CARTA DEL PERCORSO - ALTRE ESCURSIONI AD ALBOSAGGIA

Punti di partenza ed arrivo
Tempo necessario
Dislivello in altezza
in m.
Difficoltà (T=turistica, E=escursionistica, EE=per escursionisti esperti)
S. Salvatore-Lago di Publino-Baita dei laghi-Bivacco Pedrinelli-Passo di Publino-Alpe Piana-Forno-Crocetta-Teggia-S. Salvatore
9h
1100
E
SINTESI. Stacchiamoci dalla tangenziale di Sondrio all'altezza dello svincolo per la via Vanoni (l'unico sulla destra per chi proviene da Milano) e, raggiunta la via, dirigiamoci verso la località Porto di Albosaggia (alla rotonda, a destra per chi proviene da Milano), attraversando su un largo ponte il fiume Adda. Invece di proseguire sulla Pedemontana Orobica, deviamo a sinistra, per il centro di Albosaggia, e ad un bivio prendiamo a destra, ignorando le indicazioni per la Moia. Oltrepassato il poderoso muraglione che sorregge la chiesa parrocchiale di S. Caterina, ci portiamo al centro, dove non saliamo alla piazzetta del municipio, ma proseguiamo, passando a sinistra della famosa torre Paribelli, con un brevissimo tratto in discesa. Ignorata la strada che scende a destra, prendiamo a sinistra, lasciando però subito la strada per prendere a destra, (cartello: San salvatore), immettendoci su una stradina asfaltata che inizia una lunga salita, passando da S. Antonio e Cantone e termina, dopo un tratto molto ripido, a S. Salvatore (m. 1311). Parchaggiamo qui e dalla piazzetta di fronta alla chiesa torniamo indietro sulla stradina sterrata, lasciandola per imboccare a destra la ripida carrozzabile con fondo in cemento che prosegue, con qualche tornante, risalendo l'ampia fascia di prati, fino al parcheggio terminale in località alla Ca', m. 1516. Qui lasciamo la pista sterrata che prosegue a sinistra: un cartello indica la partenza di un sentiero, ben segnalato, che sale in un bosco di larici, fino a sbucare in un'ampia radura nel cuore della Valle della Casera. Qui oltrepassiamo una pista sterrata e proseguiamo ancora diritti per un breve tratto in salita, fino ad un secondo cartello, in corrispondenza di un bivio, ad una quota approssimativa di 1840 metri. Qui prendimo a destra ed imbocchiamo un sentiero che procede in piano verso sud, passando appena sotto il rifugio Baita della Calchera. Superate cinque gallerie, raggiungiamo un’ampia radura, alla quale scende la valle della Biorca, con una baita. Prima di accedere ai prati, troviamo, sul terreno, la ben visibile indicazione “Publin”, con segnavia rosso-bianco-rosso, che segnala un sentierino che si stacca sulla sinistra dal sentiero fin qui percorso, e comincia a risalire, con rapidi tornantini, un ripido versante di bassa vegetazione. Poi il sentiero piega a destra e comincia la lunga traversata con qualche saliscendi e ci porta al lago di Publino (m. 2134), ad ovest (destra) del quale si trova il rifugio Amerino Caprari (m. 2118). Saliamo per il sentiero scalinato che parte dal lato meridionale del rifugio. Scendiamo, poi, alla sottostante spianata dove si trova la segnalata baita dei Laghi (m. 2093). Imbocchiamo, ora, l’evidente sentiero che effettua un traverso, nel primo tratto pianeggiante, in direzione ovest, verso il centro della valle. Ad un trivio con cartelli, lasciamo il sentiero della GVO che traversa l'alta valle e prendiamo a sinistra (indicazioni per il passo di Publino, dato ad un'ora). Il sentiero si fa via via più marcato e, dopo diversi tornanti, piega a sinistra e raggiunge un’ampia conca occupata da una ganda (nevaietti ad inizio stagione). Proseguendo verso sinistra, ci affacciamo, per un tratto, sulla più ampia conca che ospita il lago di Publino, che ora dominiamo dall’alto con un ottimo colpo d’occhio. Poi pieghiamo ancora a destra, effettuando una diagonale che passa a monte della ganda e si avvicina al crinale, che alla fine conquistiamo ad una quota approssimativa di 2420 metri. Non si tratta del vero e proprio passo di Publino, che sta più a destra. Alla nostra destra, il crinale che scende dolcemente fino al passo di Publino, per poi risalire fino ad una modesta ed arrotondata cima sormontata da un’antenna. Seguendo il crinale verso est, riconosciamo il cono del Corno Stella. Il sentiero, marcato, scende al passo di Publino (m. 2368), che però nela discesa in Valle del Livrio propone un sentiero piuttosto esposto. Poco sotto il passo, l’accogliente e simpatico bivacco Pedrinelli, a 2353 metri. allestito dal gruppo “Amici Escursionisti Sforzatica Dalmine”. Conviene tornare per la medesima via di salita e non scendere per il ripido versante del passo di Publino. Il ritorno può seguire l'itinerario di salita, oippure sfruttare il sentiero di fondovalle. In questo secondo caso, tornati al trivio con cartelli, prendiamo a sinistra, scendendo diretti verso nord, poco a destra del ramo centrale del torrente Livrio, tagliamo la pista della decauville ed a quota 1800 metri circa passiamo dal lato destro a quello sinistro della valle, guadando il torrente. proseguendo su sentiero abbastanza marcato ma sposco (qualche segnavia), raggiungiamo il fondo della valle e ci immettiamo in una pista. Seguendola, tocchiamo le baite dell’alpe Piana (m. 1500) e le baite della località Forno (m. 1300), per poi superare, su un ponte in legno, il torrente Livrio, portandoci alla sua destra. Proseguiamo all’ombra di una bella pineta e ci portiamo alla località Crocetta (m. 1216). Dobbiamo poi riguadagnare un centinaio di metri. Alla Teggia siamo risaliti a quota 1250, ma poi c’è una nuova discesa. La successiva salita ci riporta prati a valle della chiesa di S. Salvatore.

