DOMENICA DELLE PALME

Come la domeniga dei Uliv set gualìv
(come la domenica delle Palme sono i successivi sette giorni - Chiavenna)

Se ‘l piöov al dì di ulìva sèt duménac(h) a l’ìn gualìiv
(se piove la Domenica delle Palme per sette domeniche fa lo stesso – Samolaco)

Una volta ad Ardenno gli ulivi benedetti la domenica delle Palme venivano appesi ai pali delle vigne per scongiurare tempeste che avrebbero potuto compromettere il raccolto. I rametti di ulivo venivano messi sul davanzale delle finestre anche in estate, per scongiurare gli effetti disastrosi dei temporali più violenti.

Luisa Moraschinelli, nel "Dizionario del dialetto di Aprica", Sondrio, 2010, scrive:
"Palmi pl.m. palma, ulivo, <dì da li palmi> Domenica delle palme. (La distribuzione dell'ulivo in chiesa spezzava l'austera atmosfera della quaresima e favoriti anche del clima primaverile, diffondeva nella contrada una certa atmosfera gioiosa. L'ulivo, come ancora oggi, tutti lo portavano a casa e in ogni abitazione, quel rametto, spiccava e spicca, come segno di pace, tutto l'anno. Il sacrista, alla fine raccoglieva i resti che conservava da bruciare e ricavarne la cenere per il giorno delle ceneri dell'anno seguente)."

