Sul versante delle Orobie orientali valtellinesi, fra le valli di Arigna (termine che deriva da “lariana” e, quindi, da “larix”, cioè larice), ad ovest, e Malgina, ad est, si distende il territorio di uno dei più piccoli comuni della provincia, quello di Castello dell’Acqua, una costellazione di contrade (complessivamente ben 26) disposte, quasi simmetricamente, intorno ad un centro esiguo, con la bella chiesa di San Michele ed il rudere della torre dell’antico castello, arroccati su un modesto poggio fra due valli, la val Grande, ad ovest, e la val Piccola, ad est. Si tratta di una zona che appare, oggi, un lembo di terra sottratto allo scorrere del tempo, dove le attività agricole rivestono ancora un ruolo decisivo nel disegno dei luoghi, della atmosfere e dei volti, una zona, un tempo, più densamente popolata, ma ancora ricca di suggestione e di misteri.
Il solco delle due valli che, quasi parallele, scendono a circondare il nucleo centrale, la val Grande e la val Piccola, si dice sia stato tracciato, come segno di divisione e di ombra, dall’oscuro gesto di perfide streghe che, dall’alto, vollero rimarcare l’incombente ed ineliminabile presenza del male, circondando e, quasi, assediando la chiesa di San Michele. Non è, però, questo l’unico segno del mistero che si lega a questi luoghi: la raccolta che si trova nel ciclostile della IV B della scuola elementare di Chiuro “Storie e leggende dei nostri paese”, curata dall’insegnante Armida Bombardieri, nel 1974, ne menziona altri, che raccontiamo percorrendo le strade di accesso al paese. Si tratta di due strade, che salgono al centro da est e da ovest.
La prima si imbocca lasciando la ss. 38 all’altezza del passaggio a livello di San Giacomo di Teglio, e prendendo a destra al primo bivio (indicazione per Castello centro). Attraversiamo, così, la contrada Case del Piano (m. 376) e raggiungiamo la contrada Cavallari (o Cavallaro), dove possiamo ammirare un affresco, segnalato da un cartello, su una baita, e, soprattutto, un’antica fucina, anch’essa segnalata ed oggi adibita a museo: qui, fino ad un passato recente, si forgiavano strumenti per l’agricoltura in ferro, sfruttando il minerale estratto in Val Belviso e l’energia fornita dal torrente Malgina.
Parte da qui il bel sentiero etnografico, che tocca i luoghi classici legati, fino agli anni ’50 del secolo scorso, all’economia contadina, vale a dire mulini, per la macina di segale, granturco e grano saraceno, forni per la cottura del pane, frantoi per la spremitura dell’olio che serviva come combustibile e la pila, dove venivano battute le castagne. Il percorso che, nella forma di circuito, può essere completato in circa 3 ore (con un dislivello di 304 metri), sale da Cavallari (m. 377) alle Pile (m. 460), prosegue fino a Cortivo (m. 556) e Ca’ dell’Albert (m. 604, dove si trovano la pila ed il mulino); svolta, quindi, a destra (sud-ovest), raggiungendo, dopo un tratto sulla mulattiera per la val Malgina, la contrada della Paiosa (m. 687). Inizia, quindi, la discesa verso la contrada Nesina (m. 581), dalla quale, attraversato un bosco di castagni, tigli, frassini, sorbi, pioppi e betulle, torniamo a Cavallari. Ovviamente il percorso può essere effettuato anche in senso contrario (antiorario), come suggerito dal cartello a Cavallari. Si tratta di una camminata nel cuore della storia e della cultura contadina.
Il percorso della leggenda, invece, è più ampio, e passa per la secentesca chiesa di San Giuseppe, a Cortivo, che domina una fascia di prati, frutteti e vigneti. Alla facciata, che si erge sopra un muraglione a monte della strada, si accede attraverso una ripida scalinata. Salendo e volgendo lo sguardo verso l’alto, scorgiamo, appena sotto il timpano della facciata, una figura a dir poco singolare: si tratta di un mascherone in stucco, che propone una figura fra il grottesco e l’orrido, con due squame al posto delle orecchie e la bocca aperta, a mostrare la lingua. Si tratta dell’”invidia”, legata ad una storia di rivalità fra Cortivo e Castello centro. Invidia, dal latino in-videre, cioè guardare male, augurando il male a chi ha la sola colpa di possedere qualcosa che ci è negato. E quella figura grottesca che mostra la lingua ne è una rappresentazione felice.
