SANTI (clicca qui per aprire la pagina relativa a questo giorno dal sito www.santiebeati.it):
SS. Anna e Gioacchino, Camilla, Rosanna

PROVERBI

A sant'Anna l'acqua l'è mèi de la mànna (a sant'Anna l'acqua è meglio della manna - Montagna)
A sant'Anna l'acqua la ne vol tri inte la funtàna
(a sant'Anna l'acqua ne vuole tre nella fontana, nel senso che spesso la gente vi annega - Montagna)
De sant'Ana l'aqua l'è màna, de la Madòna l'e amò bòna, de San Bartulamée la pò basàm i pée (a sant'Anna l'acqua è manna, alla Madonna è ancora buona, a San Bartolomeo può baciarmi i piedi - Ardenno)
A sant’Ana l’aqua la ‘ngana (a sant'Anna l'acqua inganna - Ardenno)
Sant'Ana cun l'asperges (sant'Anna con l'aspersione – pioggia; Chiavenna)
A sant'Ana pinciaröo giù per la càna (a san'Anna gli acini d'uva giù per la canna – Tirano)
Se San Giàcom nò'l bègna, Sant'Ena nò la fàla
(se a san Giacomo non piove, a sant'Anna piove di sicuro - Sondalo)
Sant'Annä a tir de cannä e a san Ròch a tir de s-ciòp (a s. Anna la raccolta delle castagne è a tiro dí spingarda e a s. Rocco a tiro di schioppo - Villa di Chiavenna)
De Sant'Ana la mèlga l'ha fat la càna (a sant'Anna il granoturco ha fatto il fusto)
Vinticinch San Giàcum, vintisés Sant'Ana e vintisètt el dilüvi
(il venticinque è san Giacomo, il ventisei è sant'Anna ed il ventisette viene acqua abbondante)
A maglià da crepà, sa sta mal da murì (a mangiare da crepare si sta male da morire - Poschiavo)

VITA DI UNA VOLTA

Si celebra oggi la memoria di S. Anna, rappresentata con una verga.

Nel “Dizionario etimologico grosino”, di Gabriele Antonioli e Remo Bracchi (Sondrio, 1995, edito a cura della Biblioteca comunale di Grosio), leggiamo:
"Rava f. rapa (Beta vulgaris). Vengono abitualmente coltivate due varietà della bietola domestica: quella da costa e la rossa. La prima, varietà cycla, è più nota col nome di menegalt ed è consumata in prevalenza in minestre, nei pizzocheri o come verdura cotta. La seconda invece viene usata quasi esclusivamente per l'alimentazione del bestiame. Le rape vengono seminate tradizionalmente il giorno di s. Anna (26 luglio) e raccolte prima della fine di ottobre. Dice infatti il proverbio: per san Simón e Giùda strépa i ràvi da la cultùra, se te spécies fin ai Sant, ti streperàs piangènt, se te spécies fin a sant Martin, ti streperàs cul zapìn. In occasione della festa dei ss. Simone e Giuda (28 ottobre), strappa le rape dai campi, se aspetterai fino a Tuttisanti piangerai per strapparle e se poi aspetti fino a s. Martino, allora dovrai utilizzare l'arpione dei boscaioli, perché il terreno sarà gelato. / Le foglie delle rape venivano applicate, in passato, nella medicazione dei vescicanti. Il Cuntéir su la ràva e la fava, dilungarsi in chiacchiere."

Era viva, nel mondo contadino di un tempo, la convinzione che sul finire di luglio si dovesse, prima o poi, scatenare un violentissimo temporale, la "burrasca di sant'Anna".
A proposito di tempeste, era assai viva, un tempo, la redenza che queste venissero scatenate da potenze malvage (streghe, il demonio stesso), o fossero esse stesse viventi incarnazioni del male: per scongiurarle si ponevano ramoscelli d'ulivo fuori della finestra o, una volta scatenate, si cercava il capello della strega dentro il chicco di grandine, perché chi l'avesse trovato poteva placare la furia degli elementi.
Se potessimo tornare indietro nel tempo, quel che probabilmente sopporteremmo con maggior fatica sarebbe il cattivo odore che si annidava quasi ovunque, nei secoli scorsi, fra le dimore e le attività dell’uomo. I nasi antichi erano assai meno sensibili dei nostri ai luoghi maleodoranti; non così le intelligenze antiche, le quali attribuivano alla qualità dell’aria un’importanza decisiva per la salubrità dei luoghi. Nelle descrizioni antiche dei paesi il riferimento alla buona o cattiva aria era un elemento immancabile e qualificante (o squalificante). Di qui, forse, quell’antico modo di dire: tira una brutta aria… Si credeva, infatti, che l’aria ed i miasmi che potevano ammorbarla veicolassero le malattie più temibili, prima fra tutte la peste (mentre un’attenzione decisamente minore era riservata all’igiene ed alla pulizia).
L’aria non era, però, considerata solo come l’elemento essenziale perla salubrità dei luoghi: la si pensava anche come scenario, invisibile ma concretissimo, di una lotta più importante di quella fra salute e malattia, la lotta fra bene e male.
Come insegna, infatti, uno dei più autorevoli padri della Chiesa nei primi secoli dell’era volgare, Origene, l’aria è l’elemento nel quale si muovono gli spiriti, per l’affinità della loro natura con quest’elemento. L’aria, dunque, non ospita solo profumi o miasmi, ma, anche nella sua più tersa trasparenza, è popolata di creature spirituali, angeli e demoni. Proprio in essa, dunque, la paura trova il suo volto tanto più agghiacciante quanto più impalpabile ed indefinito nei contorni. Di qui le non molte ma davvero interessanti credenze e leggende sul tema delle potenze malefiche di natura aerea.

La più famosa, forse, si condensa intorno ad una nome dal forte potere di evocazione orrorifica, la vermenaja, di cui parlano Giuseppina Lombardini nella raccolta “Leggende e tradizioni valtellinesi” (Tip. Mevio Washington, Sondrio, 1925, pg. 6), Lina Rini-Lombardini, nel volume “In Valtellina – Colori di leggende e tradizioni” (Ramponi, Arti Grafiche, Sondrio, 1961, pg. 51) ed Aurelio Garobbio, in “Montagne e valli incantate” (Cappelli, Rocca San Casciano, 1963, pg. 146).
Ne parla anche Aurelio Garobbio, uno dei maggiori studiosi dell’universo immaginario dell’arco alpino, il quale, nella bella raccolta “Montagne e Valli incantate”, (Rocca San Casciano, Cappelli, 1963, pg. 146), scrive: “Nelle notti di poca luna si ode scalpitar di cavalli e battagliare di armati, mentre fiammelle appaiono e scompaiono e seguono i viandanti. Subentra poderosa ed agghiacciante la Vermenaia, musica fragorosa e terrificante che scende dal cielo e sale dalla terra ed è sopra di voi e dentro di voi.
Notizie di questo terrificante essere aereo si trovano, poi, nel Dizionario Tellino di Elisa Branchi e Luigi Berti, edito nel 2002 a cura della Biblioteca Comunale di Teglio. La vermenàia, interpretata da alcuni come strega, era, in realtà, un misterioso e terrificante fenomeno che privo di volto. Si trattava di una ridda di suoni diversi, ma tutti agghiaccianti, che squarciavano il silenzio della notte, specialmente sugli alpeggi: latrare furioso di cani, pianto lamentoso di bambini, rumore sinistro di catene trascinate, fragore di massi che rotolano lungo un pendio. Questi fenomeni si ripetevano a diverse ore della notte, fino alle sei di mattina, quando i rintocchi dell’Ave Maria riportavano il più profondo silenzio. Qualche volta questi rumori sembravano avere corpo, come se si trattasse di una qualche entità che si muoveva nel boschi e nei prati. In particolare, i contadini che d’estate salivano in Val Belviso (territorio del comune di Teglio) per tagliare il fieno, quando udivano un sinistro rumore di catene avvicinarsi si gettavano a terra e, se riuscivano, si coprivano anche di terra. Avvertivano qualcosa passare vicino a loro, ad un’altezza di circa 35 centimetri, e poi allontanarsi; i più coraggiosi osavano anche guardare, ma non vedevano nulla.
Un rimedio abbastanza sicuro per difendersi dai rumori paurosi erano i campanacci (sampògn), che venivano suonati al primo accenno di fenomeni sospetti (rumori, appunto, ma anche bagliori simili a palle di fuoco). Il loro suono faceva cessare queste misteriose manifestazioni del male. Si ricorreva, però, ovviamente, anche alle preghiere, all’Ave Maria ed all’Angelus: così facevano i contadini che salivano, a dorso di mulo, in agosto a Prato Valentino per la fienagione. Quanto alle spiegazioni dei fenomeni, erano molteplici: alcuni le attribuivano ai “cunfinàt”, anime condannate ad aggirarsi in alcuni luoghi spaventando chi vi passasse, oppure alle “paüre”, fantasmi e spiritelli che, per desiderio maligno o semplice desiderio di divertimento, spaventavano la gente dopo il tramonto. L’origine del termine riporta, forse, all’immagine del brulicare di anime senza pace, di persone morte di morte violenta (i malamòrt, come si chiamano a Grosso), di stregoni o di altre persone che si sono macchiate in vita di qualche grave colpa.