Lina Rini Lombardini, nel bel volumetto “In Valtellina - Colori di leggende e tradizioni” (Sondrio, Ramponi, 1950), scrive:
Intorno all'ulivo benedetto la domenica delle Palme, s'intrecciano nei nostri paesi costumanze e credenze soffuse d'ingenua poesia; forse lembi d'antiche cerimonie tra religiose e agresti? Chi sa. Una sua particolare gentilezza ha l'usanza tiranese di mettere sull'olivo un leggiadro volo di colombe, piccoline, snelle, tratte con lievità e con arte fuori dal midollo di fico (il fico, l'albero nostro che più s'avvicina alle case e ne tocca le mura e ne ascolta le voci che non sono sempre d'amore ...). Candide come neve, lisce come raso, con morbido tapino, ali e coda a frastagli; pure legate solidamente con il filo di ferro, sembrano lì per volarsene via ... Qual fu, il nostro fanciullo che fantasiosamente le ideò per un suo gioco? O le volle invece, e per primo le accostò all'olivo, un pensoso vegliardo, in memoria del rametto auspicale di Noè? Chi sa, chi sa. Certo fu una donna a iniziare la costumanza, ormai comune a tutti i nostri paesi, d'ornare l'olivo con nastri e carte luccicanti, e con fiori; fiori tanto più vividi dov'è più lungo l'inverno, e più acuto il desiderio che dia finalmente il passo alla primavera; da quest'ansia nacquero le filastrocche invocative al sole, i proverbi che per Gennaio promettono viole e lucertole, e quel nostro incantevole rito di Ciama l'erba che in Chiavenna e in Val Bregaglia, s'accompagnava a danze su ritmo di nenia non del tutto scomparse. L'anelito alla stagione che il bel tempo rimena, si compendia nella Valfurva in una sola parola: terener; cioè riapparire della terra. Terener terener; sembra l'annuncio d'un approdo. Ed eccoli, i Furvaschi, accorrere alla chiesa, nel dì delle Palme, numerosissimi, fin dalle baite più disperse. Tutti (anche il piccolo in braccio alla madre), portano un ramo d'olivo, in onore di Gesù e anche della primavera che ridà la terra all'uomo che l'ama; e la ancor bianca montagna si rabesca d'una camminante selva color ferrigno.
Più religiosi che agresti i riti che accompagnano o subito seguono. la benedizione dell'olivo data, una volta, in certi paesi, nella chiesa più antica, luogo delle prime adunanze cristiane. Fino a non molti anni fa, la benedizione si impartiva in Bormio nella millenaria chiesa di San Vitale, quasi unicamente gremita di ragazzi che poi formavano, più o meno devoti, una processione tutta ramaglie verso la parrocchia cantando le Litanie dei Santi: ondata d'innocenza e di gaudio prima che gli altari s'ammantino di nero. Al tempo in cui vi partecipava mia madre, le bimbe di famiglia agiata portavano in testa, non senza solennità, anche se splendeva il più bel sole, un cuffiotto di lana; per piccola penitenza?
...Forse il barlume di qualche lontanissimo rito è ancora oggi nell'usanza dei fanciulli di Regoledo d'agitare il loro ramo, in chiesa, durante la benedizione. O si vuole, invece, ricordare così le feste degli Ebrei intorno a Gesù, con tutte quelle inquiete palme? Ancor oggi, nella Domenica che precede la Pasqua, si svolge a Sondalo unaprocessione in cui il Sacerdote porta il ramo appena benedetto, indorato sulle foglie, e sparso, tra palline argentee, di fiorellini bianchi.
...E' il padre che, in qualche paese, distribuisce i rami benedetti ai figli e raccomanda loro quella concordia, ch'egli ha appreso dai suoi vecchi, ed era, una volta, il vanto signorile e cristiano delle nostre famiglie. In Bormio, la madre dopo aver dato a ognuno dei figli un suo ramo, va di camera in camera, come svolgendo un rito, ad appenderne una ciocca a ogni capoletto. Lì resta, da una domenica delle Palme all'altra, tutto l'anno, e non si stacca se non per essere messo tra le dita rigide di Chi si è incamminato nella aldilà; e con lui scende sotterra, e vi diventa polvere nella polvere.
L'olivo, annunzio di sereno, è buon scongiuro contro la grandine, e allorché lampi e fulmini squarciano il livido cielo, se ne butta qualche ramettino sul focolare perché vi bruci crepitando, o si mette sul davanzale della finestra. In Sondalo, il più anziano della famiglia si presenta sulla soglia di casa con un rametto in mano, invocando misericordia; le nonne di Sondalo. una volta, mettevano foglie d'olivo nei buchi delle case diroccate per preservarle dall'incendio, e ancora mescolano l'olivo benedetto alle sementi, che segnano con un gesto di croce, per propiziarne il buon frutto.
...Tempo di semina quello che precede o subito segue, la Domenica degli Olivi. «Per San March o l'è nat, o l'è furmat o nel sach preparat» dicono in Tirano, Ma, se la stagione è buona, anche prima. Già per la settimana santa: «rizza, cava la vigna, semina l'ori, cava 'l camp» perchè Pasqua fiorita è vicina e non t'aspetta. Veniva tracciata la croce sulle sementi, prima che il pugno del regior le gettasse in uno spagliettio d'oro nei solchi, camminando piano con quel passo ch'è solo del seminatore; un'altra croce con ampio gesto si traccia ad opera finita, mormorando questa stupenda giaculatoria: «Semenza in terra, speranza in Dio».
Al tempo dei seminati, le donne di Migiondo e di Sominacologna, frazioni di Sondalo, recano ancor oggi alla chiesa doni agresti; c'era nella gonna delle ave, una gran tasca apposita per contenere un pane e uno staio di segale. Come gli avi, i nostri contadini, portano anccr oggi nei poderi l'olivo benedetto; quelli di Bianzone e di Regoledo, lo legano a un palo del vigneto; in molti luoghi, in questo o quel giorno della Settimana Santa, lo stringono con la stropa al tronco dell'albero da frutto. Ricordo che la mia ava. materna appendeva il fresco rametto alla portino di quei nostri begli orti, digradanti a terrazzi verso la chiesa, e ch'erano stati un giorno dei nobili Alberti. Quel rametto di benedizione veniva in qualche nostro paese portato fuori nei poderi la mattina del Sabato Santo allorchè l'esultanza del Resurrectio trascorreva da luogo a luogo a benedir l'erba e le gemme e i frutti ancor da venire, la spiga neppur granata, e i grappoli di cui, già in aprile, si scorge il colore sui pampini appena dischiusi e smaltati d'oro e vermiglio.
Un altro ramo d'olivo, esile candelabro di pallido color argento, veniva infisso, una volta, dai Cepinaschi in mezzo al campo di lino; tenue rametto si porta tutt'oggi, pio nel campo e nel vigneto, nell'orto e nel giardino; si allaccia intorno a ogni tronco dei broli che, alternati alle vigne, si succedono, in fresca letizia di nimbi candidi e vermigli, nelle nostre campagne lungo le rive dell'Adda, dalla zona di Morbegno, a quella di Sondrio, agli allegri pomari di Lovero e di Tovo e di Mazzo, fino a Grosotto e Grosio e Sondalo terre di castagneti.
Pio scongiuro, il tenue rametto, anche contro i malefizi. Gli uomini di Cataeggio e di San Martino Valmasino, che d'olivo si sono subito ornati il cappello, lo danno da brucare alle capre: per salvarle dal fulet che, altrimenti, le spingerebbe nei burroni. Sai come sono le capre, vivaci e sventate, soggette ai malefizi anche per quel che di comune hanno con il diavolo, nel viso faunesco e beffardo, e in quelle corna. D'ulivo, quei contadini, fanno anche il cög per meglio chiudere la canola, il collare, cioè, da cui pende ‘l sampugn; l'ulivo appendono in molti paesi alla «collana» del cavallo, quando esce per la prima volta dopo il giorno delle Palme.
E all'inizio della fresca e calda estate, con l'ulivo, son benedette le bestie che vanno verso l’alpeggio. Un ramoscello d’ulivo è scolpito spesso sulla brunza. della mucca «regina»; ovvero, appeso alla brunza, ne segue, oscillando mite, il din don cosi festevole nei puri mattini color d'ametista o nelle sere di maggio quando brillano le lucciole a guisa di misteriosi fiori notturni e brillano le stelle sempre più vicine al limite dei boschi, e par di toccarle con la mano.
Ormai il pastore è in vista dei gran pascoli odorosi e leva verso di loro il ramo benedetto; uomo della montagna, che ha l'antica saggezza e l'intuizione dei suoi avi, non è convinto di quell'idillica pace. Teme nell'arcano mistero dei boschi, dentro il loro groviglio, insidie ed agguati, intuisce intorno a sè, nelle tormentate creste alpine, oscure forze, impietrite, ma non dome; vi intravvede, or si or no secondo il gioco delle luci e delle ombre, sagome di titani, paure di epoche vertiginosamente remote. Ma sa che quelle implacate forme, possono esser vinte dal rametto, pur così fragile, dell'ulivo. Simbolo di pace, viene da un albero ch'è senza pace con quel suo tronco così nero contorto che pare proteso a una disperata battaglia per sciogliersi da invisibili catene, con quella sua chioma che un soffio di vento basta a far scrosciare; e pare di sentirvi l'eco lontano d'un Diluvio. Ma su quel tronco tormentato, dentro l'inquietudine della gran chioma, si maturano le bacche da cui sarà spremuta la lagrima d'oro, perenne offerta all'altare.”

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GIOVEDI' SANTO

Una volta ad Ardenno il giorno di giovedì santo si teneva questa singolare processione rituale: dodici confratelli, vestiti di rosso, con una croce in mano, partivano dalla chiesa patronale di San Lorenzo e raggiungevano quella di San Pietro a Masino, per cercare Gesù nel sepolcro. Entrati in sacrestia e contatata la sua assenza, facevano un gran rumore, poi prendevano una grande croce e se ne tornavano ad Ardenno.

