti di una pelle squamosa di colore nero o grigio, emettono un lugubre e tremendo fischio, simile ad un forte sibilo e si nutrono prevalentemente di uccelli che predano, in volo, aspirandoli nelle loro fauci, dall’apertura enorme ed dotate di triplice ordine di denti. Basandosi sulle testimonianze raccolte, giudicate serissime ed attendibili, con il rigore del naturalista classifica 11 diverse specie di drago; fra queste, il drago alato, una sorta di grande serpente che sputa fiamme dalle fauci ed è dotato di ali membranose simili a quelle del pipistrello; il drago dalla lingua bifida, che emette un alito pestilenziale in grado di accecare gli sventurati che vi si imbattono; il drago con corpo di serpente e testa di gatto; i draghi senza ali, di incerta classificazione: forse costituiscono il genere femminile della specie dei draghi.
Valtellina e Valchiavenna furono terra di draghi? Scheuchzer non ci aiuta, ma c’è da dire che non mancano i segni della loro antica presenza. Massi erratici di forma ovoidale, come il Sas da l’öof (Sasso dell'uovo), sul sentiero fra Nogaredo e Piazza Caprara (Samolaco), appena sopra la cappelletta di quota 702, sarebbero uova di drago pietrificate. Non poche sono, inoltre, le leggende che attesterebbero la presenza fra queste valli di tali esseri. Vediamo, a volo di drago, le più note.

Partiamo da quella del drago di Roccascissa, in quel di Berbenno di Valtellina. Ce la racconta Lina Rini Lombardini, nella raccolta "Le novelle dell'Adda" (La Scuola, Brescia, 1929, pp. 51-56). Sulla rupe di Roccascissa, i cui contrafforti delimitano l’ampio balcone sul quale poggia il paese, era eretto, in epoca medievale, un importante castello, che dominava la media Valtellina dallo sbocco della Val Masino al colle di Triangia. Questo venne, un giorno, in possesso di Goffredo De’ Capitanei, come eredità dello zio Rainero De’ Capitanei. Lo zio gli aveva, però, fatto giurare che non avrebbe mai usato la fortezza come strumento di sopraffazione, ma avrebbe promosso con ogni mezzo la pace e la concordia. Goffredo giurò, ma in cuor suo era determinato a seguire ben altre strade. E così fece: appena morto lo zio, montò a cavallo, salutò la moglie, unica persona per la quale provava un sentimento di amore, e galoppò ebbro verso la nuova dimora.
Aveva in animo di farne la roccaforte della sua politica di potenza, per porre sotto il suo spietato tallone le popolazioni della valle. Questo lo dovevano capire tutti, subito.
Perciò si fece forgiare un drago di ferro, che pose in cima alla torre del castello, proteso verso il fondovalle, e con il suo odio protervo gli diede vita. Il drago di ferro, diventato drago vivo, doveva impedire a chiunque di minacciare il castello: per questo ricevette un ordine tassativo, di vomitare fuoco su chiunque si avvicinasse alle sue mura senza essere stato convocato dal suo feroce signore. Soddisfatto, Goffredo pensò che non avrebbe più dovuto temere nessuno: erano gli altri che, d’ora in poi, sarebbero stati percorsi da un brivido di paura al solo sentire il suo nome. Godette però di questa soddisfazione solo per breve tempo.
Ecco, infatti, quel che accadde poi. Accadde che la moglie, non vedendolo da tempo, pensò di fargli visita di sorpresa. Era l’unica persona che Goffredo amava, gli avrebbe fatto sicuramente piacere. Si presentò, dunque, sotto le mura del castello, con l’intento di annunciarsi al marito. Ma non fece neppure in tempo ad allungare la mano verso il battente del possente portone: un torrente di fuoco la incenerì. Il drago aveva eseguito l’ordine. Con lei morì anche l’ultimo barlume d’amore nel cuore di Goffredo. Morì l’ultimo motivo di gioia della sua infelice esistenza. Si dice che anche il castello, come il cuore dello sciagurato, si sgretolò progressivamente e cadde in una desolata rovina.

Scavalchiamo, ora, sempre a volo di drago, le Alpi, piegando verso ponente e calando nel cuore della Val Bregaglia. Una valle che sembra particolarmente prediletta dai draghi. Il passo del Maloja, si racconta, era, in tempi antichissimi, infestato da un terribile drago. Assai noto è anche il drago di Viabella, località leggendaria che si trova sulla strada del Maloja, a 7 km da Chiavenna. Forse è lo stesso drago, forse no: le leggende spesso si intrecciano, mai si elidono.
Vediamo come andò la faccenda di questo drago, raccontata da Luigi Del Molino in "La leggenda di Viabella e del Sasso del Drago" (in "Il Chiodo", Chiavenna, 25/12/1964). Viabella era un piccolo borgo nel quale viveva una fanciulla di singolare bellezza, di nome Brigoletta. Se ne invaghì un principe, che passava di là, e volle che fosse sempre sua, senza però pensare di portarsela con sé nella sua reggia o nei suoi viaggi. Ogniqualvolta fosse passato di lì, l’avrebbe ritrovata, e tanto gli bastava. Ma per essere sicuro di questo, fece venire a Viabella un drago nero che era al suo servizio, e gli comandò di dimorare in una grotta nei pressi del fiume Mera. Vicino alla grotta del drago la sua potenza fece sgorgare una sorgente magica, la mitica fonte della giovinezza, la cui acqua preservava chiunque la bevesse dall’inesorabile scorrere del tempo, conservandolo sempre giovane.
Fin qui tutto bene, si direbbe. Senonché il principe non aveva alcun interesse a che la gente di Viabella si conservasse sempre giovane, anche perché questo rischiava di circondare l’amata di indesiderati pretendenti. C’era pur sempre il drago a vegliare, ma pensò che la prudenza non era mai troppa.
Così ordinò al drago di consentire alla sola Brigoletta di bere alla fonte: gli altri sarebbero invecchiati, lei no, il che le toglieva ogni desiderio di legarsi con altri giovani. La cosa, come potete ben immaginare, non fu digerita di buon grado dagli abitanti di Viabella, anche perché su di loro gravava l’onere di mantenere l’ingombrante drago. E c’è da credere che questi mangiasse come un drago. Decisero, dunque, un bel giorno di farla finita. Il piano era semplice quanto ingegnoso. Riempirono un carro di sale, ricoprendolo in modo che il carico non fosse riconoscibile. Il drago, che aveva sempre fame, si mangiò tutto senza andare per il sottile, e subito fu preso da una sete terribile. Immaginate che arsura ed acidità di stomaco con tutto quel fuoco ed un intero carro di sale dentro. Il drago si precipitò nella Mera e si mise a bere e a bere e a bere. Bevve tanto da scoppiare.
Quando scoppia un drago non è come un petardo: l’effetto è assai più catastrofico. L’intero paese venne spazzato via. Di esso e di Brigoletta non restò traccia (anche se poche anime elette di pie donne, ragazzi o fanciulle, possono ancora avere visione dell’altare della chiesetta di Viabella). Restò, invece, traccia della tana del drago, e la si può vedere ancora: è il cosiddetto Sasso del Drago, un’enorme roccia cava che si trova sulla sinistra della strada per il Maloja, poco dopo S. Croce. Restò anche, e resta tuttora, traccia della sorgente prodigiosa, ridotta, però, a rivolo di acqua pantanosa nei pressi del sasso. Viene chiamata Acqua Morta, perché ha perso il suo potere di preservare la giovinezza. A monte della zona del masso sta un ripiano con alcuni enormi massi accavallati: è quanto resta del drago.
Infine un vigneto, nei pressi del sasso, produce grappoli di un singolare colore dorato: un tempo era il vigneto riservato dal principe all’amata Brigoletta.
C’è, però, chi dice che la storia del drago non abbia niente a che fare con principi e giovinette (cfr. Aurelio Garobbio, "Montagne e valli incantate", Cappelli Editore, Rocca S. Casciano, 1963, pp. 141-142). Sarebbe, semplicemente, la storia di un drago predatore, che piombava, rapace, su mercanti e viandanti che risalivano la Val Bregaglia verso il passo del Maloja. I bregagliotti, disperati, non sapevano più cosa fare per disfarsene. Pensarono, dunque, di mandare verso il passo un carro tirato da due muli e da un asino, guidato da un cavallante di Promontogno. Il carico era costituito da un’enorme quantità di sale. Come c’era da aspettarsi, il drago non tardò a proiettare la sua enorme e paurosa ombra sul carro. Il conducente fece appena in tempo a scendere ed a nascondersi, prima che questi vi piombasse sopra, divorandolo in un sol colpo.
Il sale non tardò a fare effetto, la sete divampò nelle viscere del drago, che, per spegnerla, prosciugò il lago di Cavloccio. Ma non bastò: dentro ardeva ancora, tanto che, con un soffio, incenerì il bosco di Casaccia. Si gettò, allora, sul torrente Mera, cercando sollievo. Bevve tanta acqua da scoppiare. Il botto fu così forte da lasciare un segno su un roccione che si trovava lì vicino. Ecco spiegata la cavità del Sasso del Drago. Ed ecco spiegata la presenza di certi strani tronchi bianchi di cui è disseminata la Val Bregaglia, anche là dove non vi è bosco: sono le sue costole, sparse un po’ ovunque. Sia come sia, da allora i traffici da e per il passo del Maloja non furono più molestati da alcun drago.
Ma cediamo la parola al Garobbio:
La via del Maloggia era infestata da un drago. Né di giorno né di notte percorrendola si era sicuri. Veniva in volo dalla Bondasca o dalla foresta di Cavloccio, oppure dal giogo del Settimo, o da chissà dove; scendeva veloce sputando fuoco ed appestando l'aria ed in un baleno divorava un intero gregge di pecore, una mandria di mucche, ed anche gli uomini se vedendolo calare non cercavano scampo sotto degli alberi o dentro le caverne fra i massi accatastati.
Contro quella calamità non esisteva rimedio: un coraggioso cavaliere di Chiavenna gli mosse incontro con la lancia e la bestiaccia in un sol boccone trangugiò l'uomo e l'armatura, la lancia ed il cavallo.
Poi morì: non per il rimorso, s'intende. Fu la gola a tradirlo. Saliva da Castelmuro diretto all'Engadina un carro carico di sale dell'Adriatico. Lo tiravano due muli ed un asino; lo guidava un cavallante di Promontogno che sapeva il fatto suo, e se con la voce incitava le bestie, con gli occhi scrutava il cielo sorvegliando se il drago apparisse e camminando con la testa in aria incespicava sovente ma non osava bestemmiare. Eccolo: descrive un ampio giro e l'aria geme; a gambe levate il carrettiere si butta nel bosco e si infila sotto un mucchio di fascine, senza fiatare. L'orribile mostro cala sulla strada con le fauci spalancate, inghiotte carro ed animali e via verso il Maloggia. Senonché quel sale dentro lo stomaco cominciò a dargli una sete incontenibile. Svuotò il lago di Cavloccio e non riuscì ad estinguerla. Soffiò ed incenerì il bosco di Casaccia. Scese dentro il letto del Mera e bevve tanta e tanta acqua sempre crescendo l'arsura, si gonfiò come una montagna ed infine scoppiò. Certi tronchi bianchi che si trovano dove non c'è bosco, non sono avanzi di antichi larici abbattuti dai fulmini o sradicati dalle tempeste: coste di drago sono. Ne disseminò per tutta la Bregaglia.”
Un'eco dell'antichissima presenza di draghi allo sbocco della Val Bregaglia si trova anche nella toponomastica: l'enorme roccione rossastro che si vede a monte di Chiavenna, là dove è stato istituito il Parco delle Marmitte dei Giganti, è denominato "Sasso Dragone".
A proposito di draghi bevitori d’acqua, sentite anche questa. Tornando al di qua del versante retico, planiamo sulla Val di Tartano, e precisamente in Val Lunga, dove si trova, a 2018 metri, il laghetto di Gavedùu, nell’ampia conca ai piedi del pizzo della Scala. Un laghetto misterioso, che c’è e non c’è. La soluzione del mistero ce la offre Antonio Boscacci, che parla di un drago alquanto singolare. Singolare perché avrebbe eletto proprio questo microlaghetto (del diametro di 30 metri per una profondità massima di 2) come propria dimora; periodicamente, però, si leverebbe dalle sue acque per bersele tutte. Accortosi, poi, di essere rimasto senza casa, se ne starebbe mesto ad attendere dal cielo l’acqua benedetta che pian piano riforma il laghetto.
Questo è il costume del drago del Gavedùu. Si racconta anche (cfr. la raccolta “C'era un volta, Vecchie storie e leggende di Valtellina e Valchiavenna”, ed. a cura del Comune di Prata Camportaccio, Sondrio, Bonazzi Grafica, dicembre 1994, pg. 75, a cura della Scuola Elementare di Madesimo) di un secondo temibile drago acquatico, che aveva preso come dimora la diga di Campodolcino. Guai ad andare a pesca in quel lago! Il drago usciva dall'acqua, rovesciava la barca del malcapitato e se lo mangiava tutto intero, per poi tornare ad inabissarsi. La faccenda andò avanti per un pezzo, per la disperazione dei poveri abitanti del paese, che non vedevano più pesci (ma anche di pescatori ce n'erano sempre meno...). Finché. Finché. C'è sempre un "finché". Finché un bel giorno il più anziano dei pescatori, preso il coraggio a due mani (non è facile, ma pare che sgusci meno di un pesce), si mise in barca e si portò proprio al centro del lago, gettandovi l'amo. Attese. Attese un bel po'. Alla fine, alto ed orribile, il drago, annunciato da uno schiumare e ribollire di acque, emerse, proprio alle sue spalle. Il vecchio pescatore non si scompose. Si girò, prese un arco, che teneva sul fondo della barca, incoccò una freccia, tese l'arco, prese la mira e scoccò il colpo. La freccia finì diritta al cuore del drago e questi, con un verso di cui mai s'era udito l'eguale, finì diritto in fondo al lago. Sta ancora lì, probabilmente, ma nessuno ha il coraggio di scendere a vedere.