Il passo di Publino, sul fondo della Val del Livrio (val de lìri) rappresenta uno dei valichi più facili sul crinale orobico. L'escursione ai laghi di Publino, al rifugio Caprari ed al passo rappresenta il più frequente itinerario praticato da coloro che si addentrano in questa valle. Laghi, rifugio e passo sono in territorio del comune di Caiolo, ma l'itinerario escursionistico parte dai maggenghi sopra Albosaggia, cioè dal versante orientale della valle, perché il versante opposto non è praticabile.
Questa escursione si arricchisce di un ulteriore elemento di interesse e tocca luoghi assai frequentati già nell'Ottocento, come dimostrano gli approfondimenti riportati in fondo alla pagina.
Il 13 settembre 1998 il gruppo “Amici Escursionisti Sforzatica Dalmine”, infatti, ha recuperato a bivacco una casermetta costruita durante la Prima Guerra Mondiale nel quadro dei lavori di fortificazione del fronte orobico che costituirono la cosiddetta “Linea Cadorna”. Il generale Cadorna temeva che le truppe austro-ungariche violassero la neutralità svizzera e quindi aggirassero i fronti dello Stelvio e dell’Adamello, calando dalla Valle di Poschiavo, invadendo la Valtellina e proseguendo fino alle grandi città della pianura lombarda. Per evitare questa disastrosa possibilità allestì questa terza linea sul crinale orobico, linea che, per fortuna, non dovette mai essere utilizzata.
Appena sotto il passo di Publino, che congiunge la Valle del Livrio alla Val Sambuzza (alta Val Brembana), si trova dunque, sul versante bergamasco, l’ex-casermetta , che ora è diventata un utilissimo bivacco, un punto di appoggio sempre aperto ed accogliente, su cui contare per salire al vicino pizzo di Zerna (m. 2572) o per effettuare traversate di grande respiro, come quella da Albosaggia (il termine viene spesso ricondotto all’etico “alpes agia”, cioè “alpe sacra”; probabilmente, però, deriva da una gens romana, l’Albutia) a Carona (il centro della Val Brembana, intendiamo ovviamente, non l’omonimo paesino delle Orobie Valtellinesi ad est di castello dell’Acqua).
La salita al bivacco dal versante valtellinese è piuttosto lunga, ma ha un motivo di grande suggestione storica, perché ci permette di percorrere la cosiddetta “Via Cavallera”, l’antica via utilizzata, fin dalla fine del Cinquecento, dai mercanti che, per evitare le gabelle che si pagavano al passo di San Marco sulla Via Priula appena aperta, salivano al passo di Publino dalla bergamasca per poi scendere in Valtellina e proseguire per i Grigioni. Una via che, fino al periodo fra le due guerre mondiali, veniva percorsa anche da mercanti valtellinesi che trasportavano sul dorso di cavalli (da qui la sua denominazione) le forme di Bitto destinate ad essere vendute sul mercato di Branzi. Veniva, infine, utilizzata per portare viveri ai cavatori che lavoravano all'estrazione ed alla prima cottura del ferro in Valmadre.