Lina Rini Lombardini, nel bel volumetto “In Valtellina - Colori di leggende e tradizioni” (Sondrio, Ramponi, 1950), scrive:
Giovedì Santo, arcano giorno avvolto di sbigottito silenzio; sidirebbe che la gente cammini verso le chiese in punta di piedi; se corrono parole son bisbigli. Il Sepolcro, ovunque vegliato da membri di Confraternite immobili come statue è, in qualche paesecome Bema, semplicissimo: quattro lumi, quattro piattelli con stelidi frumento spuntati in cantina, all'ombra, e quindi pallidi, senza nè colore nè vita, si piegano come salici piangenti in atto di dolore. Altrove il Sepolcro è nobilmente maestoso; a Talamona si innalza un gran catafalco di marmo nero; la processione di devoti, in nero, che gli si svolge intorno completa un insieme angosciante. Ma poi il corteo esce all'aperto, attraverso il paese avvolto d'ombra notturna che si costella di gran fiaccole. Sorto particolarmente pittoresche quelle a forma di cono, di tempietto, di Madonna; preparate con amore per tempo, guarnite di vividissimi disegni, formano fantasmagoriche ghirlande ammirate anche da lontano; per guardarle si sporgono i viaggiatori dai finestrini del treno; escono sulla montagna di fronte dalle loro case i Cech . . .
Fedelissima alle usanze degli avi, Talamona, antica terra, ripete la sacra luminaria anche nella notturna processione del Venerdì Santo. Fra le cadenze gravi dei Salmi penitenziali, passano drammatiche figure della Passione: Giuda, a volto velato muove a cercar Gesù e Gesù, ricevuto il bacio traditore, tristemente domanda: « Amico, a che venisti? ». Una volta questo incontro era preceduto da un gruppo di « silenziosi » che, portando una verga di nocciolo « d'un anno », andavano a cercar Gesù, e Gesù aveva l'abito rosso, simbolo del martirio e giù la Croce sulla spalla e in testa la, corona di spine.

Lembi e riverberi di Sacre Rappresentazioni sopravvivono tutt'oggi anche in altri cortei della media Valle: così appare in Regoledo ancor oggila Maddalena in lutto e con il visocoperto dai disciolti capelli; apparivano, anni fa, nelle processioni del morbegnese, uomini - giudei che portavano gli strumenti della Passione. in qualche luogo il corteo era aperto dalla Croce sorrettada un uomo in saio bianco e cappuccio chiuso come quello degli antichi disciplini: testimonianza che l'origine della andrebbe ricercata in quella Confraternita; di una Confraternita femminile molto antica sono anche le consorelle in nera veste e bianco fazzoletto del Venerdì Santo di Boffetto,
Una delle processioni più fedeli alla costumanza degli avi è la suggestiva di Delebio, chiamata con sacro tremore «i funerali diGesù Morto». Con religiosità e pia commozione chiamano la processione del Venerdì, in altri luoghi: « procession di Gesù Morto..., i funerali del Signor » (« bisogna seguire questi funerali — ammo­nivano i vecchi in Tirano — se vogliamo che nostro Signore precedail nostro funerale portando la Croce ... »). In Delebio, come perogni funerale, vanno avanti i bambini; indossano tunica e calzari,portano gli strumenti di tortura usati per Gesù. In un secondo tempo s'avanza la cassa con «Gesù sepolto», segue una Donna in gramaglie e con i capelli sciolti, raffigura l'Addolorata e ha intorno le pie donne pure vestite e velate di nero. Seguono uomini in lunghe vesti giudee (probabilmente il Cireneo e i soldati crocifissori); seguono personaggi dell'Antico Testamento; dopo il vecchio giudeo con un enorme grappolo d'uva e altri frutti raffiguranti la Terra promessa, si avanzano Mosè con le Tavole della Legge, Abramo con il braccio alzato nell'atto di colpire Isacco, un ragazzetto vestito di bianco con una fascina sulle spalle ... Arriva per vedere questo funerale, gente da tutta la bassa valle.

Glicerio Longa, nel "Vocabolario Bormino” (Perugia, Unione Tipografica Cooperativa, 1913), scrive:
"Gobia = giovedì: gobia grasa = giovedì grasso. Usanza del giovedì grasso: Si celebrava fino a pochi anni fa tra grandi feste e tripudj. Sulla piazza maggiore del Comune veniva piantato al pal de la kukagna, ben liscio e insaponato, per renderne più ardua la salita. Al vincitore della gara spettavano i doni copiosi appesi in cima al palo. Pure in tal giorno si usava dare, sulla pubblica piazza, un gran banchetto ai poveri del paese, con abbondante distribuzione di polenta. Usanza del giovedì santo: la confraternita si raccoglie di sera nell'oratorio dove riproduce la cena degli apostoli con del pane, pesce e vino. Finita la cena il più vecchio barbogio lava i piedi a dodici confratelli più anziani. Pronostico: gobia pisota - venerdì tot al dì - sabet fin mesdì = quando giovedì pioviggina - venerdì piove tutto il giorno - e sabato fino a mezzodì.
"

Tullio Urangia Tazzoli, ne "La contea di Bormio – Vol. III – Le tradizioni popolari”, (Anonima Bolis Bergamo, 1935), scrive:
Giovedì Santo. Nella mattinata dopo le funzioni religiose anzi subito dopo la Santa Comunione si soleva, ora non più, distribuire vino ai poveri da parte del comune alla porta della chiesa arcipretale di Bormio e a quelle delle chiese delle varie frazioni (Vicinie) nelle vallate. In serata, verso le 20 si svolge una processione per i Riparti Maggiore (via De Simoni) e Dossiglio (via Roma) con largo concorso di popolo. Precedono duecento ragazzi circa muniti di raganelle che provocano un rumore assordante...: la gazzarra ha inizio, già, qualche ora prima per le vie del paese e subito dopo i Vespri. Rientrata la processione nella chiesa arcipretale, verso le 21 o poco più, la Confraternita del Sacramento, antichissima ed una volta assai numerosa e ricca, si raccoglie nel salone dell' oratorio omonimo eretto sul sagrato della chiesa arcipretale ed ivi riproduce la cena degli apostoli con distribuzione abbondante di pane, pesce, vino e frutta secche. Vi sono invitati il clero locale con a capo l'arciprete e la fabbriceria. Finita la cena il priore passa a lavare con acqua assai calda dodici confratelli scelti fra i più anziani.