Qualcosa di simile deve essere capitato, in una passato certo remoto, in alta Val Malghera (Val Grosina Occidentale), vicino al confine con il territorio elvetico (Valle di Poschiavo): qui si trova, a 2588 metri, nascosto in una conca appena sotto il crinale del confine, a sud est della Sasa Bianca (Sassalbo), il "lèch del Drèch", cioè il lago del Drago, denominazione che non ammette equivoci. Ma del drago in questione si sono perse le tracce ed anche la memoria. Per i cultori delle cose arcane segnaliamo chequesta è una zona densa di mistero: si racconta, infatti, che un sulle pendici del vicino Sassalbo (la cima di candida roccia calcarea che spicca a monte di Poschiavo) vivesse la stirpe dei Salvanchi, uomini selvatici di gigantesche proporzioni, che di tanto in tanto comparivano negli alpeggi della Valle di Poschiavo, per mostrare agli esterefatti contadini la loro superiore abilità nel lavorare il latte e produrre la cera, o anche, come vuole una versione della leggenda, per mangiarsene qualcuno.
Molti i draghi lacustri anche in Engadina; ecco, di nuovo, il Garobbio, nella bella raccolta “Leggende delle Alpi Lepontine e dei Grigioni” (Rocca San Casciano, Cappelli, 1969):
Il Macun è un pianoro alpestre a più di duemilaseicento metri di altezza, racchiuso in un'irregolare cerchia di pareti a picco e scoscesi nevai, sui quali svettano i pizzi d'Arpiglias, Sursassa, Nuna, Macun. Qui ha inizio la val Zeznina o Zezzinina, che sfocia nell'Eno presso Lavin. La conca solitaria di severo aspetto è costellata da innumerevoli laghetti circondati da prati e rocce… Uno di questi specchi cerulei si chiama Lai dal Dragun, il lago del dragone: sopra le rive, scolpiti nella roccia, stanno tre misteriosi sedili né si sa per quali geni della montagna servissero. Se si butta un sasso nell'acqua, una nebbiolina sale fumando e si diffonde sino a riempire la conca, tocca le cime velandole e dopo un'ora provoca un violento scroscio di pioggia. Nel fondo del lago abita un drago e qualche volta affiora con gran fracasso, battendo orrendamente le ali e sollevando onde violentissime… Il lago muggisce, o forse è il dragone stesso. I monti intorno tremano ed il boato rimbomba pauroso per la val Zezzinina e si ode sin dall'altra sponda dell'Eno.
In fondo all'arcuata val Laver, sotto l'immane seraccata che precipita dal Piz Tasna come un torrente solidificato, un laghetto pare addolcire il severo scenario di rupi, nevi, pietrame distendendo lo specchio limpido, pronto ad incresparsi alla brezza… A volte ancora l'acqua del Lago di Laver si agita e ribolle. Notando l'inconsueto fermento i pastori fuggono lontano perché nel lago abita un drago e quell'incomposto moto ondoso è segno che il mostro risale dalle profondità subacquee per uscire alla luce.
Qualche animoso, arrischiando la vita, si è nascosto dietro i massi per appagare la propria curiosità, ed ha potuto osservare l'orrida bestia dalla pelle squamosa, con occhi di fuoco e rossa lingua biforcuta.
Nel Lai Verd, il lago Verde, immerso nel God da Suren, il folto bosco che dalle rive del fiume s'inerpica avvolgendo la piramide nuda e tormentata del Piz Lad, abita un tremendo drago.
A galla viene di rado, ma quando esce dall'acqua con grande strepito, i boscaioli se la danno prudentemente a gambe. Il suo alito di fuoco appesta l'aria e fa seccare le piante. Un giovane malgrado i consigli di chi ne sapeva più di lui, si rannicchiò dietro un tronco per scrutare la terrificante apparizione: ritornò al villaggio di Strada coi capelli completamente incanutiti.”
Stupisce, forse, apprendere che vi siano draghi che eleggono specchi d'acqua come loro dimora, ma questa non è cosa poi così rara. Nel bormiese, per esempio, si parlava, in passato, della "mandràgola", un drago che abitava le acque dei fiumi e che si intravedeva quando il sole colpiva la loro superficie, dando vita al mobile guizzo dei riflessi. Un drago niente affatto innocuo, dal momento che sua preda preferita erano i bambini che sostavano sulle rive dei torrenti: balzava fuori più rapido del balenare di un riflesso e lì trascinava giù, nel gorgo delle acque. Di loro non si sapeva più nulla. Per questo i bambini, temendo una fine così orribile, si guardavano bene dall'avvicinarsi alle rive pericolose, ed i genitori parevano molto soddisfatti di questo.

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Altrettanto temibile era il drago dell’alpe Piana, laterale meridionale della Val Grosina occidentale, non lontana dal quella valle di Malghera di cui abbiamo testé detto. La sua storia è riportata nella bella raccolta “C'era un volta. Vecchie storie e leggende di Valtellina e Valchiavenna” (ed. a cura del Comune di Prata Camportaccio, Sondrio, Bonazzi Grafica, dicembre 1994. pp. 68-69) e nell'articolo "Il drago di Piana", di E. Bellora (Quaderni valtellinesi - Centro di lettura di Grosotto, febbraio 1974). Un tempo quest’alpe era ricca di armenti e pastori. La sua condizione florida e felice venne, però, compromessa dall’apparizione, improvvisa e terribile, di un dragone mostruoso, come non se n’era mai visto uno fra le montagne della Valtellina: aveva tre teste, dalle quali sputava fiamme. Venne, non si sa da dove, ed i pastori fuggirono tutti, terrorizzati, lasciando che facesse a pezzi le mandrie. L’alpe divenne, quindi, un luogo deserto, nel quale nessuno osava più avventurarsi. Tennero consiglio, dunque, gli abitanti di Grosio e Grosotto, vincendo la fiera rivalità che li divideva, ma non riuscirono ad accordarsi. Poi, finalmente, si raccolsero, a fatica, le risorse per pagare un esercito da scagliare contro il drago, ma fra la schiera di armati, durante la marcia, non si sa bene come e perché, scoppiarono liti e risse, ed i valorosi guerrieri si dispersero, portandosi via il compenso già intascato. Venne, quindi, anche lui da un luogo ignoto, un giovane biondo, bello, forte e coraggioso, che, conosciuto il flagello dell’alpe Piana, si offrì di sconfiggere il mostro. Anche a lui Grosini e Grosottini versarono oro e gioielli, convinti che quel cavaliere così fiero e nobile d’aspetto avrebbe portato a compimento l’impresa. Invece sparì pure lui, e con lui oro e gioielli.