Se la vermenaja non era una strega, streghe erano le responsabili, secondo le credenze popolari dei secoli passati, delle più violente e devastanti tempeste. Infatti queste ricevevano dal demonio parte del suo potere di controllare gli elementi, e dunque potevano, con i loro rituali (per esempio disegnando cerchi in uno specchio d’acqua o condensando chicchi di grandine intorno ai loro capelli), scatenare nubifragi e violentissimi temporali. Una leggenda, fra le tante, quella della “strìa de la scàla”, in Val di Rezzalo, è centrata su questa credenza. L’alpeggio della Scala, sopra Frontale, aveva fama sinistra per via di una cupa storia di streghe. Si racconta che un giorno una bambina, che se ne in un prato con il padre intento a falciarlo, gli disse, forse per noia, forse per desiderio di suscitare la sua ammirazione: “Vuoi vedere che so far piovere?” Il padre dapprima la prese sul ridere, poi, vista la sua insistenza, la seguì alla vicina fontana, dove quella tracciò con il dito alcuni cerchi nell’acqua. Era una di quelle giornate in cui non si vede in cielo una nuvola, ma all’improvviso il cielo si rabbuiò, densi nuvolosi venuti fuori da chissà dove si addensarono in tutta la valle e scoppiò un violentissimo temporale. Il padre trascinò via la figlia nella loro baita, e le chiese, esterrefatto: “Ma chi ti ha insegnato questo?” La bimba, tutta orgogliosa, rispose: “La mamma”. Il contadino comprese allora di aver sposato una strega, ed averne generato un’altra. Aspettò che tornasse il sole e che la campagna si asciugasse, poi, con un pretesto, portò nei prati moglie e figlia, le legò entrambe, le avvolse in un covone e diede loro fuoco. Una leggenda agghiacciante.
Remo Bracchi, nel profilo del dialetto dell’Aprica (in “Inventario dei toponimi del comune di Aprica”, edito nel 2009 dalla Società Storica Valtellinese), scrive: “La locuzione dòna dal giöch si trova in continuità con una corrispondente, che interessa anche il crinale che scende verso l'Oglio. Designa la "strega che gira di notte", ma propriamente si dovrebbe tradurre "signora del gioco", ossia quella che conduce le danze. Rimane probabilmente come memoria di un'antichissima divinità femminile, dominatrice degli elementi e padrona degli spazi celesti e delle foreste, demonizzata col sopravvento del cristianesimo e trasformata nella figura denominata la badessa delle streghe, quando si riunivano per scatenare i loro sabba.” La locuzione rimanda, forse, non solo alla funzione della strega di condurre le danze nel sabba, ma anche al suo potere di condurre, per così dire, la ridda degli elementi scatenati nelle tempeste.
I contadini erano convinti che per far cessare le grandinate, oltre alle immancabili invocazioni a Sant’Anna (utili soprattutto a preservare dai fulmini) fosse necessario trovare nei chicchi di grandine il capello o pelo della strega: se ci si riusciva, la buriana cessava come d’incanto. Curiosa l’espressione usata in passato a Tirano per designare la compresenza di pioggia e sole: è il “téemp de li strìi”, tempo delle streghe, perché si credeva che la lotta del brutto tempo contro il bello fosse appunto scatenata dal loro potere.
Riportiamo quanto scrive, nel bel volume "Storia di Tartano (Montagna in valtellina, 1985), Camillo Gusmeroli: "La superstizione nelle nostre montagne era ancora viva nel nostro secolo specie nei momenti di tensione e di calamità. Sugli alpeggi e nei maggenghi, durante le violenti grandinate e temporali, a getto continuo, i giovani usavano ancora gettare sotto l'infuriare delle intemperie, la catena del fuoco o due ranze (falci) incorciate o tre chicchi di grandine nel fuoco per scongiurare le streghe o gli stregoni."
Anche i draghi erano coinvolti, in qualche modo, nel cattivo tempo; scrive sempre Remo Bracchi, in un articolo sul sito www.altavaltellinacultura.com: “A Grosio con il termine grif si qualifica il ‘tempo nuvoloso e freddo’, e da questo è estratto il verbo ingrifàs ‘peggiorare delle condizioni atmosferiche’.
L’evocazione del drago volante nei fenomeni atmosferici, per chi è sensibilizzato al linguaggio immaginoso, creato da visioni del mondo proiettate su altri sfondi, si coglie probabilmente in modo ancora più esplicito nel verbo di Olmo drac(h)ià ‘nevicare’, che si riverbera forse anche nel sondalino drag(h)iàda ‘tempesta, acquazzone con grossi goccioloni’ (con la sovrapposizione della suggestiva immagine del drac’ il ‘crivello’ con il quale la divinità del cielo fa cadere dall’alto chicchi di grandine e falde di neve come da un immenso vanno). Nelle contermini fasce geografiche ticinese e bergamasca l’appellativo di dragone compare come nome dei torrenti che mugghiano dai loro profondi inghiottitoi, vomitando verso l’alto le loro schiume rabbiose.
” Ma le streghe erano potenze di terra, anche se solcavano l’aria a cavalcioni di scope e ne scatenavano gli elementi: dalla terra, infatti, traevano il loro potere (durante i processi venivano sospese a mezz’aria anche per evitare che dalla terra il demonio potesse soccorrerle); anche i draghi solcavano l’aria, ma in essa non vivevano e non erano di per sé necessariamente potenze malefiche.