Cosa accadde di tanto grave, in quel di Castello, da suscitare sguardi malevoli ed addirittura da indurre a collocare sulla facciata della chiesa questo simbolo di irrisione? Pare che di mezzo ci fosse la val Piccola, che, nata, come già detto, dal male, divenne fucina di nuovo male. Le contrade ad est godevano di una posizione più felice, grazie alla migliore esposizione al sole, e reclamavano per sé il privilegio di ospitare la chiesa parrocchiale. Si candidò proprio Cortivo, che poteva offrire, come sede della chiesa, una zona luminosa ed amena.
Ad ovest, però, non ci volevano stare, ed opponevano, alle bellezze dei luoghi sull’altro lato della valle, il prestigio dei loro, più carichi di storia, testimoniata dal castello medievale, che si ergeva come segno di un passato e di un presente illustre. E la spuntarono: fu la chiesa di San Michele, collocata a Castello Centro, a divenire, nel 1427, chiesa parrocchiale. A Cortivo la presero male: si fecero la loro chiesa e non si limitarono a questo, ma vollero che la sua facciata, rivolta verso il centro di Castello, mostrasse perennemente a tutti gli abitanti ad occidente della val Piccola i loro sentimento verso di loro, come a dire: siete solo invidiosi del nostro sole e della nostra luce, e non meritate altro che il nostro dileggio. Ma da che parte stia l’autentica invidia, non è dato sapere: se chiedete, ancora oggi, agli uni ed agli altri, di qua e di là dalla valle, otterrete risposte di segno opposto.
Procediamo, in direzione del cimitero: poco sopra, si erge, su un poderoso terrapieno, la chiesa di San Michele (m. 664), riedificata nel 1688 e restaurata nel 1888 e nel 1992. Qui è posto il cuore del paese, e qui, sembra, tendessero le loro insidie più temibili le streghe, che, dai boschi sopra il paese, calavano, sul far della sera, per insidiare gli abitanti e, soprattutto, portar via i bambini che si attardassero per le strade. Un segno, soprattutto nelle precoci ombre delle sere d’inverno, scandiva l’inizio della loro caccia, i rintocchi dell’Ave Maria, alle sei di sera. Terminata l’ultima eco dei rintocchi, la gente si affrettava a guadagnare l’uscio di casa, e le donne si coprivano il capo, per sventare la cattiva sorte che le malefiche megere scagliavano contro di loro. E così per tutte le successive dodici ore, fino alle sei della mattina successiva, quando i rintocchi dell’Ave Maria ponevano termine al tempo concesso per le insidie del male, ricacciando le streghe nelle loro oscure dimore.
Torniamo, ora, al cimitero e, al bivio, prendiamo a sinistra, imboccando la seconda strada di accesso al centro di Castello, quella che sale dal ponte del Baghetto (m. 349), facilmente raggiungibile staccandosi dalla ss. 38, verso sud, subito dopo San Carlo di Chiuro (per chi procede n direzione di Tirano). Dopo una breve discesa, troviamo, sulla sinistra, la deviazione per Ca’ Verina (m. 598), una delle molte contrade di Castello. Nei pressi del piccolo nucleo di case si trova una specie di grotta, denominata “böcc de li magadi”, cioè buco delle streghe (anche qui, come a Chiuro e ad Albosaggia, le streghe vengono chiamate magade, cioè maliarde): inutile ricordare che qui il coprifuoco, per così dire, dalle sei di sera alle sei di mattina veniva rispettato con rigore ancora maggiore.
Proseguendo nella discesa, incontriamo le contrade Raina (m. 467, dove si trova un affresco segnalato da un cartello) e Ca’ Iada (m. 430), anch’essa legata ad una leggenda che ha come protagoniste le streghe. Anzi, una strega, questa volta, che si presentò, celata sotto le mentite spoglie di una mite vecchietta, ad una contadina, intenta ai lavori dei campi, nel cuore del giorno, cosa del tutto inconsueta. Fu forse per questo che la contadina non nutrì alcun sospetto, nonostante non avesse mai visto quella vecchietta, che, oltretutto, gentilmente si offrì di darle una mano. Non solo, ma quando la contadina fece il gesto di tergersi il sudore, perché, quel giorno, il sole batteva forte, le chiese se avesse sete e, con un fischio, fece comparire una capra, che munse.