La gente cominciò a sospettare della faccenda: don Lucio propose di non pagare più alcun cialtrone, ma di ingrassare un toro possente, per scagliarlo poi contro il drago. Così fecero, ed il toro, che aveva raggiunto una mole enorme, venne portato all’imbocco della valle, perché sconfiggesse quell’essere mostruoso. Ma, invece di scagliarsi contro di lui, il toro gli si rivolse con queste parole: “Io sono una bestia come te, e mi mandano a morire: non uccidere me, ma prenditela con quelli che si sono arricchiti approfittando della tua presenza”. Non si sa come, né perché, ma la storia finì così: il toro tornò indietro illeso, il drago sparì, così come era venuto, all’improvviso e senza lasciar tracce, e di lui rimase solo il ricordo che venne tramandano dai pastori che ripopolarono l’alpe. Bella leggenda, piena di contenuti istruttivi.
Parente prossimo (almeno così si può supporre) di questo drago è il drago di Grosotto, di cui parla un’analoga leggenda, sempre ambientata nel territorio di questo comune e sempre riportata nella citata raccolta “C'era un volta, Vecchie storie e leggende di Valtellina e Valchiavenna” (pp. 72-73, a cura della Scuola Elementare di Grosotto). Non siamo più, però, in Val Grosina, ma sul versante montuoso sopra il paese. Giunsero anche qui, da nord, i Barbari che, dopo la caduta dell’Impero Romano, ne invasero i territori. Giunsero fin dalla Scandinavia e nascosero, in una grotta presso una rupe che cade a picco poco sopra le case di Grosotto, un favoloso tesoro, costituito da gemme, diamanti, pietre preziose, oro ed argento, frutto di anni ed anni di razzie operate scorazzando nel cuore dell’Europa. Lasciarono tutto nella grotta, non certo a beneficio dei poveri Valtellinesi, ma con l’intento di tornare a riprenderselo in tempi più propizi. E per mettere le cose subito in chiaro con i contadini del paese, lasciarono a guardia di quella fortuna un drago mostruoso, che avevano portato con sé dal lontanissimo nord. Mostruoso è dir poco: aveva tre teste ed un solo occhio, ed un alito così pestilenziale da diffondere un terribile puzzo in tutta la zona. Lo avevano incatenato alla roccia, prima di andarsene, ma lui non sembrava molto contento di quella sistemazione. Squassava la valle con urla terribili, che facevano tremare la terra, rendeva aridi e sterili i campi con il suo alito mefitico e, quel che era peggio, attirava a sé, con un misterioso potere magnetico, almeno un paio di animali o addirittura persone ogni giorno, per poi divorarseli in men che non si dica. Gran brutto affare: la gente non usciva più di casa, terrorizzata com’era. Oltretutto i Barbari, che avevano proseguito le loro razzie nella penisola italiana, erano stati rovinosamente sconfitti in battaglia, e quindi non sarebbero tornati a riprendersi né oro né drago. Che fare? Ci pensò la Provvidenza a venire in soccorso dei Grosottini, e fu una grazia di quella Madonna cui è dedicato il celebre santuario di Grosotto. Così come da nord era venuta la sciagura, da nord venne la salvezza, nelle sembianze di un aitante e bellissimo cavaliere, dai capelli biondi e dagli occhi color fiordaliso. Arindo era il suo nome, di chiara origine germanica.
Comparve in paese e ne vide le vie deserte. Bussò ad un uscio e chiese per qual motivo tutta la gente se ne stesse rinserrata in casa. Quando seppe l’accaduto, non ci pensò due volte: si incamminò verso la grotta, determinato a far fuori il drago. Tutta la gente, dalle finestre delle case, lo seguiva con lo sguardo, la speranza e la preghiera.
Il drago lo vide venirgli incontro e si levò sulle zampe, mostrando tutta la sua paurosa mole. Ma Arindo non si impressionò: sguainata la spada, gli si avventò contro, conficcandola nell’unico mostruoso occhio e spingendola tanto in profondità da raggiungere il cuore. Il drago morì sul colpo. Dalla ferità sgorgò un torrente di sangue, che corse fino all’Adda e la arrossò per due giorni interi. Dai cuori della gente, invece, sgorgò nuova speranza e profonda riconoscenza per l’eroico salvatore. Questi si mostrò non solo coraggioso, ma anche generoso: distribuì a tutti le ricchezze della grotta, suscitando in tutti quel sorriso che da allora non si è più spento fra la gente di Grosotto. Una curiosità, per concludere: nello stemma del comune è rappresentato un biscione con la lingua biforcuta: che c'entri, in qualche modo, oltre che con la potenza famiglia dei Visconti, con il pauroso drago? E' certo, comunque, che la memoria antichissima di un enorme drago rosso custode dei tesori dei barbari calati in Valtellina dopo il disfacimento dell'Impero Romano è diffusa anche in altri luoghi (cfr. la citata raccolta “C'era un volta, Vecchie storie e leggende di Valtellina e Valchiavenna”, alla pg. 77, a cura della Scuola Media Ligari di Sondrio).

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Passiamo, ora, dalla leggenda alla storia, trasvolando da Grosotto al versante retico che si apre alle porte della Valtellina, vale a dire alla solatia Costiera dei Cech.
Di Caspano e del suo draghetto abbiamo già parlato all'inizio. Raccontiamo, ora, l’antica storia dei draghi della miniera dell’oro di Paniga, diffusa nel territorio del versante meridionale del Culmine di Dazio, poco più ad est, quindi, di Caspano. Ai tempi dei Vicedomini di Cosio Valtellino venne aperta su questo versante, a monte di Paniga, una miniera d’oro, la "bögia de l'òòr", sfruttata fino alla fine del Settecento, il cui ingresso si può ancora vedere presso una radura dalla quale passa il sentiero che da Paniga sale a Porcido, in località "el regulùn a la bögia de l'òòr", chiamata così per la presenza di una grossa quercia. Qui, fra rovi, sterpi e pietraie soleggiate, sembra abitasse, un tempo, una stirpe di draghi.
Così almeno raccontavano i vecchi di Paniga, come scrive Renzo Passerini nella bella raccolta di leggende intitolata “Gh’era na volta”.
Molto discordi, però, erano le descrizioni riportate da chi li aveva visti: per alcuni erano giganteschi, di color verde cupo, con una spessa cresta sul dorso ed un’enorme bocca dalla quale saettava una lunga lingua biforcuta; per altri erano di più modeste dimensioni (non più di mezzo metro di lunghezza) e di un color grigio che si mimetizzava assai bene con quello delle pietre, per cui ci si accorgeva della loro presenza a fatica, solo per gli occhi fiammeggianti. Altri ancora narravano di averli visti sul tronco di talune piante: avevano lo stesso colore della corteccia, biancastro sulle betulle, marroncino sui castagni, verde fra le foglie.
Per molto tempo la paura impedì più sistematiche osservazioni: la gente era, infatti, convinta che questi esseri potessero stordire, ammaliare, aggredire, avvelenare addirittura chi si avvicinasse; era anche convinta che il loro potere malefico si esercitasse anche sulle colture, danneggiandole. Per questo era stato coniato anche un nome per il mostro di Paniga: “el dragu de la miniera de l’oor”, forse in accordo con le tante leggende che descrivono i draghi a guardia di tesori nascosti. Passò così un bel po’ di tempo, senza, però, che nessuno fosse vittima di aggressioni o peggio.
Alla fine la gente cominciò ad arrendersi all’evidenza ed a guardare con maggiore attenzione queste bestie, osservando che in effetti non erano molto grandi, avevano sì una cresta sul dorso, la lingua biforcuta, una bocca deforme e le dita delle zampe prensili, ma si cibavano solo di insetti e temevano l’uomo. Avevano, poi, la curiosa proprietà di assumere il colore dell’ambiente nel quale si trovavano, mimetizzandosi, così, piuttosto bene. Possiamo supporre che si trattasse, quindi, di camaleonti. E con questa laconica conclusione svanì ogni alone di leggenda e mistero: niente oro, niente draghi in quel di Paniga. Ma sarà vero?

I draghi, in effetti, da tempo immemorabile hanno lasciato i cieli delle valli alpine. Dove si nascondono? Ormai solo i nomi, forse, ne custodiscono le ultime labili tracce, se è vero quel che ipotizza Remo Bracchi, quando scrive, a proposito dell'alpe Mara, a monte di Montagna in Valtellina, che il toponimo "nasconde forse la raffigurazione di un drago primordiale" (da "Inventario dei Topinimi Valtellinesi e Valchiavennaschi - Montagna"): esso deriverebbe, infatti, dalla radice prelatina "mara", che ha generato nomi di diversi insetti con caratteristiche demoniache, e che si trova anche in voci europee che significano "incubo" ("nightmare", in inglese, "cauchmare", in francese, "mara" nell'alto tedesco).
Prima, però, di chiudere quest’ampio resoconto sulla figura dei draghi e sulla questione mai del tutto chiarita della loro scomparsa, dobbiamo, però, porci un’altra questione, anch’essa misteriosa: che ci fanno i draghi sulle grondaie (più raramente, sui battenti) di molte case in alta Valtellina, in Engadina ed in diversi altri luoghi delle Alpi? A questo proposito Remo Bracchi, autorità prestigiosa in materia di dialettologia ed etnologia, ha qualcosa di interessante da dirci:“Chi si trovasse in piazza del Cuèrc’ nel momento in cui scroscia un temporale, vedrebbe i grifoni alati riprodotti alle estremità delle sue grondaie orizzontali rigurgitare fiumi d’acqua dalla bocca. La raffigurazione del drago volante faceva parte un tempo dell’architettura rustica di tutte le baite d’alta quota...
Nella concezione degli antichi il tetto della casa rappresentava il piccolo cielo, posto a copertura dell’abitazione dell’uomo, come proiezione del grande cielo che avvolge la terra col suo immenso manto azzurro… A Grosio con il termine grif si qualifica il ‘tempo nuvoloso e freddo’, e da questo è estratto il verbo ingrifàs ‘peggiorare delle condizioni atmosferiche’… L’evocazione del drago volante nei fenomeni atmosferici, per chi è sensibilizzato al linguaggio immaginoso, creato da visioni del mondo proiettate su altri sfondi, si coglie probabilmente in modo ancora più esplicito nel verbo di Olmo drac(h)ià ‘nevicare’, che si riverbera forse anche nel sondalino drag(h)iàda ‘tempesta, acquazzone con grossi goccioloni’ (con la sovrapposizione della suggestiva immagine del drac’ il ‘crivello’ con il quale la divinità del cielo fa cadere dall’alto chicchi di grandine e falde di neve come da un immenso vanno).
Nelle contermini fasce geografiche ticinese e bergamasca l’appellativo di dragone compare come nome dei torrenti che mugghiano dai loro profondi inghiottitoi, vomitando verso l’alto le loro schiume rabbiose… Nel contermine Cantone dei Grigioni, alle estremità delle travi sommitali prospicienti la facciata, si possono ancora ammirare teste di dragoni con le bocche spalancate e minacciose, da noi completamente scomparse. Come per la Gorgone scolpita sui frontoni dei templi greci, la funzione dei mostri era apotropaica. Essi dovevano tenere lontane dalle abitazioni degli dei e degli uomini gli spiriti del male, raminghi nell’aria. Esseri mostruosi appaiono sugli stipiti delle porte di chiese e santuari per gli stessi motivi…
” (pubblicato sul bel sito www.altavaltellinacultura.com).
Dunque, secondo il principio talvolta espresso nella frase “chiodo scaccia chiodo”, il drago forgiato nel metallo delle grondaie, un po’ come la serpe sui battenti di molte case di Chiavenna, è, in certo senso, manifestazione del terribile che l’uomo riesce a piegare a sé, contro altre forme del male, come nelle leggende in cui i draghi sono posti al servizio di qualche padrone perché ne proteggano i beni. Ma pensiamo davvero che gli antichi e fieri draghi, quando volavano liberi e terribili, potessero essere piegati al volere di qualche uomo? Che penserebbero, che farebbero, oggi, se vedessero la loro effigie relegata a piccolo strumento scaramantico per tener lontani gli spiriti malvagi dell’aria?
E per finire, veramente, una menzione merita anche quella sorta di fratello minore del drago, ma non meno pauroso, rappresentato dal “basalesk”, mezzo gallo e mezzo drago volante, temutissimo dai contadini, perché si credeva potesse incenerire una persona con il solo sguardo (ed in effetti, etimologicamente, “drago”, dal greco “drakon”, è, come abbiamo visto, l’animale che ti punta contro lo sguardo, che vede con sguardo acuto in lontananza). Si credeva anche che il basilisco nascesse dal centesimo uovo deposto da una gallina, più piccolo di quelli normali e senza tuorlo, o anche da un uovo deposto da un gallo. Se lo si trovava, lo si doveva gettare subito alle proprie spalle, e non ci si doveva girare per nessun motivo, neppure se si sentivano rumori raccapriccianti: in caso contrario, il mostro sarebbe uscito dall’uovo dischiuso, ed allora erano guai.
Ma consultiamo, di nuovo, sul tema, il Garobbio (da “Leggende delle Alpi Lepontine e dei Grigioni”, cit.):
"È poco piú grosso di un ramarro, e gli somiglia anche, benché la sua pelle non sia verde bensì grigio-scuro e coperta di squame. Sulla testa ha una cornea corona, lungo il filo della schiena e sulla coda una durissima cresta a sega. Ai lati gli spuntano due ali membranose che apre volando al pari di un pipistrello. Cacciando fuori la bifida lingua fischia e richiama l'attenzione degli uomini e degli animali.
Chi guarda i suoi occhietti verdi resta incantato e rimane come di sasso. Non un piede può muovere, né una mano, né abbassare le palpebre per sottrarsi al maleficio, né urlare per chiamare soccorso.
Il veleno del gallo basilisco ha effetto immediato e non c'è scampo; la dannata bestia aspetta però a morsicare la vittima che non può fuggire, fermandosi a fissarla per intere ore, godendo del disperato terrore ed accorciando il supplizio soltanto se ode avvicinarsi qualcuno.
Interi boschi e fiorenti cascinali a volte si incendiano e in un batter d'occhio sono preda delle fiamme. È il gallo basilisco che volando sinistramente ha lasciato cadere una goccia del veleno. Si dice che l'orrida bestia nasca dall'uovo di un gallo di sette anni, covato dal gallo per tre settimane. Il girasole ha il potere di tenerlo lontano, come lontani tiene gli altri rettili; per questo sull'angolo degli orti e dei campi vedete il giallo fiore eretto sull'alto fusto, quasi in vedetta
."