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VENERDI' SANTO

Al venerdì sànt tut al vin al va in sànq
(il venerdì santo il vino bevuto diventa direttamente sangue - Grosio)

Al gh 'é rniga venerdì sànt se l'é miga tónt la luna de Mars
(non c'è venerdì santo senza la luna piena di marzo; infatti la data della Pasqua cade la prima domenica dopo il plenilunio di primavera - Grosio)

Se al piöf al venerdì sànt, al végn la sùcia
(se piove il venerdì santo, ci sarà un periodo di siccità - Grosio)

Ad Ardenno il venerdì santo veniva una volta sollineato da un gran baccanmo prodotto da bambini e ragazzi, che battevano zoccoli e bastoni in terra per sottolineare la morte di Gesù. In tutti i paesi di Valtellina e Valchiavenna le campane, in quel giorno, venivano legate perché non suonassero più fino a Pasqua.

Lina Rini Lombardini, nel bel volumetto “In Valtellina - Colori di leggende e tradizioni” (Sondrio, Ramponi, 1950), scrive:
"La processione del Venerdì, fatta di notte (anche a Mazzo, Grosotto, Sondalo, Bormio), è la più suggestiva; specialmente se la notte è scura, più risponde a quel senso di tragico ch'è nei cuori e nell'ora; c'è poi ovunque il tremolio delle fiaccole alimentate da rascia o segatura (Boffetto e altrove), a creare un fantastico svariar d'ombre e di luci; vi sono le ingenue luminarie a olio dentro lumache, a far ghirlandine di fuoco a finestre e poggioli; vi sono in Mazzo anche i gran falò sulle montagne circostanti. Sembra che vengano da abissi e che siano le anime dei morti a domandar pietà. Rientrata la processione dentro le chiese e cantato il passo dell"Evangelista che descrive la Sepoltura, gli uomini stanno assorti, le donne si coprono il volto con le mani: il velo del Passio cala sui cuori. Poi tutti rincasano in silenzio. Nessun'anima viva per le strade. Gli spiriti dei morti vegliano presso le soglie. Sfolgora invece il giorno di sabato ricco di doni. Al primo tocco del Gloria tutti si fanno il segno di Croce; un segno di Croce alzano verso le campagne. Si corre a bagnarsi gli occhi e si recita il Credo.
E' benedetta anche «l'acqua che sorge viva da la vena», quella delle fontane; a «brentorr» si benedice sul sagrato; e con l'acqua il fuoco altro elemento primo di vita. Per quel fuoco, in certi luoghi, preparano i legni con speciali riti; a Regoledo li spaccano al mercoledì, giovedì, venerdì, sulla piazza; li chiamano «restidi croce». I carboni sono messi in parte sul focolare, in gran parte mescolati alle zolle, negli orti, nei campi, nei prati, nelle vigne."

Paride Dioli, in "Caspoggio nel secondo millennio" (ed. Unione della Valmalenco", 2004), scrive:
"La processione del Venerdì Santo.
Il percorso di questa processione, nella prima parte, era quello del Corpus Domini, senza la sosta ai capitelli. Giunti ai (V)alàas, non si tornava per la via Don Gatti, ma si attraversavano i prati della Ciàna a nord del paese. I canti erano mesti, alle volte lugubri, e c'era in tutti i partecipanti un sentimento di mestizia e di dolore.
Venivano portati in processione il simulacro di Cristo morto, disteso in un sarcofago di vetro, e la statua della Madonna Addolorata, entrambi contornati dalle lanterne, dai grandi candelabri e dai grossi ceri. Davanti a tutti veniva portato lo stendardo con l'immagine della morte scheletrica che brandisce la falce; lungo il corteo i crocifissi delle confraternite, ma non gli stendardi riccamente decorati; il sacerdote indossava i paramenti neri. Veniva fatta alle tre pomeridiane.
Al mattino, dopo le funzioni del Venerdì Santo, veniva fatto l'incanto, tra i concorrenti che volevano portare il simulacro di Cristo e la statua della Madonna, previo pagamento di un'offerta
."

Tullio Urangia Tazzoli, ne "La contea di Bormio – Vol. III – Le tradizioni popolari”, (Anonima Bolis Bergamo, 1935), scrive:
“Venerdì Santo. La processione del Venerdì Santo si sviluppa, solennemente, attraverso le principali vie del borgo sino alla estrema ex chiesa di S. Barbara. Ha inizio a notte fatta: circa alle 20.30. Nel pomeriggio si nota in Bormio un grande affac. Bendarsi per rendere pulite, minuziosamente, le vie ove passerà la processione. Le porte delle abitazioni vengono riccamente decorate con muschio, quadri, scene illustrative della Settimana Santa, angeli alati e, persino, soldati giudei... Finestre decorate di rami di pino ed abete, palloncini, candele e gusci di lumache forniti di olio e lumini ad olio colorati sono gli elementi caratteristici di questa decorazione popolare. Il fervore decorativo è però, in realtà, oggi meno intenso. La processione è lunghissima. Vi intervengono tutte le principali autorità e grande concorso di popolo anche dalle valli.
Il simulacro del Cristo Morto è fiancheggiato da 4 guardie... pretoriane. Precedono le numerose confraternite ed associazioni religiose, segue il clero. Il frastuono assordante ed in fondo poco decoroso delle raganelle del Giovedì Santo è, ora, sostituito dalle lente marce funebri della musica locale. Nel silenzio alto dell'alpe, fra le strade dell'antico borgo antiche e scure pel nitro e pei secoli, nel raccoglimento devoto dei presenti il rito religioso, triste e solenne insieme, richiama, in chi lo sa comprendere, un senso di indefinito misticismo... Ritornata la processione nella chiesa collegiata, ultimate la predica e la benedizione, la chiesa si vuota e rimane muta e deserta mentre, un tempo, restava presso al catafalco reggente il Cristo Morto una scorta d'onore. È generalmente questa del Venerdì Santo per la popolazione una giornata di stretta astinenza: quindi rigorosamente proibita ogni bevanda alcoolica. In conseguenza vige il detto popolare che "bere vino in Venerdì Santo è sacrilegio ; il vino andrà in sangue„. Ma gli impenitenti bevitori (ve ne sono di buoni nel vecchio Contado, forse per secolare tradizione dei vini bormiesi prelibati gli impenitenti bevitori trovano il modo di ritorcere il detto proibitivo in loro favore sostenendo che " il bere vino in Venerdì Santo va in tanto sangue cioè fa buon sangue „ e, così, conciliano le esigenze della loro coscienza con quelle della loro gola...”