La lunga escursione parte da San Salvatore e passa per (o presso) il rifugio Caprari. Essa riveste anche un motivo di grande suggestione storica, perché, se condotta dal sentiero di fondovalle, ci permette di percorrere la cosiddetta “Via Cavallera”, l’antica via utilizzata, fin dalla fine del Cinquecento, dai mercanti che, per evitare le gabelle che si pagavano al passo di San Marco sulla Via Priula appena aperta, salivano al passo di Publino dalla bergamasca per poi scendere in Valtellina e proseguire per i Grigioni. Una via che, fino al periodo fra le due guerre mondiali, veniva percorsa anche da mercanti valtellinesi che trasportavano sul dorso di cavalli (da qui la sua denominazione) le forme di Bitto destinate ad essere vendute sul mercato di Branzi. Veniva, infine, utilizzata per portare viveri ai cavatori che lavoravano all'estrazione ed alla prima cottura del ferro in Valmadre.
Bene. Senza cavallo né mercanzie, ma con zaino e grande voglia di scoprire nuovi scorci di grande suggestione e bellezza, mettiamoci in cammino dal maggengo di San Salvatore. Ci portiamo fin qui in automobile salendo da Albosaggia (cui si sale lasciando la ss. 38 dello Stelvio, al primo svincolo a destra – per chi viene da Milano – o all’ultimo svincolo a sinistra della tangenziale di Sondrio, svoltando poi a destra – o sinistra -, attraversando il ponte sull’Adda, piegando subito a sinistra e cominciando a salire fino al centro, che si raggiunge dopo aver ignorato la deviazione a sinistra per la Moia). Raggiunto il centro, non saliamo alla piazzetta del municipio, ma proseguiamo, passando a sinistra della famosa torre Paribelli, con un brevissimo tratto in discesa. Ignorata la strada che scende a destra, prendiamo a sinistra, lasciando però subito la strada per prendere a destra, (cartello: San salvatore), immettendoci su una stradina asfaltata. Nel primo tratto è tanto stretta che avremo l'impresisone di avere sbagliato; poi si allarga un po', ma in diversi punti la carreggiata è alquanto stretta (e talora senza parapetti). La strada porta ad un primo bivio, al quale prendiamo a sinistra, poi ad un secondo, al quale prendiamo a destra. Passiamo per S. Antonio (a 5,2 km dal centro: qui troviamo una chiesetta recentemente restaurata), e Cantone (a 7 km dal centro), dove la valle comincia ad aprirsi. L’ultimo tratto prima di S. Salvatore è molto ripido: se siamo in molti su un’automobile poco potente, può essere che questa non ce la faccia. Siamo, infine, a S. Salvatore dopo 8,3 km dal centro di Albosaggia. Attenzione: dopo l'ultima lunga rampa, con fondo in cemento, dobbiamo impegnare una stradina sterrata che prosegue diritta e porta al piazzale della bella chiesa, non proseguire sulla sinistra.
Lasciata l’automobile a S. Salvatore, perché oltre non possiamo proseguire senza autorizzazione (ma nei finesettimana estivi può essere difficile trovare spazio per parcheggiare), sostiamo per un po’ presso l’antichissima chiesetta, una delle prime in terra di Valtellina, risalente, forse, al VI secolo, quando ancora in Valle del Livrio era presente il paganesimo e quando i cristiani del versante bergamasco venivano fin qui per seppellire i loro morti, data la prevalenza del paganesimo nelle loro zone. Di fronte alla chiesa si trova anche il rifugio Saffratti. Dobbiamo ora percorrere tutta la Valle del Livrio (val del lìri), fino al passo di Publino, al centro della sua testata. Il nome della valle è probabilmente da una radice assai antica, forse ligure, con riferimento all'acqua ed ai corsi d'acqua. Possiamo risalire la valle per due vie (che, ovviamente, possono essere combinate ad anello di andata e ritorno). La prima, via alta, passa per il rifugio Caprari al lago di Publino, la seconda, invece, la via dei mercanti o Via Cavallara, si tiene sul fondovalle, fino al gradino principale, che risale fino ai piedi del passo. Scegliamo la prima per salire, la seconda per scendere.
Tornati indietro sulla stradina sterrata, prendiamo a destra, seguendo la ripida carrozzabile con fondo in cemento che prosegue, con qualche tornante, risalendo l'ampia fascia di prati, fino al parcheggio terminale in località alla Ca', m. 1516. Qui lasciamo la pista sterrata che prosegue a sinistra: un cartello indica la partenza di un sentiero, ben segnalato, che sale nella magica atmosfera di un bellissimo bosco di larici, fino a sbucare in un'ampia radura nel cuore della Valle della Casera. Qui oltrepassiamo una pista sterrata (che si stacca dalla pista principale che dalla Ca’ sale fino agli alpeggi sotto il pizzo Meriggio) e proseguiamo ancora diritti per un breve tratto in salita, fino ad un secondo cartello, in corrispondenza di un bivio, ad una quota approssimativa di 1830 metri. I cartelli indicano che proseguendo diritti nella salita si raggiunge il bellissimo lago della Casera (dato a 30 minuti di cammino) e, poco sopra, il rifugio Baita Lago della Casera. Piegando a destra, invece, si imbocca il sentiero pianeggiante che segue il canale di gronda della Sondel, alla volta del rifugio Caprari (dato a 2 ore e 20 di cammino).
Prima di proseguire, guardiamo in direzione nord: splendido è il colpo d’occhio sui Corni Bruciati e sul Monte Disgrazia e, alla loro destra, sull’intera testata della Valmalenco.
Prendiamo, dunque, a destra e, dopo una decina di minuti, raggiungiamo il bivacco Baita Calchera (m. 1830), sempre aperto, un ottimo punto di appoggio per una pausa bucolica o forzata in una escursione. Il sentiero prosegue per un lungo tratto con andamento pianeggiante, mentre, alla nostra destra, si mostra la costiera occidentale della Valle del Livrio, che propone, da destra, pizzo Pidocchio (m. 2329), il monte Vespolo (m. 2385), la cima Pizzinversa (m. 2419), la cima Sasso Chiaro (m. 2395), il pizzo Cerech (m. 2412) e la cima Tonale (m. 2544), oltre la quale è facilmente riconoscibile la larga sella del passo omonimo, che congiunge Valle del Livrio e Val Cervia. Sull’angolo di sud-ovest della valle, si distingue l’elegante cono del Corno Stella (m. 2620), che si distingue per la regolarità della forma (che non richiama un corno, come incece accade per la cima alla sua sinistra), un cono dalla larga base e dalla cima arrotondata; lo si distingue soprattutto per l'ampia e singolare fascia di rocce chiare che si distende ai suoi piedi. Proseguiamo, con lo sguardo, verso sinistra: seguono due cime minori e poco pronunciate, ed un intaglio, che parrebbe essere la nostra meta, il passo di Publino; così non è, per, perché il passo è ancora più a sinistra (est).
Dopo aver attraversato una prima galleria, raggiungiamo il ripido solco della valle di Camp Cervè, che il sentiero, con tratti protetti, supera anche grazie ad alcune gallerie scavate nella roccia. Le prime due non offrono problemi, ma la terza, un po’ più lunga, ci permette di apprezzare l’utilità di una torcia, che non dovrebbe mai mancare nello zaino di un escursionista. Dopo una quarta ed ultima galleria, raggiungiamo un’ampia radura, alla quale scende la valle della Biorca (o Biolca, dal mantovano “biolca”, bue, oppure dal dialettale “biork”, forca), con una baita: in basso distinguiamo la decauville che collega lo sbarramento del lago di Publino con quello di Venina, nella valle omonima ad est della Valle del Livrio. Prima di accedere ai prati, troviamo, sul terreno, la ben visibile indicazione “Publin”, con segnavia rosso-bianco-rosso, che segnala un sentierino che si stacca sulla sinistra dal sentiero fin qui percorso, e comincia a risalire, con rapidi tornantini, un ripido versante di bassa vegetazione. Poi il sentiero piega a destra e comincia la lunga traversata che ci condurrà al lago di Publino. La testata della valle di allarga, ed ora vediamo il passo di Publino, posto sul suo più basso intaglio; alla sua sinistra si distingue un lungo crinale che culmina con la cima del pizzo di Zerna (m. 2512). Alle nostre spalle, invece, ricompaiono i Corni Bruciati, il monte Disgrazia e la testata della Valmalenco.
Proseguendo nel cammino, con qualche saliscendi, incontriamo un masso con il doppio segnavia rosso-bianco-rosso e rosso-giallo-rosso (quello più antico) e con le frecce per il rifugio Caprari e S. Salvatore, poi due baite ed infine la baita Scoltador (m. 2048, segnalata da un cartello), alle spalle della quale parte, sulla sinistra, il sentiero che sale all’omonimo passo (m. 2454), dal quale si scende in Val Venina, seguendo la Gran Via delle Orobie. Pochi sforzi ancora, e siamo alle modeste balze che precedono il lago di Publino (m. 2134), ad ovest (destra) del quale si trova il rifugio Amerino Caprari (m. 2118), nel territorio del comune di Caiolo. Ora vediamo anche la parte orientale della testata della valle, che ha la sua massima elevazione nel monte Masoni (m. 2663), che si specchia nelle acque del lago, poco a sinistra del pizzo di Zerna.
Nel secondo dopoguerra venne costruito lo sbarramento artificiale del lago, che assunse la portata di 5 milioni di metri cubi, e la condotta forzata che alimenta la centrale di Publino, costruita fra il 1949 ed il 1951 dalla Società AFL-Falck.
Torniamo, dopo questo doveroso omaggio di informazioni, al racconto dell'escursione. Siamo in cammino da circa tre ore e mezza, ed una pausa, prima dell’ultimo strappo, si impone. Ritemprati, riprendiamo poi il cammino, salendo per il sentiero scalinato che parte dal lato meridionale del rifugio. Scendiamo, poi, alla sottostante spianata dove si trova la segnalata baita dei Laghi (m. 2093): un cartello dà il passo Scoltador ad un’ora e mezza di cammino ed il passo Tonale a due ore, mentre non fa menzione del passo di Publino. Nessun timore, però: non siamo fuori strada. Imbocchiamo, ora, l’evidente sentiero che effettua un traverso, nel primo tratto pianeggiante, in direzione ovest, verso il centro della valle. Prestando attenzione vediamo, ad un certo punto, un sentiero che si stacca dal nostro sulla destra, scendendo verso il fondovalle: è quello che potremmo scegliere per il ritorno (si tratta del già citato sentiero storico di accesso all'alta valle, oggi, peraltro, molto sporco, soprattutto nella parte bassa). Proseguendo circondati da ontani, pochi metri più avanti troviamo un bivio. Un tempo i cartelli segnalavano le direzioni del quadrivio: alla nostra destra, verso il fondovalle, il sentiero che porta alla località Crocetta in un’ora e 50 minuti ed a S. Salvatore in 2 ore e 40 minuti. Diritto, il sentiero che prosegue verso la casera del Publino, data a 30 minuti, ed il passo del Tonale, dato ad un’ora e 20 minuti. Il sentiero di sinistra, invece, porta con facile salita al crinale che si affaccia sulla bergamasca (passo di Publino, dato ad un'ora); appena sotto questo crinale, teniamone conto in caso di necessità, c'è l'accogliente bivacco Pedrinelli (m. 2353). I cartelli poi sono stati divelti. E successivamente anche portati via. Ora (luglio 2013), più nulla. Peccato.