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APPENDICE: ECCO LA VERSIONE DELLA LEGGENDA DEL DRAGO E DI ARINDO, COSI' COM'E' RIPORTATA NEL VOLUME "RACCONTI E LEGGENDE DI GROSIO, GROSOTTO E MAZZO"a cura del Centro di Lettura di Grosotto e della Biblioteca Popolare, edito nel febbraio 1974 (Collana di Quaderni Valtellinesi, n. 1)

Nei neri tempi delle invasioni dei barbari, anche nel paese di Grosotto di Valtellina, si trascorreva una dura vita. Entro una grotta profonda, che s'apriva poco lontano dalle case del villaggio, in una rupe a picco, stava accovacciata una strana figura di drago che incuteva terrore in paese e in quelli adiacenti. Esso si presentava con tre enormi teste che noi potremmo paragonare a quelle di certi animali antidiluviani; a differenza dei bestioni di questa genia, disponeva di un solo occhio, ma grande come una ruota di priala, che si poteva muovere nell'orbita come l'occhio del camaleonte; era piantato nel cranio ed era di colore variabile a seconda del tempo che faceva. Aveva acutissima vista; scorgeva persone ed animali ad una grande distanza ed era aiutato da un udito così fine che udiva il passo delle formiche e delle cavallette, il muoversi delle persone a
letto ed il leggero passo delle fate e dei folletti che s'aggiravano intorno. Però le bocche erano tre come nei draghi tradiionali. Insieme con le lingue si agitavano in esse fiamme serpentine che sulle punte portavano una luce accecante che di tratto in tratto si spegneva sviluppando puzzo di fosforo. Quel mostro stava accucciato sull'entrata della caverna sempre con il suo faro acceso e muoveva senza tregua la coda che era tanto lunga che ne toccava il fondo, e con essa faceva uno strepito indiavolato.
Perché il drago non usciva mai dal suo covo? Aveva un compito molto delicato ed importante: era il custode sicuro di un immenso tesoro che i barbari vi avevano nascosto. Si parlava di una cassa colma di gemme, diamanti, pietre preziose di valore immenso; di lingotti d'oro e d'argento che sarebbero bastati per rendere ricca, anzi ricchissima tutta la gente della bella Valtellina.
Quel drago era stato condotto lì dai barbari stessi imbavagliato ed incatenato. L'avevano trovato in una caverna della Scandinavia e se l'erano trascinato seco. Sepolto il tesoro che avevano accumulato, nella caverna di Grosotto, vi avevano messo il mostro legato, affinché esso lo custodisse fino al loro ri torno. Ma gli uomini del Nord avevano trovato la morte nelle guerre contro gli Italiani ed il drago continuava a custodirlo.
Quando questo urlava sembrava che la terra tremasse e la gente del paese non osava metter piede futuri di casa. Inoltre il suo alito era pestifero non solo per le persone ma anche per la campagna circostante che era sempre arida come se la siccità vi fosse permanente. La povera gente non sapeva come liberarsi dall'orribile inquilino della caverna che, ed ora solo lo rivelo, divorava almeno due persone od animali al giorno, attirandoseli con il suo potente potere magnetico, fra le zampe unghiute come quelle del leone. Ma la Provvidenza doveva pur intervenire a soccorrere i miseri Grosottini. Infatti, una radiosa mattina di maggio, all'apparire del sole, si presentò un bellissimo giovane con la capigliatura d'oro e gli occhi color fiordaliso, chiamato Arindo, alto quasi due metri e forte come un gigante. Era audace guerriero: si vantava di aver ucciso dieci orsi bianchi, fra cui uno con due teste. Non vestiva abiti di lana o di canapa o dì lino: una pelle bianca come la calotta glaciale gli copriva il che apparivano muscolose poderoso salto da una riva pendeva una lunga spada massiccia con l'elsa intarsiata di pietre rare e di diamanti. Gli era stata lasciata in eredità da suo padre, uomo valoroso come il figlio al quale si attribuivano imprese che il degno d scendente ricordava con orgoglio e grande gioia. Il nostro principe non conosceva la paura né di nome né di fatto. Per lui dunque essa non trovava posto nel suo cervello,
né tanto meno nel suo cuore, che era non di ferro ma d'acciaio. Conosciuta la causa dell'angoscia del paese costituita dal terribile drago, immediatamente s'incamminò alla volta della caverna per snidarlo ed ucciderlo. La gente era sulle finestre delle case a pregare ed a osservare le azioni del coraggioso. Ne temeva la morte, una orribile morte. Giunse che il drago, sdraiato sulla bocca della caverna, stava schiacciando un pisolino. Forse la sua digestione, in quella giornata, era alquanto laboriosa: si era mangiato addirittura una grossa e vecchia mucca che aveva osato passargli sui piedi.
Appena figurato il baldo e fiero giovane, aprendo completa mente l'occhio, si levò pesantemente sulle quattro zampe che sembravano quattro colonne e si scagliò contro l'importuno, man dando boati che facevano tremare il monte e lanciando dalle tre bocche lingue di fiamma che giungevano in faccia al principe, senza abbruciarlo, perché era invulnerabile. Senza scomporsi, ma sorridendo come se si preparasse ad una azione di lotta delle più comuni, trasse la spada e, baciatala, si avventò con impeto talmente sicuro che atterrì il bestione. Infilatagli la spada nell'occhio, la spinse fino al cuore. Da questo sgorgò un torrente di sangue che, seguendo il sentiero, andò a confluire nell'Adda che divenne rossa e tale rimase per due giorni perché il sangue cessò di uscire solo al tramonto del secondo.
Il salvatore di Grosotto, aiutato dalla gente che era accorsa ad applaudirlo, raccolse tutto il tesoro e se ne servì per beneficare i Grosottini dal primo all'ultimo. Così il paese si arricchì, si ampliò; la popolazione accrebbe ed il sorriso, per tanto tempo scomparso tornò sul volto di tutti e continua a risplendere tuttora e non sparirà mai. Il principe benefico, com'era apparso una mattina col sole se ne andò una sera durante il tramonto, lasciando dietro di sè il profumo di gelsomino.

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Ricorre oggi la memoria di Santa Caterina d'Alessandria, patrona di Albosaggia. In onore di questo luminoso centro del versante orobico mediovaltellinese, riportiamo una carrellata di leggende relative al suo territorio.