Da Tarcisio Della Ferrera, Leonardo Della Ferrera (a cura di), "Vocabolario dialettale di Chiuro e Castionetto", Comune di Chiuro ed IDEVV (Istituto di Dialettologia e di Etnografia Valtellinese e Valchiavennasca"), Sondrio, 2008:
"Girèla (girèli) - sf. raganella.
È uno strumento di legno atto a far rumore, usato durante la Settimana Santa per sostituire il suono delle campane che tacevano e anche per far rumore in chiesa, dopo la lettura del cosiddetto “ufficio delle tenebre”

Guido Scaramellini scrive che durante la settimana santa a Tresivio «uomini con vesti scarlatte dalla cintola in giù si battevano il dorso con catene, come un tempo flagellanti e alcuni protendevano dei teschi e uno portava sulle spalle la croce». Questa processione venne sospesa nel 1866.

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SABATO SANTO

NelDizionario etimologico grosino”, di Gabriele Antonioli e Remo Bracchi (Sondrio, 1995, edito a cura della Biblioteca comunale di Grosio), leggiamo:
"
Sàbet m. sabato. II Ghmiga sàbet sénza su, è credenza diffusa che non ci sia sabato senza qualche occhiata di sole, perché deve asciugare l'unica camicia che il povero ha per la domenica. Questo con­cetto è presente anche nel detto: ghmiga sàbet sénza su, pra sénza èrba e camisa de fémma sénza merda, non c'è sabato senza sole, prato senza erba e camicia di donna che sia pulita. / Al Signór al paga miga tuc' i sàbet, ma al végn al sàbet che al paga, chi non è corretto nel suo agire, prima o poi dovrà renderne conto / Sàbet sant, sabato che precede la domenica di Pasqua. Diverse sono le credenze e le usanze legate al sabato santo. Al suono festoso delle campane che interrompe il silenzio della Passione, e che un tempo si effettuava alle 10 del mattino, la gente correva a legare con vimini le piante da frutto in fiore, per garantirsi un buon raccolto, e i bambini erano invitati dagli anziani a fare capriole (a far la pica fò) zóra al cò) per preservarsi contro il mal di schiena. Il carbone residuo del fuoco, benedetto durante la veglia pasquale, veniva raccolto e sparso sui fondi per proteggerli contro parassiti e influssi malefici e, in mancanza del carbone, si usava sbriciolare l'ulivo benedetto dell'anno precedente o la cenere relativa. Con l'acqua, benedetta la notte di Pasqua, ci si bagnava gli occhi per proteggerli da qualsiasi malattia."

Lina Rini Lombardini, nel bel volumetto “In Valtellina - Colori di leggende e tradizioni” (Sondrio, Ramponi, 1950), scrive:
"Sabato santo, giorno che riluce; sono lindi i cuori e le case; sventola al sole il gran bucato di primavera che diventa più candido il niveo e roseo fiorir delle piante da frutto: luccica tra le pareti delle cucine l'oro rosso del «rame» lustrato di nuovo, fra pennacchietti di martelina; la regiura fa innesti ai gerani e garofani porpora dei davanzali e delle «lobbie» fino all'ottobre."

Tullio Urangia Tazzoli, ne "La contea di Bormio – Vol. III – Le tradizioni popolari”, (Anonima Bolis Bergamo, 1935), scrive:
“Sabato Santo. Nella mattinata nella piazza maggiore del borgo ove eranvi gli edifici del governo ed ove sussistono tuttora la vecchia chiesa collegiata, le canoniche, gli oratori, il kuérc e la torre del comune si accumula una grande catasta di legna fornita dalla fabbriceria locale. Vi si dà. il fuoco innanzi al popolo del borgo ed a quello accorso dalle valli. Il carbone risultante viene benedetto, distribuito e sparso, quasi concime sacro, negli orti, prati, campi per scongiurare eventuali incendi. Ed anche i cibi, cotti col carbone benedetto, sono pure essi ritenuti benedetti...' Nell'interno della chiesa arcipretale e nelle chiese parrocchiali delle valli ci si reca con secchi e bottiglie per prendere l'acqua santa che riempirà le pilette od acquasantini appesi, in ogni casa bormiese, presso il letto. Sembra che in Valfurva ed in Valdisotto ve ne fosse maggior consumo e maggior richiesta. In chiesa si accendono nella mattinata tre candele perché colate sulla testa dei bimbi li preservano da ogni male: così almeno usavasi un tempo... Ancora oggi le donne con più o meno zelo attendono a questo rito. Ultimata la benedizione della legna si passa alla benedizione dell'acqua santa e, dopo, a quella delle case e delle stalle.

Guido Scaramellini annota una consuetudine valchiavennasca: padrini o genitori del primo bambino battezzato, dopo la benedizione dell’acqua nella solenne veglia pasquale del Sabato santo, offrivano al parroco un capretto vivo con nastri rosso. Diffusa anche in valtellina era, poi, questa consuetudine: i contadini andavano nei poderi a legare gli alberi da frutto proprio nel momento in cui le campane, al termine della veglia, annunciavano la resurrezione, perché in quel modo la benedizione divina poteva produrre anche su di essi benefici effetti e preservarli da malattie e tempeste.