Le vere potenze malefiche dell’aria, quelle che di aria si sostanziano e di aria sono fatte, sono tanto più interessanti quanto meno note. Ad esse ci riporta, nel medesimo articolo, l’illustre studioso e dialettologo: “Negli antichi dialetti dell’Alta Valtellina il vento che sibila nella notte, attorcendosi tra i vicoli delle case e trascinando via nelle proprie spire tutto ciò che gli si oppone, era chiamato senzasànch, senza sangue, come i serpenti, a motivo della loro bassa temperatura corporea.
A Campodolcino la Cativòra è ‘la personificazione del fenomeno di rinfrescamento dell’aria all’imbrunire’ e ancora oggi viene vissuta nella fantasia dei bambini come una specie di strega, che esce dalle sue grotte quando la notte precipita. Nella Svizzera italiana, a Mesocco, trova il proprio puntuale riscontro nella Cativòra, raffigurata nelle sembianze di un ‘essere terrificante evocato come spauracchio ai bambini e ai giovani per farli rincasare presto la sera’, una ‘specie di strega’ onnipresente come l’ombra dilagata a riempire ogni anfratto.”
Cativòra e Senzasanch probabilmente superano, in potere orrorifico, ogni altra potenza malefica, proprio per la loro onnipervasività (cosa può fermare il cammino dell’aria?) ed incombente presenza. La paura più agghiacciante, infatti, è quella che non prende forma, che non assume un volto definito: quando possiamo vedere i tratti di ciò che ci terrorizza, il terrore ha già superato il suo apice.
Nella medesima valle di San Giacomo era viva la credenza degli spiriti chiamati Obolie che prendevano possesso delle baite sugli alpeggi quando queste venivano abbandonate dai contadini. Questi, quando tornavano con gli armenti, nel mese di giugno, dovevano, quindi, cacciarli via. Si scatenavano, allora, tempeste violente, con venti impetuosi e sferzanti, ed i contadini dicevano che erano le Obolie che risalivano i versanti più alti dei monti, esprimendo così tutta la loro rabbia (cfr. la bella raccolta “C'era un volta, Vecchie storie e leggende di Valtellina e Valchiavenna”, ed. a cura del Comune di Prata Camportaccio, Sondrio, Bonazzi Grafica, dicembre 1994, con contributi di diverse scuole elementari e medie della Provincia di Sondrio).

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STORIA

Il 26 luglio del 1618 passò per il passo del Muretto l'arciprete di Sondrio, Nicolò Rusca. Non per una gita di piacere, anzi. Ma prendiamola molto alla larga, raccontando storie e legegnde del passo del Muretto, una delle più importanti vie di comunicazione fra valle dell'Adda e territorio delle Tre Leghe Grigie.