La paura, in quel di Albosaggia, ha diversi volti. Il più noto e popolare è quello della strega, che qui viene chiamata Magàda. La strega è un essere che, per la sua malvagità e capacità di nuocere a uomini, bestie e colture, risulta temibilissima anche quando (il che accade nel maggior numero dei casi) ordisce trame ed insidia i viandanti da sola. Ma esistono notti in cui si unisce a quante si sono votate al male, come lei, per incontrarsi e congiungersi con il demonio, scatenarsi in danze sfrenate, ordire trame ancor più terribili. E’ la strega al sabba, che, da temibile, diviene addirittura spaventosa: dal sabba (chiamato, nelle valli alpine, barlotto, berloto o barilotto) essa ricava, infatti, la sua forza e la sua implacabile volontà di fare il male.
Esistono date che un po’ ovunque sono connesse a tale malefico convegno. Le più note sono la notte che precede la festività di Ognissanti (1 novembre) e quella che precede la celebrazione di S. Valpurga (1 maggio). Ma, si potrebbe dire, landa che vai, strega che trovi. Così in bassa Valtellina l’appuntamento era fissato per il 15 agosto e, si racconta, la strega più anziana indicava con un grande falò il luogo prescelto, in modo che le altre potessero facilmente raggiungerlo uscendo da valli e vallecole del territorio montano. Ecco da dove è nata la tradizione dei falò di Ferragosto: per disorientare le schiere di maliarde si pensò di moltiplicare i fuochi che illuminavano la notte.
In media Valtellina, invece, pare che le streghe amassero climi decisamente più frizzanti e si dessero convegno il primo dell’anno. L’origine della Magàda di Albosaggia è, probabilmente nel vicino versante retico e precisamente nella valle della Maga (o valle Magada), una modesta ed incassata vallecola fra Castionetto di Chiuro e Teglio, tributaria della più ampia val Rogna. Da qui se ne uscivano le streghe, per spargersi sui prati della zona ed intrecciare le diaboliche danze, sulla punta non di piedi comuni, ma di zampe caprine, nella cosiddetta notte di tregenda (Tresenda non è lontana, e la leggenda vuole che il suo nome derivi proprio da tale notte). Chi si trovasse a transitare sulla strada provinciale n. 10 Panoramica dei Castelli, che da Castionetto sale a Teglio, potrebbe riconoscere la valle dall’omonimo ponte che la scavalca, e che si trova poco prima della località Vangione, 800 metri circa oltre il vecchio edificio della scuola elementare di San Giovanni. La valle appare, dal ponte, come una modesta gola, invasa da vegetazione caotica, un luogo tutt’altro che attraente. Appena sotto il ponte, si può ancora osservare una cappelletta cadente, l'unico baluardo a salvaguardia dei viandanti che un tempo salivano a Teglio per un frequentato sentiero. Insomma, anche se non è prossimo il capodanno, la tentazione è quella di lasciarsi alle spalle l’inquietante luogo.
Dalla valle le streghe hanno colonizzato i monti circostanti: così la Magada è anche la tipica figura di strega ad Albosaggia (mentre a Tresivio troviamo la variante, nel nome ma non nella perfidia, della Marcolfa, ed a Teglio quella della Vermenaia – altro nomignolo che è tutto un programma). Torniamo, dunque, ad Albosaggia, dove la Magàda ha colonizzato per secoli i racconti paurosi delle nonne durante le sere invernali nella stalla, dopo la doverosa recita del rosario. Ma non è questo l’unico volto della paura sul versante orobico del “monte Santo”.
Il volto più antico e misterioso è strettamente legato alle vicende storiche che hanno meritato al territorio di Albosaggia la fama di “monte Santo” (secondo una diffusa ipotesi, questo è il significato del termine, da “Alpes agia”). Tutto cominciò, infatti, nei primi secoli dell’era cristiana, nella Val Mani, un vallone che scende dal fianco orientale della Valle del Livrio, più o meno al suo ingresso, e che la strada che sale a San Salvatore attraversa. Dicono, oggi, gli etimologi che Mani si riferisce alla voce dialettale “mani”, cioè “lamponi”. Ma come possiamo calpestare la scienza dello storico Francesco Saverio Quadrio, che, invece, riconduce il nome ai ben più nobili Mani, antichissime divinità pagane? La leggenda della Val Mani gli dà ragione. Essa ha come protagonisti appunto questi spiriti oscuri, che abitavano la valle cui li lega il nome, ma ne uscivano, spesso, a danno dei Cristiani, detestati per aver messo al bando, con i culti pagani, anche il loro culto. Eccoli, allora imperversare su campi ed alpeggi: con il loro fetido fiato li rendevano brulli e desolati, prosciugavano le mammelle delle mucche, rendevano difficile perfino alle donne concepire i figli. Il loro alito pestifero diffondeva ovunque morte e desolazione. E poi assumevano le sembianze di strani animali, che apparivano, improvvisi, e terrorizzavano i viandanti.
Ma accadeva anche di peggio. Una volta, come racconta Lina Rini-Lombardini in "Le novelle dell'Adda" (La Scuola, Brescia, 1929, pp. 59-67) Ruggero, un coraggioso e robusto giovane, che faceva il borelée, cioè raccoglieva in basso gli alberi che i boscaioli abbattevano più in alto,  seguì i suoi compagni di lavoro in un bosco proprio nei pressi della Val Mani. Ne aveva sentite raccontare, su quella vale maledetta, ma non aveva mai dato credito alle tante dicerie. Cose da donnicciole, diceva, e scrollava le spalle, ridendo di gusto. Così disse e così fece anche quando la sua fidanzata Cecilia, saputo che avrebbe dovuto lavorare presso la valle maledetta, lo scongiurò di non andarci. A nulla valsero preghiere e lacrime: di solito quando le donne si impegnano fino in fondo per dissuadere gli uomini, ci riescono, ma l’infelice Cecilia dovette rassegnarsi a lasciar andare il promesso sposo, con il cuore gonfio di trepidazione. Venne la mattina ed i boscaioli si misero al lavoro di buona lena. Piazzato il cuneo sul tronco di un grande larice, cominciarono a colpirlo sul lato opposto, per farlo cadere a valle. Qualche decina di metri più in basso stava Ruggero, pronto con gli attrezzi del mestiere a sviare la caduta del tronco dal vallone, per fermarlo ai suoi lati e poterlo poi recuperare. Ci volle molto tempo prima che l’albero, gemendo per la ferita mortale, si abbattesse a terra e cominciasse a rotolare. Ruggero ne studiò con freddezza la traiettoria: l’aveva fatto tante e tante altre volte, si sentiva sicuro del fatto suo. Ma quella volta non fu solo la naturale forza di gravità ad agire: invisibili e malefiche mani (quelle dei Mani, appunto) deviarono il tronco pochi metri sopra Ruggero, spingendolo proprio contro di lui. Non ebbe neppure il tempo di rendersi conto di quel che avveniva: morì schiacciato, in modo straziante e disgraziato. Cecilia non si riebbe più dal dolore, e la triste sorte degli sposi mancati suscitò un’impressione enorme: quei maledetti persecutori di Cristiani l’avevano fatta troppo grossa!
I contadini, disperati, si rivolsero, allora, a quel sant’uomo di don Sebastiano, parroco di Albosaggia. Questi salì ai maggenghi della Valle del Livrio, impartendo su ciascuno la più solenne benedizione ed intimando, a nome dell’Unico Dio Onnipotente, a tutti gli spiriti immondi di lasciare quelle terre. Piantò anche tre croci, come presidio permanente contro il male. La fama della sua santità non era infondata: davvero quell’uomo era un uomo di Dio, ed i Mani dovettero lasciare la valle, che rifiorì, tornando a nuova vita. Tornato alla sua chiesa di S. Caterina, don Sebastiano passò, prima di coricarsi, nell’ossario, per recitare l’ufficio dei defunti (era la prima settimana di novembre). Acceso un cero, cominciò a leggere dal breviario alla sua tenue luce. Poi, d’improvviso, un refolo gelido spense la fiamma, lasciando l’ossario in una oscurità inquietante. Il pio sacerdote capì subito che non si trattava di un naturale colpo di vento ed intuì la presenza del male. Non tremò, tuttavia, la sua mano, ma, riposto quietamente il breviario, si volse verso l’ingresso, dove intravide, contro il debole chiarore delle stelle, una folla di oscure figure. Non se ne vedeva il volto, si distingueva appena la forma, che si sarebbe detta vagamente umana, ma deforme. Poi, oscurità da oscurità, una figura parve farsi avanti. E parlò: “Voi, don Sebastiano, in nome del vostro Dio ci avete cacciati. Ma non avete il potere di annientarci. Ed ora ascoltate bene quel che abbiamo da dire: non ce ne andremo, né vi lasceremo mai in pace, se prima non ci direte dove dobbiamo andare”. Il parroco rimase per qualche istante smarrito: non aveva con sé alcuna croce, non acqua santa con la quale esorcizzare anche quel luogo. Si rese conto, dunque, che non sarebbe mai uscito dall’ossario se non avesse in qualche modo compiaciuto il desiderio di quegli spiriti malvagi. Pensò un attimo, pensò al luogo nel quale avrebbero fatto il male minore. “In Val di Togno, andatevene in Val di Togno ad appestare erbe ed animali”, disse alla fine. E quelli, muovendosi insieme, come lugubre processione, se ne andarono. Da allora non si videro più sul versante orobico, ma in Val di Togno la loro influenza pestifera cominciò a farsi sentire, e si fa sentire ancora, perché si attende un nuovo don Sebastiano che abbia la sufficiente statura di santità per porvi fine. Le oscure vicende di questi spiriti malefici sono raccontate nel volume di G. Marchesi "In Valtellina - Costumi, leggende e tradizioni" (Clausen Palermo-Torino, 1898, pp. 424-425) .
Sfrattati gli spiriti malvagi, restarono, però, quelli più innocui e burloni, ma fastidiosi anzichenò. Si tratta di quei folletti e spiritelli che sono l’anima di tante storielle raccontate, fra il serio ed il faceto, sempre nelle sere in cui si nutre anche la fantasia, dopo che lo stomaco ha già avuto la sua, magari magra, parte. Ed ecco la sfilza di lamentele legate alla loro esuberante invadenza. C’è lo spirito burlone che si diverte a far disperare il povero contadino, già stanco e tribolato di suo, nascondendogli gli attrezzi di lavoro, slegando, di notte, le mucche o facendo suonare il loro campanaccio. C’è, poi, quello che preferisce passeggiare, per tutta la santa notte, sulle piode dei tetti delle baite, producendo quel toc toc toc toc che fa toglie il sonno ai contadini e terrorizza i bambini. Quell’altro ancora si infila nelle case, nel cuore della notte, e si siede, invisibile, sul petto di quelli che dormono, provocando incubi terrificanti, dai quali si svegliano madidi di sudore: allora sembra loro di intravedere, per un istante solo, brevissimo, un’ombra fuggir via. Ed c’è poi quello che prende di mira i prodotti del lavoro dei contadini: il latte, allora, si caglia, il formaggio va a male, ed ai contadini vien male al veder rovinato tanto ben di Dio. Di queste creature dispettose parla Aurelio Garobbio ne "Montagne e valli incantate" (Rocca S. Casciano, 1963).
L’ultima menzione la merita quel buontempone di folletto, di cui parla sempre il Garobbio (op. cit.), che prendeva di mira i fedeli devoti ed i santi uomini. Durante le processioni si diverte da matti a spegnere la fiamma dei ceri dei fedeli. Sembrava un improvviso spirar di vento, ma non era vento, le pie donne se ne accorgevano subito. Si racconta, anche, di un santo frate, così umile che non voleva neppure che se ne ricordasse il nome: se ne stava ore ed ore inginocchiato sul sagrato della chiesa di S. Caterina, a pregare il Signore. Quando veniva sera, accendeva una candela, perché accompagnasse i suoi passi al momento del ritorno nella cella. Ed il folletto subito la spegneva. E accendi e spegni, e accendi e spegni, il singolare duello fra la pazienza del frate e l’irriverenza dello spiritello durava per qualche tempo, finché quest’ultimo, ammirato anche lui, in fondo, da tanta santità, si decideva a lasciarlo in pace.
Ma le leggende che hanno come protagonisti gli spiriti non finiscono qui: eccone un'altra tratta dal bel volume di Dante Sosio e Cecilia Paganoni “Albosaggia – Appunti di storia e di arte – Vita Contadina – Tradizioni e leggende”, (1987):
“Si racconta che tanti, tanti anni fa sull'alpeggio di S. Salvatore vivevano due sorelle. Vivevano in una baita con le mucche, e dormivano nel fienile. Capitava diverse volte, che di notte venivano svegliate di soprassalto, spaventate da rumori strani e terrificanti che provenivano dalle stalle: sentivano lo scalpitare di cavalli al galoppo e rumori di catene. Questi fatti si ripeterono più e più volte, le povere donne impaurite scendevano nella stalla per controllare, ma niente. Una notte che i rumori si fecero più insistenti e paurosi le due malcapitate svegliarono un pastore chedormiva in un fienile vicino in cerca di aiuto, manon c'era niente, nella stalla tutto era normale e lemucche erano tranquille, come al solito. Si disse allora che le due donne avevano ricevuto la fisica o il malocchio.
Qualcuno, forse il più avveduto degli altri, sosteneva che unavita di privazioni, distenti, di isolamento aveva portato le due donne a vedere ea sentire quello che non c'era.
Si diceva anche che esistevano gli spiriti maligni, che giravano nelle case e nei boschi a terrorizzare la gente con quei rumoridannati che facevano, scuotendo catene e campanacci arrugginiti. Si racconta che una volta incontrarono un prete e cercarono di spaventarlo e di impedirgli di attraversare un torrentello. Ma questi non si lasciò intimidire, fece il segno della croce e pronunciò una frase del Vangelo; gli spiriti come per incanto svanirono e lui poté continuare la sua strada.
A quei tempi si diceva che il parrocodava la fisica a quelli che non andavano a messa.
Strane dicerie affermavano inoltre che il cunsili dei trenta (Concilio di Trento) fu fatto per scongiurarequesti spiriti e pare che proprio da allora questistrani fatti non accaddero piú.”
Se il Concilio di Trento ebbe l'effetto di cacciare gli spiriti pagani, meno successo, pare, ebbe con le forme più tipicamente cristiane della paura, i fantasmi: ce n’è per tutti i gusti in quel di Albosaggia. La famosa casa Paribelli pare (cfr., al proposito, il volume di G. Marchesi "In Valtellina - Costumi, leggende e tradizioni", pg. 422) ne ospitasse molti. In particolare, molti giuravano di aver visto due spettri di preti conversare presso il ponticello di fronte all’ingresso della casa. E poi si raccontava di una stanza della casa infestata da spettri, che si nascondevano nei cassettoni di cui erano piene le pareti foderate di legno: di lì balzavano fuori allo scoccare del dodicesimo rintocco della mezzanotte, scatenandosi in danze folli ed in diaboliche ridde. Da far accapponare la pelle. Se a ciò aggiungiamo voci di orribili stanze di tortura e di misteriosi cunicoli che collegavano la casa con il fondovalle, il quadro della sua fama sinistra è completo.
A proposito di fondovalle, neppure la frazione del Porto era esente da lugubri leggende. Qui pare tenesse banco la storia (raccontata nel già citato volume di G. Marchesi "In Valtellina - Costumi, leggende e tradizioni", pg. 423-424) del misteriosissimo fantasma di una Regina, che passava con un velo bianco, sempre alla mezzanotte precisa, sul ponte dell’Adda, a cavallo di un bianchissimo destriero. Una Regina senza volto. La Regina per eccellenza. La Morte. La seguiva un corteo si fantasmi a cavallo: si trattava dei ricchi sondriesi defunti, che si radunavano per chissà quali diaboliche feste. La macabra Regina, un giorno, salì su su, fino all’imbocco della Valle del Livrio, alla chiesetta di San Salvatore, la prima, forse della media Valtellina. Salì per portarsi via un sacerdote. Ma non agì da sola, bensì attraverso la mano di un sacrilego omicida, che uccise il prete proprio sull’altare della chiesa. Da quell’orribile assassinio l’altare fu spostato ed orientato ad occidente, mentre in origine guardava ad oriente. Così anche qui fu scritto un capitolo dell’interminata vicenda umana, intrecciata di bene e di orrore, e la Regina poté tornare al piano.