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PASQUA

Pasqua venga bàsa o venga alta, la vien con la foglia e con la frasca
(la Pasqua, venga alta o bassa, viene sempre quando gli alberi hanno messo foglie e frasche - Sacco)

Se la Pasqua l'é tardiva, l’è tardiva ènca la primavéra
(se la Pasqua è tardiva, è tardiva anche la primavera - Sondalo)

Pasqua tardiva, prümaveira tampuriva
(Pasqua tardiva, primavera tempestiva - Val Bregaglia)

Al mör püsee caurecc' a la primavera che càuri al uendemii
(muoiono più capretti in primavera - per la Pasqua - che capre alla vendemmia - Selve di Colorina)

Nella “Guida escursionistica della Valchiavenna” (edizioni Rota, Chiavenna, 1986), leggiamo:
“A Pasqua, padrini e madrine di battesimo, se non sono sposati, sogliono donare ai figliocci uova sode di gallina dipinte. È una tradizione che sopravvive soprattutto nella bassa valle.”

Ad Ardenno nel giorno di Pasqua si usava legare germogli di geranei ai pali delle viti per propiziarne la fioritura.

Lina Rini Lombardini, nel bel volumetto “In Valtellina - Colori di leggende e tradizioni” (Sondrio, Ramponi, 1950), scrive:
"Domani è Pasqua. Viene dalle case l'odor dei dolci che le donne preparano per il pranzo del dì solenne. Quasi di rito, vi appare l'arrosto di capretto. In Bormio, da tempi antichissimi, veniva alla porta della chiesa distribuito, per tutte le mense, ricche e povere,il pezzo d'agnello benedetto, mentre gli occhi e il cuore si placavano nella sfilata dolcemente pastorale dei «Pasquai». Augurio e annunzio di pace? invito a concordia, monito che siamo tutti uguali d'innanzi all'Agnello?
L'origine dei «Pasquali» risale forse ancora più lontano, al più lontano dei tempi quando le nostre genti erano solo dedite alla pastorizia e per i nostri sentieri passavan fiumi di lana e scalpiccio di zampette ... E nelle tradizioni pastorali di Bormio v'è il ricordo e l'esaltazione di quello che fu il lavoro dei primissimi avi in quell'entrare d'agnellini vivi nella chiesa parrocchiale fin presso l'altare è chiara l'origine antica nell'offerta di primizie al Signore padrone del tempo e della vita."

Tullio Urangia Tazzoli, ne "La contea di Bormio – Vol. III – Le tradizioni popolari”, (Anonima Bolis Bergamo, 1935), scrive:
“Pasqua di Risurrezione. Essa è caratterizzata, nella popolaresca bormina, dal costume forse il più gentile ed originale Che consiste nella benedizione di cinque bianchi e vivi agnellini che vengono condotti e trasportati alla chiesa arcipretale ornati a gara nel miglior modo da ciascuno dei vecchi cinque rioni in cui è diviso il borgo. I pastori od i rappresentanti i pastori dei vari rioni vestonoun poco all'antica usanza di Bormio: cappello - nero di panno a larghe tese ornate di velluto con cocuzzolo spianato e fiocco nero; giacchetta - o non esiste, oppure è nera, di panno casalingo e priva di maniche; panciotto - non è, generalmente, portato; camicia liscia, bianchissima, di lino; fazzoletto di seta, di vivaci colori, sovrapposto al collo della camicia;pantaloni corti, pure di panno nero casalingo, terminanti al ginocchio; sopracalze di lana, lunghe e bianche (stivàgl); scarpe basse con o senza fibbie; fascia di lana rossa - essa cinge alla vita i pantaloni; mantello di panno nero, casalingo, arrotolato e portato a tracolla.
Ogni pastore rionale conduce l'agnellino del rione alla chiesa collegiata. E chi lo conduce a mano, chi in una bisaccia portata a tracolla, chi in una panciera più o meno voluminosa oppure sulle braccia. L'agnellino è, generalmente, ornato di nastri e fiori. Qualche volta un rione ha il proprio Buon Pastore rappresentato da un bimbo vestito dì pelli che si stringe fra le braccia il bianco agnellino. A volte il Buon Pastore è portato in spalla da quattro altri robusti giovani pastori in una specie di tabernacolo nel quale il buon pastore siede: il tabernacolo è riccamente ornato di colonnette rivestite di muschio e di colori vivaci. L' usanza era ed è sola rimasta in Bormio non nelle valli. Una volta S. Lucia di Bormio, ex Fumarogo, recava a Bormio, da cui dista poco più di un chilometro, una delle più belle pecore quale compenso stabilito per antica tradizione di quei terrazzani al capitolo della chiesa collegiata per le messe ogni tanto celebrate in quell'antichissima chiesa dal 'clero di Bormio. Ma ora l'usanza è scomparsa. Il corteo dei pastori rionali entra nella chiesa arcipretale e sul finire della messa grande si benedicono gli agnellini fra i concerti dell'organo, gli alleluja del coro, i fumi dell'incenso ed i belati delle piccole bestiole impaurite da tante luci e da tanti suoni...! Questi "agnellini di presentazione„ compiuto il rito nella chiesa ritornano al proprietario che li ha offerti per l'occasione.Ma altri agnelli maturi e grossi vengono in precedenza
acquistati mediante lasciti o pubblica sottoscrizione da ogni rione. Essi vengono benedetti ed arrostiti al forno e distribuiti gratuitamente dopo essere stati tagliati in proporzione al numero degli abitanti rionali. Così in Bormio nel giorno sacro il sacro Agnello non manca in ogni mensa sia del ricco che del povero.
Oltre le benedizioni degli agnelli altre benedizioni si compiono con l'acqua santa lustrale. Si lavano, quasi a purificazione, nelle case gli occhi con l'acqua santa benedetta al momento del 'Gloria in Excelsis„ quando lo scampanio allegro rompe i silenzi del trapasso mistico del Redentore e le sue lunghe ore di agonia: gli occhi saranno, così, benedetti e preservati da ogni male - si benedicono le case e le stalle con la rituale offerta di uova o monete che si raccolgono nel recipiente dell'acqua santa che porta il chierico accompagnante il sacerdote: le case e le stalle saranno, così, preservate o meglio guardate nel nome del Signore - si benedice il sale di pastorizia, in uso pel bestiame, collocato su un apposito piatto all'entrata della bajta: il bestiame, usando di esso, crescerà sano, vigoroso e prospero - si benedicono in certe vallate pure gli animali domestici benedizione che ricorda, un poco, quella di S. Antonio il 17 di gennaio. Ed in questa purificazione di spiriti e di corpi ovunque si lava e si rimette a nuovo l'ambiente più frequentato e più famigliare della casa bormina, la stua, che dalle lunghe veglie invernali, rifatta tersa e lucida, pare ora quasi sorrida alle prime aure della primavera che si inizia quasi Vita Nuova santificata dal rito sacro
.”