Vediamo, dunque, come salire al passo. Al quadrivio prendiamo a sinistra. La traccia non è molto marcata, e neppure segnalata, ma è visibile, e comincia a risalire, con diversi tornanti, lungo un ampio dosso, dal quale possiamo scorgere, alla nostra destra, in basso, una bella pozza d’acqua alimentata da un nevaietto, presso la quale è posto anche un tavolo con due panche. Il passo non si vede, resta nascosto, sulla destra, dietro un dosso. Ed in realtà non lo vedremo più. Infatti il sentiero non porta al passo.
Ma come, direte voi? E dove stiamo andando? Questo sentiero, che si fa più marcato man mano che sale, è la già citata Via Cavallara, la tranquilla via di accesso all’alta Val Seriana, che conduce al crinale in un punto più a monte e ad est rispetto al passo. Al passo vero e proprio (m. 2368) sale un secondo sentiero, che però, nell’ultimo tratto deve superare un ripido canalino, destreggiandosi fra rocce insidiose, con punti esposti e non protetti: non vale la pena di esporsi a rischi e di percorrerlo. Comunque lo si trova raggiungendo la già citata pozza, cominciando a salire a vista in direzione sul, fino ai piedi del canalino che adduce al passo. Torniamo a noi: dopo diversi tornanti, il sentiero piega a sinistra e raggiunge un’ampia conca occupata da una ganda (nevaietti ad inizio stagione). Proseguendo verso sinistra, ci affacciamo, per un tratto, sulla più ampia conca che ospita il lago di Publino, che ora dominiamo dall’alto con un ottimo colpo d’occhio. Dominiamo anche la costiera orientale della valle, che la separa dalla Val Venina, e sulla quale si distinguono, da destra (sud), le cime dello Scoltador (m. 2462 e 2573), il passo dello Scoltador (m. 2454), il pizzo Baitelli (m. 2496), il pizzo di Sulghera (m. 2412), le cime Biorche (m. 2456) ed il pizzo Campaggio (m. 2502).
Poi pieghiamo ancora a destra, effettuando una diagonale che passa a monte della ganda e si avvicina al crinale, che alla fine conquistiamo ad una quota approssimativa di 2420 metri. Qui troviamo un cartello del CAI di Bergamo che dà Carona a due ore di cammino. Si apre ora, davanti a noi, lo scenario solitario e suggestivo dell’alta Val Sambuzza, laterale settentrionale dell’alta Val Brembana. Sotto di noi, isolato, il bivacco. Più in basso, il laghetto di Varobbio. Alla nostra sinistra, lo smilzo ed erboso versante meridionale del pizzo di Zerna, sormontato da una visibile croce, cui sale una traccia di sentiero. Alla nostra destra, il crinale che scende dolcemente fino al passo di Publino, per poi risalire fino ad una modesta ed arrotondata cima sormontata da un’antenna. Seguendo il crinale verso est, riconosciamo il cono del Corno Stella.
Il sentiero, marcato, scende al passo (m. 2368), dove troviamo un cartello che, saggiamente, ci indirizza alla valle del Livrio (dando S. Salvatore a 4 ore) per il sentiero che abbiamo disceso, e non per quello che scende ripido ed esposto dal passo. Poco sotto il passo, l’accogliente e simpatico bivacco, a 2353 metri. Dentro, un letto a castello con 8-10 posti, candele per la notte, un diario, un tavolo, una stufetta, un po’ di legna ed un fornelletto a gas con moka. Siamo in cammino da circa 5 ore, ed abbiamo superato un dislivello approssimativo in altezza di 1100 metri.
Bene, raccontiamo, ora, il ritorno per la via del fondovalle. Riguadagnamo il crinale, seguendo segnavia rosso-bianco-rossi, che ci accompagnano fino al punto in cui il sentiero passa sul versante valtellinese. Ridiscendiamo al quadrivio, dove la Via Cavallera incrocia la Gran Via delle Orobie, e, invece di prendere a destra per il rifugio Caprari, cominciamo a scendere lungo il sentiero, segnalato da segnavia bianco-rossi e rosso-giallo-rossi.
Ci infiliamo nel sentierino che scende, deciso, con rapide svolte, a sinistra di un grande corpo franoso. Dopo alcuni tornanti, pieghiamo a sinistra, superando un primo torrentello e poi il torrente Livrio (metiamo in conto di bagnarci i piedi). La successiva discesa avviene nella boscaglia, e ci porta ad incrociare la decauville che proviene dall’edificio della Sondel, visibile alla nostra destra, e prosegue verso la Val Cervia. Il sentiero la taglia e prosegue diritto nella discesa. E' molto sporco e faticoso, anche se non si perde: non vediamo dove mettiamo i piedi, e, cpmplice anche qualche buca e sasso scivoloso, il rischio di ruzzoloni o di storte è elevato. Finalmente, usciamo dal bosco in corrispondenza di una baita solitaria, sul limite dell'alpe Piana (m. 1500). memorizziamo questo punto: nel caso dovessimo salire da qui, l'imbocco del sentiero non è ben visibile, si trova a sinistra di un cartello che avverte del pericolo di piene improvvise (ci aiutano anche un paio di massi con segnavia bianco-rosso). Attraversata una radura occupata da "lavazz" e superato un singolarissimo corno roccioso, raggiungiamo la sterrata di fondovalle (chiusa al traffico dei mezzi non autorizzati), sulla quale, dopo un primo strappo in salita, prosegue una tranquilla ed un po’ monotona discesa, con lunghi tratti in piano.

Tocchiamo le baite dell’alpe Piana (m. 1500) e le baite della località Forno (m. 1300), per poi superare, su un ponte in legno, il torrente Livrio, portandoci alla sua destra. Proseguiamo all’ombra di una bella pineta e ci portiamo alla località Crocetta (m. 1216). Qui ci accorgiamo di essere più bassi del punto di arrivo (S. Salvatore, a 1311 metri), e quindi di dover faticosamente riguadagnare un centinaio di metri (qualche saliscendi, infatti, arrotonda un po’ la quota). Alla Teggia ci accorgiamo di essere risaliti a quota 1250, ma poi c’è una nuova discesa che dà un po’ sui nervi. Ma la tenacia è premiata, ed alla fine ecco gli splendidi prati a valle della chiesa di S. Salvatore, che saluta il nostro ritorno. L'intera escursione richiede circa 9 ore di cammino.

GALLERIA DI IMMAGINI

CARTA DEL PERCORSO sulla base della Swisstopo, che ne detiene il Copyright. Ho aggiunto alla carta alcuni toponimi ed una traccia rossa continua (carrozzabili, piste) o puntinata (mulattiere, sentieri).