Tornò ancora, però, la Regina fra quei monti, e tornò mandando avanti a sé branchi di lupi: due bambini vennero sbranati nei boschi del paese nell’autunno del 1625, altri furono attaccati, in contrada Cantone, sempre da un branco di lupi il 13 febbraio 1633. Ma questa non è già più leggenda, bensì cronaca.
E dalla cronaca traiamo anche il racconto della triste fine di Margherita, la "Margarita de Albosagia", presunta strega che morì per sifinimento prima ancora di essere sottoposta alle crudeli torture che il rito del processo inquisitoriale contro le streghe, nel secolo XVII, prevedeva. Ecco la cronaca dell'esito della sua breve e disgraziata vita, nell'anno 1634: " Era dessa appena sui vent'anni. Invaghitasi di un giovinotto che stava  come servo nella casa o castello de' Paribelli, e avutone parola di sollecito matrimonio, erasi mostrata troppo accecata e debole, e già portavano le conseguenze… Dalla Margarita di Albosaggia buccinavansi orrende storie: ella era stata veduta al gioco del barilotto e in striozzo nel Tonale e in altri monti, e quindi montando a cavallo sopra un bastone, ballava e trescava coi demonj..... Se non che quando le fu chiesto se veramente essa si fosse trovata al gioco del barilotto e dello striozzo nel Tonale e in altri monti e se insieme ad altre streghe avesse ballato e trescato con  demonj, a cui aveva giurato obbedienza, e fatto dono e dell’anima e del corpo, essa temperandosi a certa  qual calma, diceva: “Signori, io non sono mai, a così dire, uscita da Albosaggia, se non per venire a Sondrio a vender frutti, uova od altre simili cose. Perché mi parlan dunque e di Tonale e di altri luoghi, che io non so nemmeno dove siano?”...
Chiamato in seguito il dottore Lavizzari, questi, fatta la debita diagnosi, attestava che la giovine nello stato di sfinitezza in cui era, non avrebbe potuto sostenere nessun tratto di corda, senza correre pericolo di morte anche istantanea. Fu dunque gioco forza l'ammettere il pietoso voto del medico, e il lasciare che le cose procedessero da sé. Venuta la sera del 25 agosto, la Margarita ch'era andata sempre distruggendosi, sentissi assalita dai dolori del parto. Erano le tre antimeridiane del 26 agosto, e finalmente la infelice liberavasi di una bambina, che purtroppo, giusta quanto era stato predetto, dalla comare, era già morta. Poco dopo la Margarita non pronunciava che a stento qualche sillaba, ed anzi perdeva affatto la loquela. Il canonico Merlo, visto il lividore del volto, e gli occhi semichiusi colle pupille rovesciate e ormai spente, e trovato nessun polso, le raccomandava l’anima e diffatti verso le ore cinque ella dava l'ultimo anelito. Il suo caso fu commiserato, ma da pochi, che in qui tempi gli animi erano troppo preoccupati dalla paura di stregherie e sortilegj, e quindi mal disposti verso coloro a cui apponevansi simili colpe. E anzi fu molta se il cadavere della sciagurata fu lasciato seppellire col bambino, senza che prima venisse pubblicamente bruciato. Il canonico Merlo avevane chiesto la grazia, e F. Rangone non aveva avuto il coraggio a ricusarla”.

Di fronte alla crudezza della storia, vien voglia di tornare a rifugiarsi nell'immaginario. Ed è quel che facciamo, riportando un'ultima leggenda, tratta dal già citato volume di Dante Sosio e Cecilia Paganoni “Albosaggia – Appunti di storia e di arte – Vita Contadina – Tradizioni e leggende”, (1987). Si tratta di una storia che vorrebbe ammonire sui pericoli che si corrono quando si viola il comandamento che impone di astenersi dal lavoro nel giorno del Signore, la domenica:
“Si racconta che una volta ad Albosaggia viveva una donna che tutte le sere, meno la domenica si recava su nel maggengo di «Ca' di Moi» in una casa disua proprietà a filare la lana. Un sabato sera aveva portato con sé anche il suo bambino appena nato dentro la culla. Poiché la domenica, secondo l'usanza del paese non si poteva filare, lei rimase alzata fin dopo la mezzanotte per finire il lavoro. La Magada, che aveva il suo rifugio in una caverna lì vicino vide la luce filtrare dalla finestra, capì che la donna stava ancora lavorando nonostante fosse già domenica. Pronunciò allora la sua terribile maledizione: Fila filòta, fila filòta, fila filòta fila gió chè la pòca stòpa.. La donna senti la maledizione ma presa dal suo lavoro pensò che si trattasse di uno scherzo e replicò: Aah, ho ca püra, sii otre de Ca' di Romeri! (Aah non ho paura siete voi di Casa Romeri). Dopo un momento però incominciò ad avere paura perché nessuno bussava alla porta, il tempo passava ma nessuno bussava, c'era un silenzio pauroso.
Fattasi coraggio prese la culla e s'incamminò versocasa. Proprio nell'istante che la donna doveva attraversare la valletta la Magada che l'aveva seguita passo passo aspettando il momento opportuno per mettere in atto la sua maledizione si scagliò contro e la scaraventò nel uaigèll per punirla di aver lavorato didomenica.
Da quel giorno quel uaigèll è chiamato La uàl de la fémma!”

Una seconda leggenda, tratta dal medesimo volume, e raccontata da Giulia Paganoni, anni 91, a Michela Toccalli, rappresenta una variazione sul medesimo tema. Eccola.
"Nella contrada Barbagli viveva una donna che passava le giornate filando la lana fino a tarda sera, per tutte le famiglie del Torchione. Una sera mentre stava ancora filando al lume di candela, una vecchietta bussò alla porta e le offri il suo aiuto per filare la lana. La buona donna accettò con piacere, non si era accorta purtroppo che si trattava della terribile Magada. Questa pronunciò sotto voce, per non farsi sentire alcune parole magiche, poi fece alcuni gesti rapidi e in quattro e quattrotto la lana finì. Allora la buona donna tutta contenta andò in camera da letto a prenderne dell'altra. Il marito che era già coricato vedendola ancora alzata le chiese cosa stesse facendo. La buona donna rispose che prendeva altra lana perché una buona vecchina era venuta ad aiutarla. Il marito capì subito che la buona vecchina altro non era che la Pelarola, la Magada che si nutriva di pelle umana.
Per chi fosse interessato ricordiamo che in Albosaggia c'erano altre due Magade, una si nutriva di ossa e l'altra di carne umana. Tornando alla nostra storia, l'uomo impaurito, nascose sua moglie sotto il letto chiuse a chiave la porta sprangò la finestra e attesero che la Pelarola stanca di aspettare se ne andasse. Dopo una lunga attesa la sentirono allontanarsi urlando: Pée pée, quant ca ho penàat e chel pòrco al t'ha ensegnaat (quanto ho penato per avere la tua pelle e quel porco ti ha liberato)
."