Il passo del Muretto (pas de mürét, l'antico monte dell'Oro) mette in comunicazione le due omonime valli, sul versante italiano e svizzero, congiungendo l’alta Valmalenco (val del màler) con l’Engadina. Per la sua quota relativamente modesta (m. 2562) rappresenta il più agevole valico fra i due versanti delle alpi Retiche, e, come tale, fu ampiamente sfruttato, nella storia, per i passaggi commerciali e militari. I primi erano alimentati soprattutto dalle esportazioni di vino valtellinese verso le regioni di lingua germanica. A riprova di ciò, si può ricordare una curiosa consuetudine: il municipio di Sondrio assegnava, nei secoli passati, un premio al primo mercante che avesse valicato, dopo i rigori dell’inverno, il passo con un mulo carico di vino. L’itinerario per l’Engadina era denominato “viaggio della montagna dell’Oro”, dal momento che il tratto che risale la valle del Muretto in territorio italiano si snoda ai piedi del versante sud-occidentale dell’imponente monte dell’Oro (m. 3154), posto sulla dorsale che, con andamento da sud-est a nord-ovest, scende fino al monte Muretto, che sorveglia il passo (m. 3104).
Ci offre un’ampia presentazione storica di questo importante passo Cristina Pedana, nello studio “Sentieri e strade storiche in Valtellina e nei Grigioni – Dalla preistoria all’epoca austro-ungarica” (Ottobre 2004, dal sito www.castellomasegra.org/):
La strada del passo del Muretto… costituiva la direttrice più breve sulla linea Venezia, Septimer e Coira. Frequentata verosimilmente in epoca preistorica, lo fu con una certa sicurezza anche nel periodo romano, come proverebbe il ritrovamento di monete di quel periodo proprio nei pressi del passo.
Ma è nel Medioevo che l'utilizzo di questa via, soprattutto per traffici commerciali a carattere locale, divenne regolare e continuo, prolungandosi poi nei secoli successivi.L'itinerario che aveva inizio a Sondrio, nel periodo più antico saliva dalla vecchia strada della Valmalenco fino a Mossini (forse l'antica Rovoledo, poi distrutta da una enorme frana) e proseguiva fino a Cagnoletti e a Torre.
Solo durante il Medioevo fu costruita la cosiddetta "cavallera" che da Sondrio attraverso la salita Ligari o la via Scarpatetti raggiungeva il castello Masegra, quindi il Moncucco, i piccoli centri di Pozzoni e di Scherini, Arquino, dopo aver attraversato il ponte sull'Antognasco, Caparé, Menesatti, Cucchi, e, dopo il passaggio sul ponte nuovo sul torrente Mallero, raggiungeva Torre.
Da lì, restando accanto al corso d'acqua, arrivava a Chiesa, quindi oltrepassava la località Giovello, San Giuseppe, Carotte e Chiareggio (o Cereccio come si trova in alcuni antichi documenti). Dopo aver attraversato il piano del Lupo, così detto dal termine lop che indica i residui di miniera, la strada saliva senza tornanti, direttamente all'Alpe Oro, quindi superava uno sperone di roccia, un lungo pendio ghiaioso e infine la bala del Muret, l'ultimo ripido pendio prima della discesa sul versante elvetico dove il tracciato antico è scomparso.Comunque la via, dopo aver superato il Plan Canin dove ha inizio la valle del Forno, scendeva al lago di Cavlocio e raggiungeva il passo del Maloia…
Il passo del Muretto era largamente praticato, come pure il passo di Tremoggia, anche grazie alle condizioni climatiche, un tempo decisamente più favorevoli di quelle di oggi. Per impedire il transito di eserciti nemici, non appena i Capitanei riuscirono a imporre il loro potere sulla media Valtellina, furono costruite fortificazioni, a destra e a sinistra del Mallero a difesa della valle e, quindi, di Sondrio… Attraverso questa linea diretta, a vista, in pochissimo tempo era possibile inviare informazioni dai 2572 metri del Muretto a Sondrio e anticipare di molto le invasioni di nemici che avanzavano lungo le faticose vie di terra.”
Si tratta, dunque, di un passo denso di storia. L’episodio più famoso riguarda il rapimento dell’arciprete di Sondrio Nicolò Rusca. Siamo agli inizi del Seicento, la Valtellina è soggetta al dominio dei Grigioni, di religione protestante. Costoro si adoperano diffondervi la fede riformata, suscitando resistenze ed opposizione fra il clero ed i fedeli cattolici. Uno dei più fieri oppositori di questo disegno è proprio Nicolò Rusca, figura che si presta ad una diversa lettura: da una parte alcuni ricordano che, per la determinazione del suo impegno a difesa del Cattolicesimo, fu denominato “martello degli eretici”, dall’altra si ricorda, a riprova del suo atteggiamento di comprensione umana, l’affermazione “Odiate l’errore, amate gli erranti”. Una figura comunque scomoda.
Ecco che, dunque, viene deciso una sorta di blitz che lo conduca, a viva forza, in territorio elvetico, perché subisca un processo. Esecutore del blitz è una schiera di sessanta armati, scesi in Valmalenco proprio dal passo del Muretto, che lo sorprendono, nella notte fra il 24 ed il 25 luglio 1618, nella sua camera da letto. Gli viene concesso solo di vestire il suo abito talare, poi viene legato, a testa in giù, sotto il ventre di un mulo (o, secondo altra versione, di un cavallo), ed il drappello muove sulla via del ritorno, seguendo l’itinerario che passa per Moncucco e Ponchiera. Proprio mentre passavano di qui, sul far del giorno, le cronache narrano di un episodio curioso.
La schiera di armati incrocia il parroco di Lanzada, che scende verso Sondrio travestito da “Magnàn” (calderaio), per timore di essere catturato dalle milizie dei Grigioni (la loro discesa lungo la Valmalenco non è passata inosservata, e lui era uno dei ricercati: riuscirà, poi, a mettersi in salvo nella bergamasca).
Era stato, infatti, avvertito da un eretico del progetto dei protestanti di rapire anche lui (si narra che costui, combattuto fra il desiderio di salvare il prete, che stimava, e la promessa fatta ai correligionari di non rivelare nulla della congiura, si sia cavato d’impaccio con la coscienza recandosi da lui, picchiando con un bastone sopra la pietra del focolare e pronunciando queste parole: “Io dico a te, o pietra, che i Grigioni sono per condor via l’Arciprete di Sondrio e domani mattina, se non fuggirà in tempo, verranno a prendere anche il parroco di Lanzada”). Egli non difettava certo di prontezza di spirito e, alla domanda se avesse visto il parroco di Lanzada, la sua risposta fu pronta: “Sì, questa mattina ha già detto Messa”. Il Cilichini ebbe salva la vita, lasciando la Valtellina per il crinale orobico e rifugiandosi a Milano, dove si presentò al celebre Cardinal Federico Borromeo “con preghiere, con singulti e con lagrime… l’afflitta religione raccomandandogli e del suo favore appresso al governatore supplicandolo” (Carlo Botta, “Storia d’Italia…”, 1835). Sorte ben diversa attende il Rusca, costretto a proseguire il suo triste viaggio.
La marcia serrata dei soldati prosegue: la mulattiera porta da Ponchiera ad Arquino, poi a Ca’ Ceschina, Prato e Torre. Avanti ancora, fino a Chiesa ed a Primolo (prémul), dove la mulattiera, qui ancora visibile, taglia il fianco orientale del monte Braccia, scende a valicare il Mallero (màler) su un ponte e risale a San Giuseppe. Segue il tratto San Giuseppe-Primolo, di cui restano poche tracce, che passa per le località Sabbionaccio e Carotte. L’ultimo tratto, in territorio italiano, è quello che è passa per il Pian del Lupo (cattiva trasposizione in italiano di cià lla lòp, o ciàn de la lòp, vale a dire il piano della loppa, o lolla, materiale di scarto derivato dalla cottura del ferro: niente a che fare con i lupi, dunque!) e risale la valle del Muretto. Qui il tracciato è ancora ben visibile, anche per i rimaneggiamenti successivi, apportati a fini militari.
Lasciata alla propria destra l’alpe dell’Oro (m. 2010), la salita al passo avviene percorrendo una valle brulla, un po’ triste, che tuttavia regala ottimi scorci su alcune importanti cime: innanzitutto sui pizzi Rachele (m. 2988) e Cassandra (m. 3226) e sull’aspra ed impressionante parete nord del monte Disgrazia (m. 3678) a sud; poi sulle cime di Rosso (m. 3386), di Vazzeda (m. 3301) e di Val Bona (m. 3033) a sud-ovest; ancora, sull’elegante monte del Forno (fùren, o fórn, m. 3214), ad ovest. Ad est, invece, incombe il poderoso fronte della dorsale monte Oro-monte Muretto, un fronte segnato anche da diversi movimenti franosi.
Narrano i pastori, che ne frequentano malvolentieri le pendici erbose, di tre confinati, cioè anime condannate da Dio a vagare senza pace nei luoghi più remoti, che talora scagliano, nella loro rabbia cieca ed impotente, massi su uomini e bestie: per evitarli ci si deve fare il segno della croce. Ma torniamo dalla leggenda alla storia.
Il Rusca, anch’egli impotente, ma, possiamo immaginare, posseduto da sentimenti di pena e tristezza più che di rabbia, vede per l’ultima volta, il 26 luglio del 1618, i monti di Valtellina: valicato il passo, infatti, la schiera di armati scende nella chiusa ed ombrosa valle del Muretto svizzera, che confluisce nella più ampia valle del Forno, e da qui raggiunge l’alta Engadina, sulle rive dell’ampio Lei da Segl (m. 1797). L’illustre prigioniero, spossato per le fatiche del viaggio compiuto in condizioni penose, non può certo godersi le bellezze dell’ampia valle svizzera: viene condotto a Coira e lì rinchiuso nella soffitta di un’osteria, dove rimane per quasi un mese. Poi, ai primi di settembre, la destinazione finale, Thusis, dove viene incriminato presso lo Strafgericht, il temutissimo tribunale speciale che si occupava di processare i cattolici. Non sopravvive alle feroci torture (comuni, peraltro, nella pratica giudiziaria di quei tempi), e muore il 4 settembre del 1618. Scrive lo storico Cesare Cantù: "Il ben vissuto vecchio, benché fosse disfatto di forze e di carne e patisse d'un ernia e di due fonticoli, fu messo alla tortura due volte, e con tanta atrocità che nel calarlo fu trovato morto. I furibondi, tra i dileggi plebei, fecero trascinare a coda di cavallo l'onorato cadavere, e seppellirlo sotto le forche, mentre egli dal luogo ove si eterna la mercede ai servi buoni e fedeli, pregava perdono ai nemici, pietà per i suoi."
Alla notizia della sua morte l’impressione, in Valtellina, è enorme: si diffonde la convinzione che i Grigioni meditino di introdurre con la forza la fede riformata nella valle, e nei due anni successivi la tensione cresce, finché scoppia, il 19 luglio del 1620, a Tirano, quel terribile moto tristemente noto come “Sacro macello Valtellinese”, una vera e propria strage di riformati in tutta la valle. La reazione dei Grigioni non si fa attendere, e proprio per il passo del Muretto scende, il primo agosto di quel medesimo 1620, un corpo di mille soldati agli ordini del capitano Guller, che ha l’ordine di prendere Sondrio, metterla a ferro e fuoco e congiungersi con gli altri corpi di spedizione che sarebbero dovuti scendere dall’alta Valtellina. L’impresa non riesce, e l’11 settembre del 1620 le truppe Grigionesi, Zurighesi e Bernesi sono sconfitte dalle truppe Valtellinesi nella battaglia di Tirano.
A questa battaglia, è interessante ricordarlo, è legata una leggenda secondo la quale la statua di bronzo dell’arcangelo Michele, in cima alla cupola del santuario della Madonna di Tirano, si sarebbe rivolta in direzione del campo di battaglia; non solo, ma la spada impugnata dall’arcangelo si sarebbe più volte mossa, fendendo, minacciosa, l’aria, a simboleggiare l’intervento divino in soccorso delle armi cattoliche. La battaglia di Tirano è, però, solo l’inizio, per la Valtellina, di un tristissimo periodo di campagne militari e battaglie fra i due opposti fronti, cioè Grigioni e Francesi, da una parte, Imperiali e Spagnoli, dall’altra, nel contesto della guerra dei Trent’anni. Questa la storia, uno scorcio di storia del passo valicato da mercanti ed armati.