APPROFONDIMENTI

IL NATURALISTA PAOLO PERO AL LAGO DI PUBLINO

Vale la pena di leggere come si presentò il lago sul finire dell'ottocento allo sguardo del dott. Paolo Pero, professore di storia naturale al Liceo Ginnasio "G. Piazzi" di Sondrio, che così scrive, in "I laghi alpini valtellinesi" (Padova, 1894): "Presso l'estremità superiore della valle del Livrio, chiusa a sud dalla scoscesa cerchia montuosa costituita dal pizzo Zerna (m. 2567) e dal monte Masoni (m. 2631), vi sono due graziosi laghetti, chiamati Laghi del Publino, dai quali hanno origine le acque del torrente Livrio. Essi sono circondati intorno da roccia in posto e separati fra loro da depositi d'origine secondaria, in parte glaciali, in parte franosi, che derivano dallo sfacelo delle creste montuos, che s'innalzano a E., a S. e a O. di questi laghi. Il più piccolo di essi, posto alquanto più verso S., scarica le sue acque nel secondo, attraverso il detrito sopra menzionato. Si scorge quindi come in orogine dovevano formare un lago solo: la loro divisione venne operata in seguito dal lavoro e trasporto di materiali compiuto dalle forze esogene. Il maggiore di questi due laghi, pertanto, il solo degno di particolar studio, è limitato a N. dalla roccia in posto, che sorge in forma di ampi cocuzzoli arrotondati, di cui il versante minore, interno, si continua colle sponde del lago, ed il versante maggiore, esterno, s'innalza quasi perpendicolarmente sulla valle, per l'altezza di circa 200 metri. Questo è dunque un lago orografico. La roccia appartiene a quella speciale formazione di Gneis detto di Suretta o di Spluga, dalla località della valle del Liro, dove specialmente si sviluppa. Esso è un gneis biancheggiante, a struttura granitica, dai grandi cristalli di feldspato mescolati con frammenti di quarzo e con poche pagliette di mica... Il lago presenta una bella forma ovale la cui maggior lunghezza va da S. a N. Le sponde sono piuttosto ripide, eccettuata quella verso S. che è formata dal detrito trasportatovi continuamente dal ripido versante montuoso che s'innalza a S.E. Verso O. la sponda si abbassa pure notevolmente, per piccolo tratto, ed ivi si apre l'emissario, che, dopo breve percorso, precipita per lo scosceso dirupo del versante esterno del lago. Le sponde sommerse, che mantengono la stessa inclinazione della parte esterna, sono coperte di ciottoli e di poco limo, sul quale trovasi piuttosto scarso il feltro organico. La sua altitudine è di 2104 m. e la superficie di 84.000 m.q. Le sue acque hanno un colore verde oscuro, non ben rappresentato da nessun numero della scala Forel; il più rappresentativo sarebbe il numero V. La temperatura interna era di 10 gradi centigradi e l'esterna di 12,3 gradi centigradi alle ore 10 e mezza del giorno 19 luglio 1893, essendo il cielo assai nuvoloso."

IL RACCONTO DELL'ESCURSIONE ALL'ALPE PUBLINO GUIDA ALLA VALTELLINA DEL CAI DI SONDRIO

Prima di descrivere la salita al crinale, vediamo come la Guida alla Valtellina, edita a cura del CAI sez. valtellinese nel 1884, racconta la salita fin qui per la diversa via del fondovalle: "“Da Albosaggia, e precisamente dal ponte sul Torchione nella contrada di Piazza parte una via mulattiera che attraversa da prima un castagneto, poi boschi di betulla, e dopo circa mezz'ora di cammino conduce a una chiesa dedicata a S. Antonio. Pochi minuti ancora e poi la strada s' addentra in lenta salita nella Valle del Livrio, mantenendosi sulla pendice orientale, lungo una zona di monte mesta e selvaggia, che i nativi chiamano, con nome forse derivato dalle antiche tradizioni religiose dell'epoca romana, i Valmani. Il nome di Livrio dato al fiume o alla Valle da molti scrittori e nelle carte geografiche, non è antico e non traduce bene quello con cui la designano i terrieri. Essi chiamano, nel natio idioma, Liri il torrente, e questo nome avrebbe potuto essere accolto senza variazione di sorta, molto più che è uno dei tanti che la Valtellina ha comuni coll'antica Etruria, col Lazio e la Campania.
Oltrepassati gli ombrosi casolari di Cantone si arriva al Forno, che deve il suo nome ad antiche fornaci di ferro ora inoperose, grosso maggengo dove si può trovare la notte modesto ricovero. Risalendo ancora la valle si giunge title' Alpe Piana (1495 m.), a circa tre ore e mezzo da Sondrio. Fin qui s'è percorsa una strada in parte costruita a nuovo ed in parte riparata pochi anni or sono affine di farvi passare la soenda (specie di condotto formato di travi, e inclinato così, che, una volta bagnato, possono lungh'esso scivolare altre travi) per trasportare a Cajolo le bore (tronchi d'albero segati in pezzi) ottenute dal taglio dei boschi che erano nella valle. Il taglio si fece però solo interpolatamente, o i monti sono ancora rivestiti di boschi, quantunque rari e privi di quelle piante secolari che prima vi erano in gran numero, come ci manifestano i tronchi di quelle tagliato. Anche dopo l'Alpe Piana il sentiero corre per una mezz'ora nel tondo della valle sulla sponda sinistra del torrente, poi si eleva tortuosamente e ripidamente fino a un'ultima alpe detta del Publino (2110 m.), che si stende sul letto di un antico stagno, fra pareti rocciose."

BRUNO GALLI VALERIO IN VALLE DEL LIVRIO

È interessante anche leggere la relazione dell’escursione ai laghi del Publino effettuata da Bruno Galli Valerio, alpinista e naturalista che molto amò queste montagne, il 23 luglio 1909: “Certi moralisti sono come certe donne che, dopo di averne fatte di tutti colori quando erano giovani, diventano nella loro vecchiaia, grandi maestre di morale. E' il caso del brav'uomo che m'accompagna stamattina sulla strada di Val del Liri e che, con lunghi discorsi, vuol dimostrarmi che l'uomo muore perchè beve e si diverte colle donne. Ma a Zappello, per essere coerente colla sua morale, si butta su una giovane contadina per abbracciarla un po' troppo boccaccescamente, ma quella si difende bene e lo manda a ruzzolar per terra. Questo episodio mi persuade sempre più che dei grandi moralisti bisogna diffidare.
La stradicciuola, corre fra i larici, come in un parco. Buttando lo sguardo indietro, si vedon sul cielo azzuro Disgrazia e Corni Bruciati, sostituiti subito dopo da Roseg e Bernina.
Tutt'intorno vi sono belle felci e spighe gialle di digitale. Qua e là, cespugli di Sanguisorba dodecandra.
I lamponi abbondano: poveri frutti che, a causa del loro nome dialettale “
Mani", han fatto scrivere allo storico Quadrio che queste valli eran dedicate agli "Dei mani. Se così si trovano le etimologie, c'è da dubitare dei filologhi come dei moralisti. Al di là della Costa, i boschi di Citiso sono in piena fioritura: enormi grappoli gialli, mandan nell'aria un profumo penetrante. Le creste del Publino appaiono nere, là in fondo alla valle, sopra l'altipiano da cui cade una cascata. Sono le dieci e quaranta quando arrivo alla baita del Publino. Nuvole involgono la cima del Corno Stella. Attraverso il piano paludoso, seguendo un sentiero che fiancheggia un laghetto, raggiungo i due grandi laghi del Publino. Un leggero vento ne increspa le acque limpidissime.
Sulle rive di uno dei laghi, c'è ancora molta neve. Tutt'intorno, il terreno è stellato di soldanelle. Ci si direbbe in primavera. E' un paesaggio di una malinconia infinita, che meriterebbe un pittore. Ma i pittori della montagna son diventati rari. Quelli che se ne occupano lo fanno con colori impossiili e con allegorie incomprensibili. Mi ricordano una povera pazza che dipingeva laghi di un rosso infuocato, montagne gialle e rosse e mi diceva che lei sola vedeva il colore reale dell'acqua e delle montagne."
(Bruno Galli Valerio, "Punte e Passi", a cura di Luisa Angelici ed Antonio Boscacci, Sondrio, 1998).