La contadina, assetata, accolse di buon grado l’offerta di quel latte, senza prestare la dovuta attenzione alla singolarità della capra, il cui pelo, di un rosso vivo, era tanto lungo da toccare terra. Pagò cara la sua leggerezza, perché si trattava di un latte stregato, che la rese inconsapevole anello della catena del male: non appena toccò il suo bambino, infatti, questi si trasformò in un gatto, fra la disperazione della madre e la costernazione degli abitanti della contrada, che invano cercarono la vecchietta. Di lei e della capra malefica non rimase traccia.
Un gatto, dunque: animale misterioso, sornione, spesso, soprattutto se nero, immaginato come manifestazione del male. Una storia, narrata da Lucia Amonini, di Luviera, ha come protagonista proprio un misterioso gatto nero. Luviera è una contrada collocata nello splendido terrazzo di prati che si trova sul limite occidentale del versante montuoso di Castello. La si raggiunge, dal centro, imboccando la strada asfaltata segnalata, che procede verso ovest, ed ignorando la deviazione a sinistra per il maggengo di Piàzzola. Dopo circa due chilometri, raggiungiamo le case della frazione, sul cui limite orientale è collocata la bella chiesetta secentesca di San Francesco.
Ebbene, proprio in questo luogo gentile ed ameno, raccontava la signora Lucia, un giorno comparve il gatto sinistro: nessuno sapeva di chi fosse, né donde fosse venuto. Non si lasciava prendere, ed aveva l’inquietante abitudine di avvicinarsi alle culle dei neonati, provocandone il pianto ininterrotto, che i genitori non riuscivano a placare. Fra questi neonati vi era la stessa Lucia, ed anche lei, dopo che il gatto era comparso nei pressi della sua culla, cominciò a piangere a dirotto, senza smettere: così le aveva raccontato, anni dopo, il nonno. I genitori, disperati, la portarono, allora, dal parroco, perché ricevesse la benedizione. Questa parve funzionare, perché il pianto cessò, ma, cosa singolare, la piccola cadde, poi, in un sonno innaturale, durato un giorno e mezzo.
I dintorni di Castello dell’Acqua non sono, però, solo luoghi di malefici, ma anche di santità. Di qui, infatti, passò, in un tempo che affonda nel più lontano passato, Santo Stefano, che non era stato accolto dagli abitanti dei paesi di fronte a Castello. Sui monti di Castello, invece, trovò una degna accoglienza, ed operò molti miracoli, risanando storpi e sciancati. Non si fermò, però, stabilmente qui, perché la sua meta era la cima che poi da lui prese il nome, sul versante opposto (occidentale) della valle di Arigna, vale a dire la punta di S. Stefano. Riprese, dunque, a salire, passando per il maggengo di Pòrtola, dove si fermò a riposare su un masso, prima di attraversare a volo la valle.
Sul masso rimasero impressi i segni dei suoi piedi e del suo “cazzett”, con il quale quagliava il latte donatogli dai contadini. Ed al masso rimase legata un’inquietante leggenda: quando esso sprofonderà nel terreno, il mondo finirà. Il masso è ancora là, nel cuore di una splendida pineta, ed una buca, scavata intorno ad esso, ha scongiurato la fine dei tempi. Per ora.

Dal settimanale “La Valtellina”, 19 novembre 1869, leggiamo, infine, una breve nota a metà fra la cronaca ed il pezzo di colore, redatta con malcelata vena ironica: “Nel Comune di Castello dell'Acqua, una donna che nutriva fortissimo odio ad un uomo, dal quale aveva avuto non so qual torto, in un accesso di sdegno, s'era lasciata sfuggire da bocca una frase poco beneaugurale all'indirizzo del suo avversario: - Posset crepà subit ti e i to fioeu- - L'uomo cui era diretta tale imprecazione va intisichendo; già due sui figli morirono ed un terzo, malgrado le più diligenti cure che gli si prestano, staper battere le porte eternali. Nell'imminente Concilio Ecumenico, che si accoglierà a Roma, tra le altre cose, verrà discusso anche sul modo di fugare le streghe.” Il Concilio Ecumenico di cui si parla è il Vaticano I.

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