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Esiste, però, anche una nota leggenda (riportata nell'articolo di Giuseppe Novellino "Il viaggio", nel Corriere della Valtellina del 17 gennaio 1976), anch’essa di tono decisamente mesto, che ha come cornice la via che, attraverso il passo, conduce in Engadina. La percorse, un giorno, il diacono Francesco, che tornava da Sondrio a St. Moritz. Mentre camminava, solitario e meditabondo, risalendo la valle fra Sondrio e Chiareggio, vide davanti a lui, ad una certa distanza, un uomo alto, magro, vestito umilmente, di un nero mantello, che pareva un pellegrino. Non riuscì bene a scorgerne il volto, ma ebbe l’impressione di una figura emaciata, triste, quasi segnata da un destino di solitudine, come se fosse sempre stata allontanata e rifuggita, per paura ed avversione, da tutti gli uomini. Impressioni, nulla più.
Nel desiderio di avere una compagnia lungo il viaggio, il diacono lo chiamò, una prima volta, ma questi proseguì, senza voltarsi. Chiamò di nuovo, con voce più forte, convinto che non avesse sentito. Ma questi continuò, con passo fermo, nel suo cammino. Un passo fermo, regolare, veloce, troppo veloce, si sarebbe detto, o forse semplicemente regolare ed inesorabile, come il trascorrere degli istanti di cui si intesse il tempo. Provò ancora, una terza volta, stupito della mancata risposta: anche questa volta la sua voce si perse, senza esito, nel malinconico silenzio della valle. Allora si fermò, per qualche istante, stupefatto, chiedendosi se non si trattasse di un pellegrino duro d’orecchie, o forse anche sordo. Bastò quella breve sosta perché la figura del misterioso viandante scomparisse ai suoi occhi.
Il diacono dovette, quindi, compiere il suo viaggio da solo. Giunto, il giorno successivo, a St. Moritz, incontrò per primo un vecchio, che se ne stava seduto all’ingresso del paese ed aveva disegnata sul volto un’espressione triste. Ne chiese il motivo, e la risposta del vecchio fu laconica: era morto un ragazzo, un ragazzo molto giovane, non aveva che dodici anni. La morte è sempre un evento straziante, ma quando colpisce i più giovani suscita uno strazio che sembra non poter essere sanato: così pensò il diacono Francesco, riprendendo il cammino. E, quasi per associazione di idee, gli venne tornò in mente il misterioso viandante che aveva intravisto il giorno prima. Si volto e chiese, quindi, di nuovo al vecchio se avesse visto giungere in paese, prima di lui, un pellegrino avvolto in un mantello nero. Il vecchio rispose che se ne stava lì dall’inizio del giorno, ma di pellegrini avvolti in un mantello nero non ne aveva visti passare.
Il diacono si stupì molto di questa risposta. Poi, di colpo, comprese: nel suo cammino aveva incontrato, per un breve tratto, la morte.

L'alone di leggenda legato al passo non si limita, però, a questa leggenda. Si narra, infatti, che il fianco destro (per chi sale, cioè nord-orientale) della valle, occupato dall'impressionante versante montuoso che scende dalla dorsale monte dell'Oro (m. 3154, a sud-est) - monte Muretto (m. 3104, a nord-ovest), è luogo di espiazione eterna per tre confinati. Questi "cunfinàa" si muovono, senza pace, fra massi e gande, scagliandoli, spesso, sui malcapitati pastori o viandanti (alp de l'òor, nel 1544 alpis de loro: chiamata così per la leggendaria presenza di oro nel vicino Monte dlel'Oro, o forse anche dalla radice "ör", che significa "bordo, ciglio su salto o dirupo") conduce al passo. Il rimedio contro questa minaccia, però, è semplice e sicuro: basta farsi il segno di croce, per mettere in fuga le tre anime in pena.
L'oro, infine, da sempre simbolo fascinoso di potere ed immortalità, l'oro cui è legato il nome stesso di questi luoghi. Il Romegialli scrive ne "Storia della Valtellina e delle già contee di Bormio e Chiavenna" (Sondrio, 1834): "Vi è la pirite marziale con molto oro in Valle Malenco"; effettivamente in valle del Muretto, al monte dell'Oro ed ai laghetti di Chiesa (Valmalenco), secondo quanto riferisce Ercole Bassi, l'oro, almeno nell'ottocento, veniva estratto. Ercole Bassi riporta il racconto popolare che parla di un tale svizzero, il quale, nella seconda metà dell'ottocento, venne per tre o quattro estati a fare scavi in un luogo molto elevato e quasi sempre coperto da neve del monte dell'Oro, valicando, al ritorno, il passo del Muretto carico d'oro. Quando la cosa si riseppe, vi fu una piccola caccia all'oro, ma nessuno altro riuscì mai a trovare tracce del prezioso metallo. Venne bensì trovato un buco, ad una quota superiore ai 2400 metri, ma, appunto, senza traccia dell'oro favoleggiato.

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APPENDICE STORICA

Tarcisio Salice, in un articolo sul castello di Malenco pubblicato sul Bollettino della Società Storica Valtellinese del 1979, così inquadra il rilievo storico del passo del Muretto:
“Nell'alto Medioevo la «via» della Valmalenco o del Muretto — inteso questo termine nel senso voluto da Cassiodoro — servì soprattutto per trasportare al piano i minerali e il legname, di cui la zona era particolarmente ricca; nel secolo XI, però, essa riprese importanza anche come naturale prolungamento verso i paesi transalpini delle mulattiere che dalla Bergamasca conducono alla media Valtellina attraverso la Valmadre e la convalle di S. Salvatore. Ne è prova la chiesa di S. Giacomo, menzionata per la prima volta nel Liber censuum della Chiesa romana, compilato nel 1192 dal cardinale Cenzio Savelli, poi papa Onorio III. Significativo è pure il fatto che tra i diritti feudali della famiglia De Capitani di Sondrio ci sia stato anche il pedaggio sul traghetto di Albosaggia.
Quella chiesa, sorta quando più frequenti divennero i pellegrinaggi dalle regioni germaniche al santuario di S. Giacomo di Compostella, sta ad indicare che all'interno dell'ansa del Mallero — e quindi ben protetto —andava già sviluppandosi quello che diverrà il paese principale della valle, anzi il suo capoluogo amministrativo e religioso. Alla fine del '200 la chiesa dei santi Giacomo e Filippo di Malenco appare già provvista di un proprio clero beneficiato e precisamente di un prete di nome Cressio Della Pergola e di un chierico (Ruggero Capitani) che era anche canonico di Sondrio. Nel 1343 la contrada di Chiesa mandava già quattro rappresentanti al consiglio generale del comune di Sondrio, come Ponchiera.
Il Duby ritiene che in casi consimili siano stati gli stessi signori feudali a decidere di organizzare il popolamento delle valli alpine, mossi molte volte da considerazioni politiche. «Si trattava — egli scrive — di rafforzare la sicurezza di una strada popolando le foreste che attraversava, oppure di consolidare la frontiera [del loro dominio] insediando nelle marche boscose e deserte che finora gli avevano formato intorno un largo spalto protettivo, forti comunità contadine costrette al servizio militare».
Che tale possa essere stato anche il caso della Valmalenco lo indica, a mio parere, il termine anziano, col quale veniva designato il capo amministrativo di quella quadra. Nei documenti chiavennaschi della seconda metà del '200 il titolo di anziano viene dato normalmente al vicino preposto a un drappello di soldati per distinguerlo dal nobile, al quale spettava quello di capitano. E' possibile, quindi, che il responsabile amministrativo della comunità di Malenco abbia avuto, almeno in origine, anche
compiti militari connessi col castello. Il periodo che va dall'XI al XIII secolo si distingue appunto per un notevole incremento demografico con conseguente espansione delle antiche zone agricole, per lo sfruttamento dei grandi erbai degli alpeggi e per l'intensificarsi del commercio di prodotti dell'allevamento, della lana, delle pelli e del legname da costruzione.