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A santa Caterina d'Alessandria, infine, è dedicata una chiesetta sul solare versante retico a monte di Traona. Si tratta della chiesa di S. Caterina di Corlazzo (o Corlazio), fra le chiese minori, una delle più interessanti, per la sua storia e per i dipinti che vi si trovano, dell’intera Costiera dei Cech. Qualche hanno fa interventi di restauro quanto mai opportuni l’hanno restituita, per quanto possibile, alla sua originaria bellezza. Sorge nella frazione di Corlazzo, a 370 metri, sul versante che si eleva di poco rispetto al fondovalle, sopra Valletta, ad est di Traona.
Le sue origini risalgono, forse, al cuore del medioevo, e precisamente al secolo XII, e si giustificano tenendo presente il progressivo popolamento, in atto dall’alto Medio Evo, del versante di mezza costa a scapito del fondovalle, reso malsano dal suolo paludoso e dalla conseguente malaria. Nacquero così quei nuclei, come Corlazzo, che videro aumentare nei secoli il numero di anime, tanto da far sentire l’esigenza di un piccolo luogo sacro nel quale la loro fede potesse essere celebrata ed alimentata.
La chiesetta di S. Caterina è sicuramente attestata dal secolo XV, nel quale fu visitata anche dal famoso frate predicatore S. Bernardino da Siena (1439). Nel secolo successivo vi passò il vescovo di Como, di origine morbegnese, Feliciano Ninguarda, nella sua visita pastorale in Valtellina; costui scrisse: “Ad un miglio dalla parrocchiale, un po’ fuori strada, c’è un villaggio di circa 20 fochi, chiamato Corlazio, appartenente alla comunità di Traona: ci sono due chiese, una dedicata a Sant’Agata, l’altra a Santa Caterina Martire, nelle quali si celebra raramente per penuria di sacerdoti…” Il nucleo di Corlazzo, dunque, contava, anche per la sua felice collocazione, circa un centinaio di anime, numero del tutto ragguardevole per quel tempo. Era posto, infatti, sull’antica Civo.
La facilità di accesso a S. Caterina aveva però anche dei risvolti negativi. Nel 1629-30, la Valtellina fu percorsa dalle truppe dei Lanzichenecchi, che attendevano di passare attraverso il ducato di Milano, e che vi compirono razzie di cibo, vino, biada per i cavalli, portando anche (quel che è peggio) il terribile morbo della peste. Passarono anche per Corlazio, e, alla vista del dipinto dell’annunciazione dell’angelo a Maria, sulla sua parete esterna, lo deturparono con iscrizioni e simboli che ancora oggi si possono vedere (questi soldati erano protestanti, e quindi consideravano il culto alla Madonna espressione della corrotta chiesa di Roma).
A quel medesimo secolo risale un episodio meno fosco, che vale la pena di raccontare. Dal 1624 officiavano nella chiesetta i frati del Convento di S. Francesco, nella vicina Traona. Il 31 dicembre del 1666 due di costoro, il padre superiore Fra’ Costante Parravicini ed il giovane frate Gian Antonio da Como, si misero in cammino per salire a S. Caterina, non senza difficoltà, perché nei giorni precedenti abbondanti nevicate avevano reso la via assai faticosa. Giunsero, dunque, al ponte sulla valletta che precede di poco la chiesa, ma la neve lo aveva interamente ricoperto, tanto che non lo si vedeva più. Il padre superiore, per stanchezza più che per imperizia, sbagliò nell’indirizzare il piede, lo posò su una cornice di neve che cedette, facendolo precipitare nel vuoto della piccola forra sottostante che il torrente Valle si era scavano in quel punto. Il giovane che lo accompagnava fu preso dal panico e corse via, gridando che si venisse in soccorso dell’anziano superiore. Accorse, dunque, la gente, alle sue grida, e tutti conversero nel luogo della disgrazia. Che disgrazia, però, si rivelò non essere, perché il canuto frate riemerse, fra lo stupore di tutti, sull’altro lato della valletta, risalendo alla strada, interamente asciutto, e lodando Dio per averlo scampato da quella sciagura. Fu così che i frati e la gente poterono intonare il solenne “Te Deum” di ringraziamento, come si fa nella Messa dell’ultimo giorno dell’anno, aggiungendo ai motivi di lode anche la miracolosa salvezza del padre superiore.
Proviamo a ripercorrere le orme dei due frati francescani (difficilmente, però, troveremo tanta neve anche nel cuore dell’inverno, dal momento che la felice esposizione della costiera tempera di molto i rigori invernali). Lasciata la macchina all’inizio della strada per Mello, portiamoci alla frazione di Coffedo (sulla destra della strada) ed incamminiamoci sulla stradina che sale alla ben visibile chiesa del Convento, nella località omonima, disseminata di cappellette che corrispondono alle diverse tappe della Via Crucis. Raggiunto il sagrato della chiesa del Convento, soffermiamoci a gustare il panorama che da qui si gode, soprattutto verso l’alto Lario. L’attuale chiesa sostituisce quella più antica, che era posta più a valle (in località Somagna o Fillaggio, appena oltre il ponte sul torrente Vallone, che scende dal Vallone di S. Giovanni), e che venne distrutta da un’alluvione nel 1731.
A proposito di alluvioni, guardando verso sud, cioè in direzione del fondovalle che sta proprio sotto di noi, possiamo osservare il susseguirsi di case delle frazioni che congiungono Traona alla Valletta, ad est. Ebbene, questa zona era, nei secoli passati, assai meno ospitale, soprattutto per le piene dei torrenti Bombolasca, Vallone e Valle, che l’avevano riempita di detriti alluvionali e quindi resa inutilizzabile per le coltivazioni. L’unico nucleo esistente in quei secoli era Ca’ di Bor, cioè “Case dei grossi tronchi”, denominazione che si riferiva al transito del legname sul fiume Adda dall’alta valle verso il lago di Como, per il quale molto probabilmente si riscuoteva, qui, il Dazio (centena), secondo un antichissimo diritto dei Vicedomini di Traona.
Torniamo, ora, dal sagrato della chiesa alla strada per Mello, e percorriamola, in salita, fino al primo tornante sinistrorso. Si stacca, qui, sulla destra (in corrispondenza di due cartelli che segnalano la chiesa di S. Caterina e un torchio a leva del secolo XVI in frazione Corlazzo), una strada secondaria, anch’essa (recentemente) asfaltata: è la via Somagna, che attraversa le case della frazione omonima, proseguendo poi, verso est, in leggera salita, nella splendida cornice di vigneti ben curati. Oltrepassiamo, così, una deviazione, sulla destra (si tratta di una pista che scende alla Valletta), prima di raggiungere il ponte sul torrente Valle, scenario della miracolosa riemersione dalla neve del padre superiore fra’ Costante.
Pochi passi ancora, e siamo al sagrato della chiesetta di S. Caterina, che ci accoglie con la sua simpatica facciata a capanna, rivolta ad ovest, all’ombra di alcuni grandi platani. Sulla parete rivolta a monte (nord) possiamo vedere il dipinto dell’Annunciazione, sormontato da un tettuccio, con l’angelo che si rivolge a Maria: dalla sua bocca escono le parole “Ave gratia plena Dominus tecum”. Si tratta di un dipinto di ignoto autore lombardo della fine del Quattrocento. Possiamo anche osservare le iscrizioni della soldataglia dei Lanzichenecchi, che, purtroppo, lo deturpano. Altri ce ne sono, all’interno ( fra cui una Madonna con Bambino che porge a S. Caterina l'anello delle nozze mistiche, la rappresentazione di S. Ambrogio, S. Agostino e S. Girolamo, la rappresentazione della Trinità come volto uno e trino, la rappresentazione di angeli musicanti: per poterli vedere ci si può rivolgere alla signora che ne custodisce le chiavi (la sua casa si trova poco oltre, sulla sinistra della strada).
Quel che, invece, è difficile da visitare è l’antico torchio della frazione: lo si trova proseguendo per un breve tratto, in salita, e raggiungendo il nucleo centrale di Corlazzo. È, però, in un edificio quasi sempre chiuso. Dalla frazione di Corlazzo parte un tratturo, con fondo in cemento, che sale fino ad intercettare l’antica strada che collega S. Croce a Mello, appena a monte di S. Croce: la camminata può, quindi, proseguire con una visita a questo nucleo, che appartiene al comune di Civo.
La camminata si può concludere, infine, scendendo alla vicina chiesetta di S. Apollonia e di qui alla Valletta, per poi tornare a Traona seguendo la via del piano. Troviamo la mulattiera che scende a S. Apollonia appena prima della chiesetta di S. Caterina, sulla destra, a lato della strada (c’è anche un sentiero che parte subito dopo la chiesetta, sempre sulla destra). La discesa è molto breve, e porta alle baite abbandonate di S. Apollonia, fra le quali la secentesca chiesetta. La mulattiera (l’antica via per S. Apollonia e Corlazio) prosegue nella discesa e, dopo qualche tornante, effettua una diagonale verso destra che si conclude al limite orientale delle case della Valletta ed al ponte sul torrente Valle.
Seguendo la via del piano, torniamo, infine, all’automobile, dopo circa un’ora e mezza di cammino (modesto è il dislivello in salita, 160 metri approssimativi).

STORIA
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I PROVERBI SONO IN GRAN PARTE TRATTI DAI SEGUENTI TESTI:

Gaggi, Silvio, "Il volgar eloquio - dialetto malenco", Tipografia Bettini, Sondrio, 2011
Laura Valsecchi Pontiggia, “Proverbi di Valtellina e Valchiavenna”, Bissoni editore, Sondrio, 1969
Gabriele Antonioli, Remo Bracchi, "Dizionario etimologico grosino" (Sondrio, 1995, edito a cura della Biblioteca comunale di Grosio)
Dott. Omero Franceschi, prof.ssa Giuseppina Lombardini, "Costumi e proverbi valtellinesi", Ristampa per l'Archivio del Centro di Studi Alpini di Isolaccia Valdidentro, 2002
AA.VV. "A Cà Nossa ai le cünta inscì", a cura della Biblioteca Comunale di Montagna in Valtellina, Piccolo Vocabolario del dialetto di Montagna con detti, proverbi, filastrocche e preghiere di una volta (1993-1996)
Glicerio Longa, "Usi e Costumi del Bormiese”, ed. "Magnifica Terra", Sondrio, Soc. Tipo-litografica Valtellinese
"Parla 'me ta mànget - detti, proverbi e curiosità della tradizione comasca, lecchese e valtellinese", edito da La Provincia, 2003
Pier Antonio Castellani, “Cento proverbi, detti e citazioni di Livigno” I Libri del Cervo, Sondrio, 1996
Pier Antonio Castellani, “Cento nuovi proverbi, detti e citazioni di Livigno” I Libri del Cervo, Sondrio, 1999
Pier Antonio Castellani, “Cento altri, detti e citazioni di Livigno” I Libri del Cervo, Sondrio, 2000
Pier Antonio Castellani, "Detti e citazioni della Valdidentro", I Libri del Cervo, Sondrio, 2000
Luigi Godenzi e don Reto Crameri, "Proverbi, modi di dire, filastrocche raccolti a Poschiavo, in particolare nelle sue frazioni", con la collaborazione di alcune classi delle Scuole di Avviamento Pratico, Tip. Menghini, Poschiavo (CH), 1987
Lina Lombardini Rini, "Favole e racconti in dialetto di Valtellina", Edizioni Sandron, Palermo-Roma, 1926
Cici Bonazzi, “Detti, proverbi, filastrocche, modi di dire in dialetto tiranese”, ed. Museo Etnografico Tiranese, Tirano, 2000
Luisa Moraschinelli, "Dizionario del dialetto di Aprica", IDEVV (Istituto di Dialettologia e di Etnografia Valtellinese e Valchiavennasca"), Sondrio, 2010
Tarcisio Della Ferrera, Leonardo Della Ferrera (a cura di), "Vocabolario dialettale di Chiuro e Castionetto", Comune di Chiuro ed IDEVV (Istituto di Dialettologia e di Etnografia Valtellinese e Valchiavennasca"), Sondrio, 2008 (cfr. anche www.dialettochiuro.org)
Giovanni Giorgetta, Stefano Ghiggi (con profilo del dialetto di Remo Bracchi), "Vocabolario del Dialetto di Villa di Chiavenna", IDEVV (Istituto di Dialettologia e di Etnografia Valtellinese e Valchiavennasca"), Sondrio, 2010
Luigi Berti, Elisa Branchi (con contributo di Remo Bracchi), "Dizionario tellino", IDEVV (Istituto di Dialettologia e di Etnografia Valtellinese e Valchiavennasca"), Sondrio, 2003
Sergio Scuffi (a cura di), "Nü’n cuštümàva – Vocabolario dialettale di Samolaco", edito nel 2005 dall’Associazione Culturale Biblioteca di Samolaco e dall’Istituto di Dialettologia e di Etnografia Valtellinese e Valchiavennasca. Giacomo Maurizio, "La Val Bargaia", II parte, in "Clavenna" (Bollettino della Società Storica Valchiavennasca), 1970 Gabriele Antonioli e Remo Bracchi, "Dizionario etimologico grosino", Sondrio, 1995, edito a cura della Biblioteca Comunale di Grosio.
Silvana Foppoli Carnevali, Dario Cossi ed altri, “Lingua e cultura del comune di Sondalo” (edito a cura della Biblioteca Comunale di Sondalo)
Serafino Vaninetti, "Sacco - Storia e origini dei personaggi e loro vicissitudini degli usi e costumi nell'Evo", Edizioni Museo Vanseraf Mulino del Dosso, Valgerola, 2003
Sito www.fraciscio.it, dedicato a Fraciscio
Sito www.prolocodipedesina.it, dedicato a Pedesina
Massara, Giuseppe Filippo, "Prodromo della flora valtellinese", Sondrio, Della Cagnoletta, 1834 (ristampa anastatica Arnaldo Forni Editore)
Massara, Giuseppe Filippo, "Prodromo della flora valtellinese", Sondrio, Della Cagnoletta, 1834 (ristampa anastatica Arnaldo Forni Editore)