BRUNO GALLI-VALERIO IN CIMA AL CORNO STELLA (PRIMA ASCENSIONE PER LA PARETE NORD)

11 agosto 1910

"Alle quattro e venti del mattino, il treno da Sondrio a Colico ci deposita a S. Pietro. Nella pallida luce del mattino, 1'Adda scorre tranquilla fra i boschi. Seguendo la strada, ci portiamo a Cedrasco e di la, cominciamo la salita sul sentiero della Val Cervia. Attraversiamo bellissimi boschi di abeti, dove alberi enormi giacciono al suolo, abbattuti dal ciclone del mese di luglio. Una cappelletta, di un effetto artistico, si erge vicino al pascolo da cui si domina l'anfiteatro della Valle Spluga. Qualche istante dopo, it sentiero ridiscende per grandi boschi e ci porta alle rive del fiume. Un ponticello, da cui si ha .una bella vista sul Disgrazia, ci porta sulla sinistra della valle. In fondo, si innalza davanti a noi, sopra una piccola vedretta la parete grigia, a picco del Corno Stella. All'alpe Cervo, dove arriviamo alle dieci del mattino, i contadini ci guardano meravigliati quando diciamo loro che andiamo a tentare l'ascensione del Corno Stella per la parete davanti a noi.
- Non riuscirete mai, dicono, vi ammazzerete. - Alziamo le spalle, perché in simili casi, è inutile discutere. Puntiamo il canocchiale sulla parete e formulo al mio compagno R. Rossi, il piano d'attacco: Risalire la vedretta e, arrivati all'altezza dello sperone che sporge dalla parete nella vedretta, attaccare la roccia. Viene accettato il mio piano, anche se l'impresa non si presenta facilissima. Tagliamo per i prati e passiamo di nuovo sulla destra della valle. La, scopro un bel tappeto di Gentiana pannonica, dalle belle corolle purpuree punteggiate di violetto. Mai ne ho viste in altro luogo. Risalendo gande, ci portiamo facilmente alla vedretta (è mezzogiorno). E' ripidissima e dobbiamo risalirla scalinando nel ghiaccio e nella neve dura che la copre qui e là. Arrivati allo sperone, ci troviamo di colpo in presenza di roccie ripidissime e liscissime, formate da quarzo quasi puro. Non vi sono appigli. Per poter arrampicare, dobbiamo fare aderenza con la pelle delle mani e coi ginocchi. Ci aiutiamo l'un l'altro colle spalle per superare le parti difficili dove non teniamo quasi niente. Sotto di noi, la parete cade a picco sulla vedretta. D'un tratto, arriviamo sotto una piodessa alta e ripidissima: impossibile superarla. Allora ci portiamo un po' sulla nostra sinistra per tentare di scavalcar la cresta formata su un lato della piodessa. Affondo la picozza in una fenditura della roccia per permettere al mio compagno di appoggiarvi ii piede, poi aiutandolo colle spalle, lo spingo in alto. Dopo molti sforzi, il Rossi può con una mano toccare la cresta e avendo trovato un appoggio per l'altro piede, riesce a passare dall'altra parte. Passo anch'io aiutato dalla corda. Davanti a noi abbiamo da scalare solo roccie facili e alle due e venti, tocchiamo la cima. Abbiamo cosi dimostrato che possibile scalare il Corno Stella dalla parte della Val Cervia, la sola giudicata inaccessibile. E' una "scalata" del più grande interesse, ma la consiglio solo agli alpinisti molto sicuri di se stessi. Il tempo è cosi bello che possiamo gioire interamente dello splendido panorama dal Corno Stella. Tutta la catena delle Alpi dal Monte Rosa e dal Cervino all'Ortler brilla nella luce del sole. E tutte queste time, coperte di neve e di ghiaccio, contrastano col verde delle pianure e delle valli e l'azzurro dei laghi. Una lunga fila di contadini, uomini e donne, sale alla cima per la facile strada di Foppolo. Le donne hanno abiti di tutti i colori dell'arcobaleno, gli uomini portano fiaschi (in italiano nel testo, ndc) e bottiglie di vino. Mangiano e presto l'aria risuona delle loro risa e delle loro grida. Il momento di partire è venuto. Lungo la cresta nord, scendiamo alle gande e ai pascoli del Publino e di là, prendiamo il sentiero che scende nella Val del Liri.
"

(Bruno Galli Valerio, "Punte e Passi", a cura di Luisa Angelici ed Antonio Boscacci, Sondrio, 1998).

ESCURSIONE AL CORNO STELLA DEL 28 AGOSTO 1873

CARLO BONADEI (Bollettino del C.A.I. 1875)

SALITA AL CORNO STELLA (m. 2800)

Fatta colazione in Sondrio all'Albergo della Posta, verso le ore 11 antimeridiane del giorno 28 montammo in carrozza e ci dirigemmo ad Albosaggia, dardeggiati da un sole che nonostante la stagione inoltrata non cessava di essere sole di agosto. Traversata la pianura, passato il ponte sull'Adda e percorsa la comoda e nuova via che serpeggia sui fianchi del monte fino alla chiesa di Albosaggia, ivi smontammo, e, trovati quattro muli vi caricammo sopra tutto i1 nostro bagaglio, compresi i viveri che la Direzione del Club aveva curato di predisporre, e tosto ci mettemmo in cammino.
Guidava la compagnia e precedeva in testa la marcia il Presidente della Sezione Sondriese, commendatore senatore Torelli, e dietro a lui veniva la comitiva composta in massima parte di nobili napoletani che avevano preferito l'ascesa allo Stella a quella di Scerscen. Essi erano i seguenti signori: Altieri cavaliere Gabriele, De Monte cavaliere Giovanni, Riccio cavaliere Luigi, Balsamo cavaliere Giuseppe, Leone ingegnere Vincenzo, Vito Alfonso, il duca di Saponara, il principe Asian d'Abro; ai quali aggiungonsi il marchese Cigalini Rosales, di Como; l'ingegnere Bruni Aristide, di Milano; il professore Carlo Allegri, di Venezia; il generale conte Di Buronzo, piemontese, infine il cavaliere Giuseppe Cetti, vicepresidente della Sezione Valtellinese, ed il sottoscritto segretario della medesima. Seguivano, oltre i mulattieri, tre altri robusti giovanotti del paese per il servizio della comitiva. Chi faceva gli onori di casa era il commendatore Torelli; chi governava la spedizione in ogni altro rispetto era il cavaliere Cetti, che, come vedremo appresso, fu proclamato sul campo la Provvidenza del corpo spedizionario.
Prendemmo via per la piaggia diserta, cioè per un sentiero non disagevole che accede alla valle del Liri fra boschetti e lande incolte, e tratto tratto tocca qualche casale, i cui abitanti osservavano con un sorriso di stupore la strana compagnia dagli abiti signorili e dai bastoni di portatori di carbone.
Si arriva a Sant'Antonio, chiesa posta sopra un ridosso, dal quale si domina superbamente tutto il bacino di Sondrio da un lato, mentre dal lato opposto si spinge la vista nel fondo del vallone in un angolo riposto dal quale sorge non visto il Corno Stella. Qui si fa sosta per alcuni minuti, dei quali chi trae partito per osservare il panorama di Sondrio, chi per misurare un castagno che, se non è il castagno dei cento cavalli, gira tuttavia in circonferenza per oltre sette metri; e intanto il pittore Allegri si siede in faccia alla valle del Liri, e colla matita in mano ne disegna i lati e lo sfondo. Questo signor Allegru ha per compagno nell'arte sua un simpatico giovane napoletano, il principe Asian d'Abro, appassionato cultore anch'egli della pittura; entrambi durante la gita ci scompaiono sovente e ricompaiono, dopo averci lasciati in qualche sospetto, mostrandoci abbozzi di vedute di boschi burroni, greggi, praterie e simili, dei quali fanno in quella gita un copioso «Album».