L'importanza militare del passo del Muretto aumentò specialmente durante l'interminabile contesa tra le due fazioni dei Rusca (ghibellini) e dei Vittani (guelfi) per la signoria di Como. Passarono sicuramente per quel passo i tre uomini che, fuggiti dalla Valtellina nel 1289 chi per Malenchum e chi per vallem Malenchi, furono catturati dai chiavennaschi e condotti a Como. Fu attraverso quel passo che nel 1326 i guelfi sondraschi fecero «una grande andata in servizio del signor Giorgio di Vicosoprano» e nell'anno successivo Egidio De Capitani, zio di Tebaldo, «mandò in soccorso del vescovo di Coira cinquanta uomini».
Sotto gli Sforza la via del Muretto fu considerata così importante per la difesa militare della Valtellina da essere compresa nel piano di revisione generale della viabilità valligiana voluto da Ludovico il Moro. Attraverso il Muretto i devoti di S. Gaudenzio martire pellegrinavano fino a Casaccia. in Valbregaglia, a venerarne le reliquie, mentre i De Vizzola e i Beccaria, loro successori nel capitaneato delle pievi di Sondrio e di Berbenno, allacciavano nodi matrimoniali coi Marmorera e i Castelmuro. Eppure, a detta del Lavizzari che cita in proposito il cronista Stefano, a Merlo, il passo del Muretto — o della Montagna dell'Oro, com'era anche chiamato — era transitabile soltanto in alcuni mesi estivi; solo eccezionalmente, nel 1540, era rimasto aperto tutto l'anno perché «dalle Calende di ottobre del 1539 non [era] caduta neve od acqua alcuna sino al 15 aprile dell'anno seguente»”

Ecco, infine, quanto scrive Nemo Canetta in un articolo del medesimo Bollettino della Società Storica Valtellinese, nel numero del 1978:
“Però non furono certamente solo considerazioni geografiche a far scegliere il passo del Muretto come via di comunicazione principale tra la media Valtellina ed il Nord, certo notevole peso ebbe il fatto che ai due capi delle valli che adducono al passo, vi siano Sondrio, capitale della Valtellina, e il passo della Maloggia. Il tragitto risulta particolamente breve e, a quanto ci consta, nel 1500 le carovane, che portavano nei Grigioni vino e «piode» di Valmalenco, impiegavano solo un giorno e mezzo dalla metropoli valtellinese al passo della Maloggia, con evidente risparmio di tempo rispetto ai lunghi giri sugli itinerari principali, inoltre l'itinerario attraversava la Valmalenco che, con i suoi oltre trecento kmq e le sue grandi ricchezze in boschi, pascoli e minerali, costituiva e costituisce tuttora una delle principali convalli della Valtellina, tanto che in essa sono compresi ben cinque comuni (Spriana, Torre Santa Maria, Chiesa, Caspoggio e Lanzada) oltre a larghi tratti del comune di Sondrio e Montagna. Pertanto la strada del Muretto non attraversava sterili lande ma territori relativamente ricchi e che anzi potevano concorrere ai commerci, ad esempio con le già citate «piode». A questo punto riteniamo che non vi sia bisogno di aggiungere altro sull'importanza di questo valico. ... Già parlando in generale del passo del Muretto è stata citata la strada che ad esso adduceva, sarà però opportuno chiarire che non si trattava di un solo itinerario ma di una serie di mulattiere che percorrevano i due fianchi della valle, almeno nella sua parte medio-inferiore. L'itinerario più antico, secondo alcuni avrebbe addirittura origine pre-romana, partiva dall'attuale abitato di Mossini passava per il borgo di Gualtieri e da qui si alzava a Cagnoletti e dopo un tratto a mezza costa portava a Bondoledo (Ca' Bianchi) ed al Castello di Torre, al di là del quale il percorso si confondeva in gran parte con le strade moderne fino a Chiesa. Qui con ogni probabilità l'itinerario si divideva in due: uno superiore che passando da Sasso portava a Primolo e da qui a S. Giuseppe e uno inferiore, forse più importante, che transitando dall'attuale centro di Chiesa conduceva al ponte di Curlo ed al Castello di Malenco e per la stretta del Giovello anch'esso a S. Giuseppe. Di qui la strada proseguiva con un tracciato più basso dell'attuale sino a Chiareggio e al passo. Verso la fine del Medio Evo la parte inferiore di questo itinerario doveva essere, almeno parzialmente, caduta in disuso con la costruzione del ponte di Arquino e la successiva stradetta che porta sotto Cagnoletti, prosegue poi per Tornadù ricongiungendosi con la precedente all'altezza di Torre.
Questo itinerario rimase il principale sino all'epoca della dominazione austriaca quando, sotto Bedoglio, venne costruito il ponte della Luisa; fu questa la prima vera strada carreggiabile della valle, tuttavia sia il ponte di Arquino che le tracce successive di strada sotto Cagnoletti dimostrano che questo itinerario già aveva la possibilità di essere percorso, almeno in parte, da qualche leggero traino locale. E' probabile che più o meno nello stesso periodo prendesse forma anche un altro itinerario, totalmente alternativo ed ancor oggi in gran parte percorribile se non fosse per la frana di Bedoglio. Sempre dal ponte di Arquino, ma tenendosi sul lato sinistro orografico della valle, una bella mulattiera si alza a Cucchi e da qui a Bedoglio, per Spriana e Marveggia ci si porta poi a Zarri e da qui a Cristini e a Milirolo. Da Milirolo il tracciato si confonde in gran parte con l'attuale strada provinciale, ma allora portava senza dubbio al Castello di Caspoggio e da qui all'omonimo borgo. Passando poi per Lanzada, Vassalini ed il Curlo ci si ricollegava alla strada principale…
Da quanto prima esposto risulta evidente che in un paio di giorni di marcia un esercito invasore poteva piombare dal cuore dei Grigioni su Sondrio, la capitale. Inoltre tale esercito, ed è proprio ciò che successe all'epoca del «Sacro Macello», una volta discesa la Valmalenco non aveva di fronte più nessun ostacolo naturale e pertanto poteva prendere sul rovescio tutte le forze di difesa dell'alta Valtellina. E infatti nell'agosto del 1620, quando le forze grigione, bloccate lungo gli itinerari principali, riuscirono a forzare il passaggio al Castello di Valmalenco non solo conquistarono Sondrio ma misero anche in crisi tutto lo schieramento degli insorti provocando l'intervento diretto degli Spagnoli.

Su un piano militare bisogna inoltre tener conto di altri due fattori: innanzitutto la strada del Muretto non è costituita da un singolo itinerario che, come tale, può essere facilmente interrotto o sbarrato da esigue forze, ma da un fascio di mulattiere che a partire dall'alpestre borgo di S. Giuseppe scendono verso Sondrio tenendosi talora a notevole distanza l'una dall'altra. Inoltre esistono alcuni valichi, già citati, tra la Valmalenco orientale e l'alta valle di Poschiavo, territorio quest'ultimo che fu praticamente sempre sotto controllo grigione.
Questa via di penetrazione era importante in quanto permetteva di aggirare completamente la stretta del Giovello, fortificata dal castello di Malenco, e la cosa è comprovata dal fatto che durante la rivolta valtellinese furono inviati su questi confini dei guastatori per interrompere le comunicazioni.
Da quanto sopra esposto risulta evidente che chi aveva il controllo di Sondrio, se voleva guardare i confini settentrionali, non poteva limitarsi a presidiare un castello in Valmalenco, anche se in posizione strategica (castello di Malenco), ma doveva fortificare tutta la valle facendo sì che le varie opere fossero in comunicazione ottica una con l'altra. In tale modo, come da noi sperimentato tempo fa, Sondrio poteva essere avvertita del pericolo ai confini, in poco più di mezz'ora, quando le truppe nemiche fossero state ancora all'altezza di S. Giuseppe, a distanza cioè di più di mezza giornata di marcia dal capoluogo valtellinese.
Vi sarebbe perciò stato tutto il tempo, mentre le fortificazioni della valle trattenevano l'esercito invasore, non solo di approntare la difesa della città ma anche di reagire controffensivamente. Va tuttavia detto che non vi sono prove certe che questo sistema sia stato effettivamente utilizzato. Probabilmente all'epoca del cosidetto «Sacro Macello» era già caduto in disuso o perlomeno i vari autori non ne fanno parola.Dobbiamo però notare che la tradizione di queste comunicazioni ottiche, da un fortilizio all'altro, si è tenacemente perpetuata sino ai giorni nostri e che anzi ci è sovente capitato di incontrare anziani valligiani che ne parlavano con assoluta sicurezza e cognizione di causa. Lo schema delle fortificazioni della Valmalenco è pertanto il seguente:

Alta valle del Mallero: nessuna fortificazione; vi è però qualche vaga tradizione di posti di avvistamento nella zona di S. Giuseppe, il che è perfettamente plausibile.