Utilissima anche la consultazione di Massimiliano Gianotti, "Proverbi dialettali di Valtellina e Valchiavenna", Sondrio, 2001

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PRINCIPALI TESTI CONSULTATI:

Laura Valsecchi Pontiggia, “Proverbi di Valtellina e Valchiavenna”, Bissoni editore, Sondrio, 1969
Gabriele Antonioli, Remo Bracchi, "Dizionario etimologico grosino" (Sondrio, 1995, edito a cura della Biblioteca comunale di Grosio)
Dott. Omero Franceschi, prof.ssa Giuseppina Lombardini, "Costumi e proverbi valtellinesi", Ristampa per l'Archivio del Centro di Studi Alpini di Isolaccia Valdidentro, 2002
Tullio Urangia Tazzoli, "La contea di Bormio – Vol. III – Le tradizioni popolari”, Anonima Bolis Bergamo, 1935;
AA.VV. "A Cà Nossa ai le cünta inscì", a cura della Biblioteca Comunale di Montagna in Valtellina, Piccolo Vocabolario del dialetto di Montagna con detti, proverbi, filastrocche e preghiere di una volta (1993-1996);
Giuseppina Lombardini, “Leggende e tradizioni valtellinesi”, Sondrio, ed. Mevio Washington, 1925;
Lina Rini Lombardini, “In Valtellina - Colori di leggende e tradizioni”, Sondrio, Ramponi, 1950;
Glicerio Longa, "Usi e Costumi del Bormiese”, ed. "Magnifica Terra", Sondrio, Soc. Tipo-litografica Valtellinese 1912, ristampa integrale nel 1967 a Bormio e II ristampa nel 1998 a Bormio a cura di Alpinia Editrice;
Glicerio Longa, "Vocabolario Bormino”, Perugia, Unione Tipografica Cooperativa, 1913;
Marcello Canclini “Raccolta di tradizioni popolari di Bormio, Valdisotto, Valfurva, Valdidentro e Livigno – Il ciclo della vita – La nascita e l'infanzia” (Centro Studi Storici Alta Valtellina, 2000);
Marcello Canclini “Raccolta di tradizioni popolari di Bormio, Valdisotto, Valfurva, Valdidentro e Livigno – Il ciclo della vita – Fidanzamento e matrimonio” (Centro Studi Storici Alta Valtellina, 2004);
Luigi De Bernardi, "Almanacco valtellinese e valchiavennasco", II, Sondrio, 1991;
Giuseppe Napoleone Besta, "Bozzetti Valtellinesi", Bonazzi, Tirano, 1878;
Ercole Bassi, “La Valtellina (Provincia di Sondrio) ”, Milano, Tipografia degli Operai, 1890;
"Ardenno- Strade e contrade", a cura della cooperativa "L'Involt" di Sondrio;
"Castione - Un paese di Valtellina", edito a cura della Biblioteca Comunale di Castione, in collaborazione con il Sistema Bibliotecario di Sondrio;
don Domenico Songini, “Storie di Traona – terra buona”, vol. II, Bettini Sondrio, 2004;
don Domenico Songini, “Storia e... storie di Traona – terra buona”, vol. I, Bettini Sondrio, 2001;
Scuola primaria di Sirta: calendari 1986 e 1991 (a cura dell'insegnante Liberale Libera);
Luisa Moraschinelli, “Uita d'Abriga cüntada an dal so dialet (agn '40)”;
Giovanni Bianchini e Remo Bracchi, "“Dizionario etimologico dei dialetti della Val di Tartano”, Fondazione Pro Valtellina, IDEVV, 2003;
Rosa Gusmeroli, "Le mie care Selve";
Cirillo Ruffoni, "Ai confini del cielo - la mia infanzia a Gerola", Tipografia Bettini, Sondrio, 2003;
Cirillo Ruffoni, "Chi va e chi resta - Romanzo storico ambientato in bassa Valtellina nel secolo XV", Tipografia Bettini, Sondrio, 2000;
Cirillo Ruffoni, "In nomine Domini - Vita e memorie di un comune della Valtellina nel Trecento", Tipografia Bettini, Sondrio, 1998;
Mario Songini (Diga), "La Val Masino e la sua gente - storia, cronaca e altro", Comune di Val Masino, 2006;
Tarcisio Della Ferrera, "Una volta", Edizione Pro-Loco Comune di Chiuro, 1982;
"Parla 'me ta mànget - detti, proverbi e curiosità della tradizione comasca, lecchese e valtellinese", edito da La Provincia, 2003;
Massimiliano Gianotti, "Proverbi dialettali di Valtellina e Valchiavenna", Sondrio, 2001;
Associazione Archivio della Memoria di Ponte in Valtellina, "La memoria della cura, la cura della memoria", Alpinia editrice, 2007;
Luisa Moraschinelli, "Come si viveva nei paesi di Valtellina negli anni '40 - l'Aprica", Alpinia editrice, 2000;
Aurelio Benetti, Dario Benetti, Angelo Dell'Oca, Diego Zoia, "Uomini delle Alpi - Contadini e pastori in Valtellina", Jaca Book, 1982;
Patrizio Del Nero, “Albaredo e la via di San Marco – Storia di una comunità alpina”, Editour, 2001;
Amleto Del Giorgio, "Samolaco ieri e oggi", Chiavenna, 1965;
Ines Busnarda Luzzi, "Case di sassi", II, L'officina del Libro, Sondrio, 1994;
aa.vv. “Mondo popolare in Lombardia – Sondrio e il suo territorio” (Silvana editoriale, 1995) Pierantonio Castellani, “Cento proverbi, detti e citazioni di Livigno” I Libri del Cervo, Sondrio, 1996 Pierantonio Castellani, “Cento nuovi proverbi, detti e citazioni di Livigno” I Libri del Cervo, Sondrio, 1999 Pierantonio Castellani, “Cento altri, detti e citazioni di Livigno” I Libri del Cervo, Sondrio, 2000
Cici Bonazzi, “Detti, proverbi, filastrocche, modi di dire in dialetto tiranese”, ed. Museo Etnografico Tiranese, Tirano, 2000
Luisa Moraschinelli, "Dizionario del dialetto di Aprica", IDEVV (Istituto di Dialettologia e di Etnografia Valtellinese e Valchiavennasca"), Sondrio, 2010
Tarcisio Della Ferrera, Leonardo Della Ferrera (a cura di), "Vocabolario dialettale di Chiuro e Castionetto", Comune di Chiuro ed IDEVV (Istituto di Dialettologia e di Etnografia Valtellinese e Valchiavennasca"), Sondrio, 2008 (cfr. anche www.dialettochiuro.org)
Giovanni Giorgetta, Stefano Ghiggi (con profilo del dialetto di Remo Bracchi), "Vocabolario del Dialetto di Villa di Chiavenna", IDEVV (Istituto di Dialettologia e di Etnografia Valtellinese e Valchiavennasca"), Sondrio, 2010
Luigi Berti, Elisa Branchi (con contributo di Remo Bracchi), "Dizionario tellino", IDEVV (Istituto di Dialettologia e di Etnografia Valtellinese e Valchiavennasca"), Sondrio, 2003
Pietro Ligari, “Ragionamenti d’agricoltura” (1752), Banca Popolare di Sondrio, Sondrio, 1988
Saveria Masa, “Libro dei miracoli della Madonna di Tirano”, edito a cura dell’Associazione Amici del Santuario della Beata Vergine di Tirano” (Società Storica Valtellinese, Sondrio, 2004)
Sergio Scuffi (a cura di), "Nü’n cuštümàva – Vocabolario dialettale di Samolaco", edito nel 2005 dall’Associazione Culturale Biblioteca di Samolaco e dall’Istituto di Dialettologia e di Etnografia Valtellinese e Valchiavennasca. Giacomo Maurizio, "La Val Bargaia", II parte, in "Clavenna" (Bollettino della Società Storica Valchiavennasca), 1970 Gabriele Antonioli e Remo Bracchi, "Dizionario etimologico grosino", Sondrio, 1995, edito a cura della Biblioteca Comunale di Grosio.
Silvana Foppoli Carnevali, Dario Cossi ed altri, “Lingua e cultura del comune di Sondalo” (edito a cura della Biblioteca Comunale di Sondalo)
Serafino Vaninetti, "Sacco - Storia e origini dei personaggi e loro vicissitudini degli usi e costumi nell'Evo", Edizioni Museo Vanseraf Mulino del Dosso, Valgerola, 2003
Sito www.fraciscio.it, dedicato a Fraciscio
Sito www.prolocodipedesina.it, dedicato a Pedesina
Massara, Giuseppe Filippo, "Prodromo della flora valtellinese", Sondrio, Della Cagnoletta, 1834 (ristampa anastatica Arnaldo Forni Editore)
Galli Valerio, Bruno, "Materiali per la fauna dei vertebrati valtellinesi", Sondrio, stab. tipografico "Quadrio", 1890

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