Da Sant'Antonio si dipartono due vie: l'una delle quali s'attiene più accosto al fondo della valle; a mediocremente piana e carreggiabile insino al Forno: ma appunto perché più bassa e comoda, a meno allettevole. Tolte alcune ripide praterie e corrispondenti casupole montane e qualche tugurio di legnaiuoli e tagliatori di piante resinose, essa non offre nessun ricovero ne attrattiva particolare; la valle del Liri percorsa su questa via si presenta melanconica e selvaggia. L'altra sale tosto in alto, e si direbbe che sfugge alla valle per mantenersi all'aria libera ed aperta; a perciò più faticosa, ma in cambio compensa i1 viaggiatore con più ampie vedute, e soprattutto perché mira ad un punto abitato, che per la sua altezza, per le sue tradizioni e leggende popolari e pel vasto orizzonte che domina meriterebbe di essere preferito. Questo punto è San Salvatore, chiesa fra le antichissime della provincia, circondata da un gruppo di case abbastanza comode per quella elevata regione.
Noi passammo assai più basso, e sempre lestamente procedendo giungemmo senza incidenti notevoli al luogo detto il Forno, soggiorno temporaneo estivo della famiglia Motta di Cajolo. Il Forno porta questo nome perché vuolsi vi esistesse un tempo un forno fusorio, e consiste in tre o quattro casupole mezzo diroccate in riva al torrente Liri. Qui ristemmo per riposarci alquanto e rifocillarci sotto una tettoia ove una marina da molino ci servi di desco. Ivi il Cetti comincio le sue funzioni di economo, credenziere, cuoco, vivandiere della compagnia, servendoci salato, arrosto, nova, cacio, caffè, cioccolata al latte, vino, birra, gazose, ecc., con quell'ordine che la circostanza del luogo permetteva e che io qui use nell'enumerare o meglio coll'ordine nel quale i diversi gusti si andavano manifestando. Fatti i nostri complimenti alla gentile signorina Mona e suoi bimbi levammo, dopo una buon'ora le tende, sollecitati a ciò dal Cetti, che pratico dei monti sui quali, come ispettore dei boschi, ha passato la meta della sua vita, non vedeva l'ora di rimettere in cammino il convoglio, perocchè volgeva al tramonto e la salita più disastrosa era ancora da farsi, e la meta del Publino ove dovevamo pernottare era ancora ben in su. «Avanti! avanti!» era il suo grido.


Per un certo tratto, oltre il Forno, la strada è ancora abbastanza comoda e piana, e costeggia sempre il torrente, onde noi la percorremmo ilari e baldanzosi. Ma, fatto un chilometro all'incirca, incomincia la Via Crucis. Sentieri tortuosi ripidamente ascendenti, macigni, cespugli, spineti, e poi burroni e tetri boschi; qua enormi massi sporgenti sembrano volerci schiacciare mentre vi passiam sotto; la il torrente a cui ci è giocoforza discendere, ci contrasta il cammino. Come Dio voile, aspettandoci a vicenda per tenerci uniti, arrivammo in capo alla valle dove il Liri precipita come da una muraglia, dai sovrapposti macigni lacustri ond'ha origine, formando a sinistra una bella cascata, che veduta da lontano sembra un lucente ghiacciaio, un letto di neve o qualche cosa di simile, e che mirata da vicino non e che una vasta doccia che si spande discendendo sopra un nudo, arrotondato, altissimo scoglio. Era quasi sera e le ombre della notte calavano a poco a poco inesorabili a sorprenderci in quel desolato angolo sormontato d'ogni intorno da dirupate pareti di rocce. Quello fu appunto il luogo e l'ora ove intervenne ad alcuni di noi un incidente, un episodio che mise alla prova la nostra presenza di spirito.
Bisogna prima di tutto che io dica che la parte più numerosa della carovana col suo capitano commendatore Torelli in testa, vedendo la mala parata della notte imminente, aveva preso una scorciatoia ripidissima ed alquanto pericolosa; e che il Cetti, il quale era dapprima rimasto indietro a sparecchiare la tavola e rimettere in via i mulattieri, e poi ci aveva raggiunti, era sparito di nuovo; quelli che arrivarono primi al Publino, ove lo trovarono affaccendato a preparare la cena; egli era in nessun luogo e dappertutto. Io in quel giorno non era di troppo lieto umore in causa di una leggera insolazione buscatami nelle ore meridiane. Avrei avuto bisogno di un'ora di riposo per cacciarmela di testa; ma altro che riposo lì in quel posto al cader della notte! Ho notato questa circostanza non per mettere avanti la mia personcina, ma perché il mio dolore di capo mi scusi in faccia ai miei compagni di sventura ed ai lettori se in quell'occasione non ho potuto spiegare tutta quell'attività che si sarebbe dovuta aspettare da me come membro della direzione, e perché distratti oltre gli ufficiali superiori, caporale naturale di un plottone in distaccamento, un invalido doveva condurre altri invalidi od inesperti del luogo. Avverto il lettore che non tremi per una sventura come quella dei morti sul Monte Cervino; fu semplicemente uno di quei contrattempi ai quali bisogna pure sieno preparati coloro che affrontano i disagi ed i pericoli dei viaggi montani.