Castello di Malenco: a sbarramento della stretta del Giovello, più o meno fiancheggiato da trinceramenti nella zona di Primolo.

Castello di Caspoggio: su di un dosso di fronte a Chiesa Valmalenco, al di là del Mallero.

Torre di q. 822 (detta anche di Basci): lungo l'attuale provinciale Torre Santa Maria - Chiesa.

Torri di Milirolo: complesso fortificato situato sulla parte anteriore dell'omonimo borgo.

Castello di Torre Santa Maria: si trattava probabilmente di una residenza castellata, è situata in località Volardi.

Torre nel comune di Spriana: di incerta localizzazione ma ricordata da numerose tradizioni orali.

Torre di Gualtieri: sita nei pressi dell'omonima frazione di Sondrio.

Castel Masegra.”

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AMBIENTE

 

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I PROVERBI SONO IN GRAN PARTE TRATTI DAI SEGUENTI TESTI:

Gaggi, Silvio, "Il volgar eloquio - dialetto malenco", Tipografia Bettini, Sondrio, 2011
Laura Valsecchi Pontiggia, “Proverbi di Valtellina e Valchiavenna”, Bissoni editore, Sondrio, 1969
Gabriele Antonioli, Remo Bracchi, "Dizionario etimologico grosino" (Sondrio, 1995, edito a cura della Biblioteca comunale di Grosio)
Dott. Omero Franceschi, prof.ssa Giuseppina Lombardini, "Costumi e proverbi valtellinesi", Ristampa per l'Archivio del Centro di Studi Alpini di Isolaccia Valdidentro, 2002
AA.VV. "A Cà Nossa ai le cünta inscì", a cura della Biblioteca Comunale di Montagna in Valtellina, Piccolo Vocabolario del dialetto di Montagna con detti, proverbi, filastrocche e preghiere di una volta (1993-1996)
Glicerio Longa, "Usi e Costumi del Bormiese”, ed. "Magnifica Terra", Sondrio, Soc. Tipo-litografica Valtellinese
"Parla 'me ta mànget - detti, proverbi e curiosità della tradizione comasca, lecchese e valtellinese", edito da La Provincia, 2003
Pier Antonio Castellani, “Cento proverbi, detti e citazioni di Livigno” I Libri del Cervo, Sondrio, 1996
Pier Antonio Castellani, “Cento nuovi proverbi, detti e citazioni di Livigno” I Libri del Cervo, Sondrio, 1999
Pier Antonio Castellani, “Cento altri, detti e citazioni di Livigno” I Libri del Cervo, Sondrio, 2000
Pier Antonio Castellani, "Detti e citazioni della Valdidentro", I Libri del Cervo, Sondrio, 2000
Luigi Godenzi e don Reto Crameri, "Proverbi, modi di dire, filastrocche raccolti a Poschiavo, in particolare nelle sue frazioni", con la collaborazione di alcune classi delle Scuole di Avviamento Pratico, Tip. Menghini, Poschiavo (CH), 1987
Lina Lombardini Rini, "Favole e racconti in dialetto di Valtellina", Edizioni Sandron, Palermo-Roma, 1926
Cici Bonazzi, “Detti, proverbi, filastrocche, modi di dire in dialetto tiranese”, ed. Museo Etnografico Tiranese, Tirano, 2000
Luisa Moraschinelli, "Dizionario del dialetto di Aprica", IDEVV (Istituto di Dialettologia e di Etnografia Valtellinese e Valchiavennasca"), Sondrio, 2010
Tarcisio Della Ferrera, Leonardo Della Ferrera (a cura di), "Vocabolario dialettale di Chiuro e Castionetto", Comune di Chiuro ed IDEVV (Istituto di Dialettologia e di Etnografia Valtellinese e Valchiavennasca"), Sondrio, 2008 (cfr. anche www.dialettochiuro.org)
Giovanni Giorgetta, Stefano Ghiggi (con profilo del dialetto di Remo Bracchi), "Vocabolario del Dialetto di Villa di Chiavenna", IDEVV (Istituto di Dialettologia e di Etnografia Valtellinese e Valchiavennasca"), Sondrio, 2010
Luigi Berti, Elisa Branchi (con contributo di Remo Bracchi), "Dizionario tellino", IDEVV (Istituto di Dialettologia e di Etnografia Valtellinese e Valchiavennasca"), Sondrio, 2003
Sergio Scuffi (a cura di), "Nü’n cuštümàva – Vocabolario dialettale di Samolaco", edito nel 2005 dall’Associazione Culturale Biblioteca di Samolaco e dall’Istituto di Dialettologia e di Etnografia Valtellinese e Valchiavennasca. Giacomo Maurizio, "La Val Bargaia", II parte, in "Clavenna" (Bollettino della Società Storica Valchiavennasca), 1970 Gabriele Antonioli e Remo Bracchi, "Dizionario etimologico grosino", Sondrio, 1995, edito a cura della Biblioteca Comunale di Grosio.
Silvana Foppoli Carnevali, Dario Cossi ed altri, “Lingua e cultura del comune di Sondalo” (edito a cura della Biblioteca Comunale di Sondalo)
Serafino Vaninetti, "Sacco - Storia e origini dei personaggi e loro vicissitudini degli usi e costumi nell'Evo", Edizioni Museo Vanseraf Mulino del Dosso, Valgerola, 2003
Sito www.fraciscio.it, dedicato a Fraciscio
Sito www.prolocodipedesina.it, dedicato a Pedesina
Massara, Giuseppe Filippo, "Prodromo della flora valtellinese", Sondrio, Della Cagnoletta, 1834 (ristampa anastatica Arnaldo Forni Editore)
Massara, Giuseppe Filippo, "Prodromo della flora valtellinese", Sondrio, Della Cagnoletta, 1834 (ristampa anastatica Arnaldo Forni Editore)


Utilissima anche la consultazione di Massimiliano Gianotti, "Proverbi dialettali di Valtellina e Valchiavenna", Sondrio, 2001

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PRINCIPALI TESTI CONSULTATI:

Laura Valsecchi Pontiggia, “Proverbi di Valtellina e Valchiavenna”, Bissoni editore, Sondrio, 1969
Gabriele Antonioli, Remo Bracchi, "Dizionario etimologico grosino" (Sondrio, 1995, edito a cura della Biblioteca comunale di Grosio)
Dott. Omero Franceschi, prof.ssa Giuseppina Lombardini, "Costumi e proverbi valtellinesi", Ristampa per l'Archivio del Centro di Studi Alpini di Isolaccia Valdidentro, 2002
Tullio Urangia Tazzoli, "La contea di Bormio – Vol. III – Le tradizioni popolari”, Anonima Bolis Bergamo, 1935;
AA.VV. "A Cà Nossa ai le cünta inscì", a cura della Biblioteca Comunale di Montagna in Valtellina, Piccolo Vocabolario del dialetto di Montagna con detti, proverbi, filastrocche e preghiere di una volta (1993-1996);
Giuseppina Lombardini, “Leggende e tradizioni valtellinesi”, Sondrio, ed. Mevio Washington, 1925;
Lina Rini Lombardini, “In Valtellina - Colori di leggende e tradizioni”, Sondrio, Ramponi, 1950;
Glicerio Longa, "Usi e Costumi del Bormiese”, ed. "Magnifica Terra", Sondrio, Soc. Tipo-litografica Valtellinese 1912, ristampa integrale nel 1967 a Bormio e II ristampa nel 1998 a Bormio a cura di Alpinia Editrice;
Glicerio Longa, "Vocabolario Bormino”, Perugia, Unione Tipografica Cooperativa, 1913;
Marcello Canclini “Raccolta di tradizioni popolari di Bormio, Valdisotto, Valfurva, Valdidentro e Livigno – Il ciclo della vita – La nascita e l'infanzia” (Centro Studi Storici Alta Valtellina, 2000);
Marcello Canclini “Raccolta di tradizioni popolari di Bormio, Valdisotto, Valfurva, Valdidentro e Livigno – Il ciclo della vita – Fidanzamento e matrimonio” (Centro Studi Storici Alta Valtellina, 2004);
Luigi De Bernardi, "Almanacco valtellinese e valchiavennasco", II, Sondrio, 1991;
Giuseppe Napoleone Besta, "Bozzetti Valtellinesi", Bonazzi, Tirano, 1878;
Ercole Bassi, “La Valtellina (Provincia di Sondrio) ”, Milano, Tipografia degli Operai, 1890;
"Ardenno- Strade e contrade", a cura della cooperativa "L'Involt" di Sondrio;
"Castione - Un paese di Valtellina", edito a cura della Biblioteca Comunale di Castione, in collaborazione con il Sistema Bibliotecario di Sondrio;
don Domenico Songini, “Storie di Traona – terra buona”, vol. II, Bettini Sondrio, 2004;
don Domenico Songini, “Storia e... storie di Traona – terra buona”, vol. I, Bettini Sondrio, 2001;
Scuola primaria di Sirta: calendari 1986 e 1991 (a cura dell'insegnante Liberale Libera);
Luisa Moraschinelli, “Uita d'Abriga cüntada an dal so dialet (agn '40)”;
Giovanni Bianchini e Remo Bracchi, "“Dizionario etimologico dei dialetti della Val di Tartano”, Fondazione Pro Valtellina, IDEVV, 2003;
Rosa Gusmeroli, "Le mie care Selve";
Cirillo Ruffoni, "Ai confini del cielo - la mia infanzia a Gerola", Tipografia Bettini, Sondrio, 2003;
Cirillo Ruffoni, "Chi va e chi resta - Romanzo storico ambientato in bassa Valtellina nel secolo XV", Tipografia Bettini, Sondrio, 2000;
Cirillo Ruffoni, "In nomine Domini - Vita e memorie di un comune della Valtellina nel Trecento", Tipografia Bettini, Sondrio, 1998;
Mario Songini (Diga), "La Val Masino e la sua gente - storia, cronaca e altro", Comune di Val Masino, 2006;
Tarcisio Della Ferrera, "Una volta", Edizione Pro-Loco Comune di Chiuro, 1982;
"Parla 'me ta mànget - detti, proverbi e curiosità della tradizione comasca, lecchese e valtellinese", edito da La Provincia, 2003;
Massimiliano Gianotti, "Proverbi dialettali di Valtellina e Valchiavenna", Sondrio, 2001;
Associazione Archivio della Memoria di Ponte in Valtellina, "La memoria della cura, la cura della memoria", Alpinia editrice, 2007;
Luisa Moraschinelli, "Come si viveva nei paesi di Valtellina negli anni '40 - l'Aprica", Alpinia editrice, 2000;
Aurelio Benetti, Dario Benetti, Angelo Dell'Oca, Diego Zoia, "Uomini delle Alpi - Contadini e pastori in Valtellina", Jaca Book, 1982;
Patrizio Del Nero, “Albaredo e la via di San Marco – Storia di una comunità alpina”, Editour, 2001;
Amleto Del Giorgio, "Samolaco ieri e oggi", Chiavenna, 1965;
Ines Busnarda Luzzi, "Case di sassi", II, L'officina del Libro, Sondrio, 1994;
aa.vv. “Mondo popolare in Lombardia – Sondrio e il suo territorio” (Silvana editoriale, 1995) Pierantonio Castellani, “Cento proverbi, detti e citazioni di Livigno” I Libri del Cervo, Sondrio, 1996 Pierantonio Castellani, “Cento nuovi proverbi, detti e citazioni di Livigno” I Libri del Cervo, Sondrio, 1999 Pierantonio Castellani, “Cento altri, detti e citazioni di Livigno” I Libri del Cervo, Sondrio, 2000
Cici Bonazzi, “Detti, proverbi, filastrocche, modi di dire in dialetto tiranese”, ed. Museo Etnografico Tiranese, Tirano, 2000
Luisa Moraschinelli, "Dizionario del dialetto di Aprica", IDEVV (Istituto di Dialettologia e di Etnografia Valtellinese e Valchiavennasca"), Sondrio, 2010
Tarcisio Della Ferrera, Leonardo Della Ferrera (a cura di), "Vocabolario dialettale di Chiuro e Castionetto", Comune di Chiuro ed IDEVV (Istituto di Dialettologia e di Etnografia Valtellinese e Valchiavennasca"), Sondrio, 2008 (cfr. anche www.dialettochiuro.org)
Giovanni Giorgetta, Stefano Ghiggi (con profilo del dialetto di Remo Bracchi), "Vocabolario del Dialetto di Villa di Chiavenna", IDEVV (Istituto di Dialettologia e di Etnografia Valtellinese e Valchiavennasca"), Sondrio, 2010
Luigi Berti, Elisa Branchi (con contributo di Remo Bracchi), "Dizionario tellino", IDEVV (Istituto di Dialettologia e di Etnografia Valtellinese e Valchiavennasca"), Sondrio, 2003
Pietro Ligari, “Ragionamenti d’agricoltura” (1752), Banca Popolare di Sondrio, Sondrio, 1988
Saveria Masa, “Libro dei miracoli della Madonna di Tirano”, edito a cura dell’Associazione Amici del Santuario della Beata Vergine di Tirano” (Società Storica Valtellinese, Sondrio, 2004)
Sergio Scuffi (a cura di), "Nü’n cuštümàva – Vocabolario dialettale di Samolaco", edito nel 2005 dall’Associazione Culturale Biblioteca di Samolaco e dall’Istituto di Dialettologia e di Etnografia Valtellinese e Valchiavennasca. Giacomo Maurizio, "La Val Bargaia", II parte, in "Clavenna" (Bollettino della Società Storica Valchiavennasca), 1970 Gabriele Antonioli e Remo Bracchi, "Dizionario etimologico grosino", Sondrio, 1995, edito a cura della Biblioteca Comunale di Grosio.
Silvana Foppoli Carnevali, Dario Cossi ed altri, “Lingua e cultura del comune di Sondalo” (edito a cura della Biblioteca Comunale di Sondalo)
Serafino Vaninetti, "Sacco - Storia e origini dei personaggi e loro vicissitudini degli usi e costumi nell'Evo", Edizioni Museo Vanseraf Mulino del Dosso, Valgerola, 2003
Sito www.fraciscio.it, dedicato a Fraciscio
Sito www.prolocodipedesina.it, dedicato a Pedesina
Massara, Giuseppe Filippo, "Prodromo della flora valtellinese", Sondrio, Della Cagnoletta, 1834 (ristampa anastatica Arnaldo Forni Editore)
Galli Valerio, Bruno, "Materiali per la fauna dei vertebrati valtellinesi", Sondrio, stab. tipografico "Quadrio", 1890

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