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1 APRILE

Ercole Bassi, in “La Valtellina (Provincia di Sondrio) ” (Milano, Tipografia degli Operai, 1890), osserva che solo da poco (siamo nell'ultimo quarto dell'Ottocento) è stata introdotta anche in Valtellina, fra le classi sociali alte, la consuetudine del "pesce d'aprile", cioè della burla ben congegnata ma di buon gusto a danno di vittime ignare.

23 APRILE

Ricorrenza di San Giorgio e festa patronale di Montagna in Valtellina e di Cino.

Giurgèt, Marchèt, Crusètt tri invernett
(san Giorgio, San Marco e Santa Croce, tre piccoli inverni - il 23 aprile, il 25 aprile ed il 3 maggio ricorrono spesso giornate fredde - Ponte in Valtellina)

San Giurgét, san Marchét, San Crusét i fa mez invernét, ma san Vitùr l’è ‘l pegiùr (a san Giorgio, san Marco e santa Croce torna a far freddo, ma a san Vittore fa ancora più freddo – Valmalenco)

A S. Giorg la spiga la sporg
(A San giorgio la spiga sporge dal terreno - Tresivio)

Al vegna Pasqua quand al n'a vöia che S. Giorg el mena la föia

(venga la Pasqua quando vuole, che S. Giorgio porta le foglie - Mello)

A san Giòrsc tücc i porsc
' (a san Giorgio vanno a messa tutti i porci, cioè anche i meno devoti - Montagna in Valtellina)

24 APRILE

Ricorrenza di San Fedele e festa patronale di Poggiridenti e di Verceia.

25 APRILE

Ricorrenza di San Marco e festa patronale di Mantello.

San Giurgét, san Marchét, San Crusét i fa mez invernét, ma san Vitùr l’è ‘l pegiùr (a san Giorgio, san Marco e santa Croce torna a far freddo, ma a san Vittore fa ancora più freddo – Valmalenco)

Se al truna prima de San Marc al turna 'ndree l'inuèren
(se tuona prima di San Marco torna indietro l'inverno - Selve di Colorina)

S'el trona prima de S. Mark l’invernu el se slunga un trat
(Se tuona prima di San Marco, l'inverno si allunga di un tratto - Gerola)

Sa 'l truna prima da San March l'invern al sa fa lungh e largh

(se tuona prima di san Marco l'inverno sarà ancora lungo - Poschiavo)

Per San March o
l'è nat, o l'è furmàt o nel sach preparàt
(per San Marco - il frumento - o è nato, o è formato o è raccolto nel sacco - Tirano)

Tra san March e la Cruseta al vegn una meza inverneta
(tra San Marco e Santa Croce viene un piccolo invernetto - Grosio)

Se 'l truna el dì de S. Mark 'l turna n'drée l'invernu quaranta dì!

(se tuona il giorno di San marco, torna indietro l'inverno, per quaranta giorni - Pedesina)

San March, capu da semenza, chi ha gnamò scumenzù, scuménzia!

(San Marco è il termine per seminare: chi non ha ancora sminato, semini! - Poschiavo)

29 APRILE

Santa Caterina da Siena.

Sa 'l tira 'l vent da Santa Catarina, par quaranta di 'l mena la parpatulìna
(se tira vento il giorno di santa Caterina, per quaranta giorni avremo tempo guasto - Poschiavo)

Da Tarcisio Della Ferrera, Leonardo Della Ferrera (a cura di), "Vocabolario dialettale di Chiuro e Castionetto", Comune di Chiuro ed IDEVV (Istituto di Dialettologia e di Etnografia Valtellinese e Valchiavennasca"), Sondrio, 2008:
"Rugaziùn - sf. pl. rogazioni.
Processioni particolari che si svolgevano in primavera, verso la fine di aprile, nei nostri paesi; i fedeli, che seguivano il parroco in queste lunghe camminate per la campagna, cantavano le litanie dei santi e innalzavano preghiere e invocazioni per impetrare una buona annata agricola e per tener lontane tutte le calamità: "a peste, fame et bello libera nos, Domine". Queste processioni si svolgevano per tre mattine consecutive e alla terza mattina, per antica tradizione, quelli di Castionetto si incontravano con i Chiuraschi sulla strada della Fossana."

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PROVERBI

Il mese più piovoso...

In aprìl, ogni guta l'è 'n barìl (in aprile, ogni goccia è un barile - Sirta)

Abrìl, tüc’ i dì 'n barìl (aprile, tutti i giorni un barile d'acqua - Castione)

April aprilèt, tuti i dì an sguazèt
(Aprile apriletto, tutti i giorni un piccolo scroscio d'acqua - Tirano)

Avril, avrilèt, tüc' i dì 'n sguazèt
(aprile, apriletto, tutti i giorni un piccolo scroscio - Poschiavo)

Aprìl, una gótula pèr dì (aprile, un piovasco ogni giorno - Grosio)

In aprìl ogni gùta l'è un barìl (in aprile ogni goccia è un barile - Ardenno)

Trun
d'avrii arch archìi, trun de mac’ gerl e campàc'
(tuoni di aprile archi archetti della vite, tuoni di maggio gerla e campaccio: la pioggia di aprile sugli archetti della vite promette uva abbondante; quella di maggio abbondante fienagione - Villa di Chiavenna)

...per la gioia dei contadini,

Avrìl ‘l ghe n’ha trénta, ma se ‘l ciöverés  trentün, ‘l ghè farés mal a negügn
(aprile ha trenta giorni, ma se piovesse trentun giorni, non farebbe male a nessuno – Valmalenco)

Abrìl al ga n’à trénta, l’arés de piöf al trentün
(aprile ne ha trenta, dovrebbe piovere il trentuno - Tirano)

L'avril at ga trenta dì; l'aròf da plòa trentün
(aprile ha trenta giorni; dovrebbe piovere trentuno - Poschiavo)

April al n'a trent, se el ciöv trentün al fa mal a nigüü
o anche: Aprìl al ghe n'à trenta, ma s'al ciuéss trentün al farìss mal a nigün
(Aprile ha trenta giorni, ma se ne piovesse trentuno non farebbe male a nessuno - Montagna)

Se ‘l més d’abrìl al piöf al vée grancc i cöf
(se piove nel mese di aprile diventano grandi i covoni - Tirano)

Gót gót fa fèn ògni mót
(goccia dopo goccia ad aprile e cresce il fierno in ogni prato - Grosio)

Avril pulvarént, poca segal e furmént
(aprile polveroso, poca segale e frumento - Poschiavo)

Marz asciütt, april bagnà, beat quel che l'à seminàa
(marzo asciutto, aprile bagnato, beato quello che ha seminato - Cagnoletti)

Mars pulvarulént, abrìl lúciulént, pòrta paia e furmént
(marzo polveroso ed aprile piovoso portano paglia e frumento - Tirano)

Màrs suc’ e urìl bagnè, cuntént al cuntadìn che l’à sumenè
(marzo asciutto ed aprile bagnato, contento quel contadino che ha seminato – Grosio)

Màrs fuégn e urìl piöf piöf i mét al gràn in dela cöf
(marzo ventoso ed aprile piovoso portano abbondanti raccolti di grano – Grosio)

L’è méi un brut màrs che un bèl urìl
(è meglio un brutto marzo di un bell’aprile – Grosio)

...ma attenzione a qualche inquietante stranezza!

Se al tróna de urìl al tórna indré l’invèrn 
(se tuona in aprile torna l'inverno - Grosio)

S'al truna d'april al turna indré l'invèren per quaranta dì
(se tuona ad aprile torna l'inverno per quaranta giorni - Montagna)

I primi tepori sono ancora insidiati da colpi di coda del freddo.

Aprìl fregiulìn poc gran e poc vìn
(aprile freddo, poco grano e poco vino - Montagna)

Aprìl aprilét, un ura colt e un ura frèt

(aprile apriletto, un'ora caldo ed un'ora freddo)

Avril, avrilèt, un di freid e ün caldèt
(aprile, apriletto, un giorno freddo ed uno caldino - Poschiavo)

Brina de aprìl, la mpienìs el barìl (brina d’aprile riempie il barile)

Aprìil, gnànca 'n fìil (ad aprile non ti devi scoprire neppure di un filo)

In avrì sbiùtas brì (in aprile non spogliarti - Fraciscio)

A abrìl gnàa ‘n fil, macc adàcc, giügn giüstu ‘n pügn, lüi van giù ‘n tel büi
(ad aprile non scoprirti neanche un filo, a maggio scopriti adagio, a giugno solo un po’, a luglio gettati nella fontana - Tirano)

E' il mese delle semine...

El met föia in aprìil daa ul manec del badìil
(in aprile fiorisce anche il manico del badile - Sirta)

Al més de abrìl la tèra sa la tàia cun al badìl
(il mese di aprile la terra si taglia con il badile - Tirano)

Al mes d'avrìl sa tàia amò la tèra cul badìl
(il mese di aprile si rompe ancora la terra con il badile - Poschiavo)

Cavà d’avrìl e agóst se mpienìs l'invòlt de móst
(a cavare ad aprile ed agosto si riempie la cantina di mosto)

...per cui si dormirebbe volentieri, ma la terra reclama impegno!

Cu ‘l sa deséda la primavéra sa dòrma vulentéra
(quando si sveglia la primavera si dorme volentieri - Tirano)

An abrìl van a lècc dubòt e léva sü a bunùra

(ad aprile vai a letto presto e svegliati di buon'ora - Tirano)

E' il mese dei fiori...

April gà el fiùr e macc el gà l'unùr
(Aprile ha il fiore, maggio gli dà l'onore, cioè il colore - Regoledo)

April el fa 'l fiuur e macc’ el dà caluur
(aprile fa il fiore e maggio gli dà il calore - Sirta)

April el fa i fiùr, e macc’ el da' culùr
(aprile fa i fiori, maggio dà ad essi il colore - Ardenno)

Nu ghè sàbet senza su, aprìl senza fiù e fémmi senza amùr
(non c’è sabato senza sole, aprile senza fiore e donna senza amore)

... del cucù...

El cucù el dis: ai set (d' aprile) nu vegnaro, ai dersèt se pudaro, ai vintisèt nu sbagliare (il cucù dice: il 7 di aprile non verrò, al 17 se potrò, al 27 non sbagliare - Campo Tartano -)

Parla il cucù: ai set nu uegneró, ai dersèt se puderóo, ai uintisèt nu mancheróo (parla il cucù: non verrò il sette, verrò il diciassette se potrò, al ventisette non mancherò - Sirta)

S'el canta miga el cucù el vint d'aprìl u che l'é mort u che l'é ferìi
(se non canta il cucù al venti d'aprile, o è morto o è ferito - Caiolo -)

...e di altri animali.

Ai quindess d'aprìl el canta l' üsèl gentil
(Al quindici d'aprile canta l'uccello gentile - il merlo o l'usignolo - Cagnoletti)

D'aprìl de sòlit te sè gnamò s'al canta el grìl
(ad aprile di solito non sai ancora se canta il grillo - Montagna)

Quant lè scià l’aurìil, dàa l’àsen el cambgia ‘l pìil (quanto arriva aprile, anche l’asino cambia il pelo, quindi tutti possono cambiare idea – Val Tartano)

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Da "Lombardia" (nella collezione almanacchi regionali diretta da R. Almagià), Paravia, Milano, Torino, Firenze, Roma, 1925:


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