Proprio in quel punto che il grosso della carovana si era allontanato da noi su per la ripida scorciatoia, io aveva adocchiato uno Bella comitiva, un signore attempato, dai modi civilissimi ed obbliganti, il quale veniva lento e canto aiutandosi del suo meglio col lungo alpenstok tra quei macigni e greti del torrente, curando di non perdere di vista la traccia del sentiero comunemente battuto. Io me gli misi accosto, e in breve rimanemmo in quattro soli, più uno dei giovinotti di servizio, al quale se ne aggiunse poi un secondo che arrivò accompagnando due mulattieri, e che io trattenni coll'altro per ogni evento lasciando precedere le bestie da soma. E fu un bene, perché quei due giovani contadini ci furono colle loro premure e maniere urbane di molto giovamento. Formammo cosi la retroguardia del corpo.
Io non istarò a dire gli ostacoli che incontrammo, d'acque da guadare, ghiacci da evitare, di massi da sormontare; ne la stanchezza che ci abbatteva, la sete che ci ardeva e contro la quale non avevamo altro ristoro che quello di masticare un po' di neve temperata col rhum; per di più un certo pensiero teneva me in angustia, stante la condizione del luogo e dell'ora. Eravamo senz'armi nei dominii dell'orso, che in quei siti si prende talvolta il capriccio di intramezzare ai suoi pasti di fieno montano qualche costoletta di capra, pecora o vitella. Io non facevo motto di questo mio sospetto per non aumentare l'ansia de' miei compagni, ma confesso che il sapere che l'orso va pei fatti suoi quando non sia affamato od aizzato non m'assicurava gran fatto; tanto più che nessuno di noi era pratico del luogo, nessuno era stato al Publino, e a stento oramai potevamo distinguere ove mettere i piedi. il signore che io accompagnava In più volte per idraiarsi a passar la notte disteso su quelle pietre, ma noi lo confortavamo coll'idea che il Publino era prossimo di un quarto d'ora; chi sa quale orologio misura le ore in montagna, s'immagini quante volte si ripete quel quarto d'ora al Publino, e quante volte ingannammo pietosamente il trambasciato e vecchio nostro compagno di viaggio. A me venne in mente più fiate la difficile salita di Virgilio e Dante al Purgatorio: se avessi avuto la virtù del poeta latino avrei, com'egli fece col suo discepolo, preso quel buon signore in braccio e trasportatolo in alto; ma ne io era Virgilio ne egli il magro Alighieri.
Finalmente, a notte fitta, senza luna e senza stelle, che il cielo s'era anche per giunta in parte rannuvolato, toccammo il colmo di quell'erta. Ma quivi ecco una nuova difficoltà; spalanchiamo gli occhi e vediamo a sinistra qualche cosa di oscuro, come un vano, un pozzo a piè della roccia; era infatti un laghetto in cui poco mancò non cadessimo; ai nostri piedi il suo emissario. Che fare? Come valicarlo? Si fa quel solo che si potea fare in quell'ora, in quel luogo; gridiamo a squarciagola chiamando aiuto! Sentiamo voce umana che ci risponde: Venite avanti! Risuscitiamo; ma pure come passar la gora? Ecco che i due robusti contadini ci offrono le loro spalle; i miei compagni esitano; ma io, che conosco quei giovani e la fermezza delle loro gambe, non me lo fo dire due volte, monto in groppa ad uno, ed egli, senza dir altro, discende nell'acqua fino al ginocchio, tasta coi piedi fra i sassi e cautamente procedendo arriva a scaricarmi dall'altra banda. Il vecchio signore, a cui propriamente non garbava quella sorta di veicolo, vedendo il mio esempio, fa di necessità virtù, si lascia prendere sulle spalle dal mio stesso portatore e guada con esso, e cosi gli altri. Fatti pochi passi sopra un erboso pascolo alpino, sparso qua e la di grossi macigni nei quali pericoliamo d'inciampare all'oscuro, ci accorgiamo d'essere in presenza di una numerosa greggia che giaceva pernottando all'aperto, e i cui vigili pastori avean risposto ai nostri gridi. Da essi veniamo a sapere che siamo proprio vicini al sospirato Publino; onde noi, rinfrancati, ci avanziamo sempre alzando la voce e chiamando: Lume! lume! Ed ecco due fiaccole venirci incontro, al chiaror delle quali discendiamo in una sorta di conca paludosa, nel cui mezzo vediamo fumare un ricovero: era il ricovero del Publino. I nostri compagni, entrati in molto sospetto pel nostro ritardo, ci accolgono festosi e ci fanno assidere ad un generoso fuoco e raccontare le nostre traversie. Io ne lascio altrui l'incarico, e mi sdraio, colla mia emicrania, sul duro letto del pastore del luogo, indi, in capo ad una mezz'ora di riposo e grazie alla bibita di una eccellente tazza di brodo Liebig, cucinato a tutti dal nostro egregio cuoco cavaliere Cetti, mi levo sano e vispo a prender pane alla cena ed all'allegria della comitiva.

Chi è stato in un accampamento di soldati dopo la marcia, o nei camerini dietro le scene di un teatro, od in luogo di bagnanti, s'immagini gli alpinisti al ricovero del Publino la notte del 28 agosto 1873, tutti intenti a spogliarsi, asciugarsi, rivestirsi, ripulirsi, riscaldarsi e motteggiare e bevere e mangiare allegramente. Si mangiò a sazietà e si bevve: chi prese il caffe, chi il che, chi lane, chi vino; si converse, si rise, si contarono barzellette. II senatore Torelli, co' suoi settanta sulle spalle, faceva invidia ai giovanotti e lava spiegazioni sulla particolarita della provincia e del luogo. Il cavaliere Cetti parlava poco, ma provvedeva a tutto ed a tutti, lanciando tratto tratto qualche suo saporito frizzo; il marchese Cigalini, che sta cosi bene a una conversazione seria come ad una piacevole, animava discorsi co' suoi motti e colle sue novellette; i signori napoletani facevano confronti tra il Publino e Mergellina.
Venuta l'ora tarda, la comitiva, al chiaror delle fiaccole, fu condotta ad un vicino fienile, unico quartiere da dormire che offra il luogo, e dove le coperte di lana che avevamo portato con noi dovettero far l'ufficio ad un tempo di materassi, lenzuola e sopracoperte. Io e Cetti ci accovacciammo sul canile del pastore, vale a dire nella cucina, o sala di ricevimento che si voglia dire, o sala da pranzo, che lasso era tutt'uno; una negra baita, traverso ai cui i muri a secco verificai il fenomeno dell'endosmosi e dell'esosmosi della brezza notturna, e dal cui tetto, a cui eran sospese assicelle portanti formaggini e ricotte, spirava una fragranza deliziosa, intanto che dalle sconnesse tegole si potevano fare, come da una specola, studi d'astronomia. Mi parve anche di sentire qualche cosa di do che Berni descrive nel capitolo:
Udite, Fracastoro, un caso strano.
Ciononostante io sperava sempre di abbandonarmi per alcune ore ad un po' di quel profondo sonno che mi aveva giovato tanto l'anno antecedente all'altezza del Palù. Tutto era tornato nel silenzio, e noi ci eravamo appena assopiti quando fummo svegli da uno scoppio come di tuono o di bombarda che ci percosse proprio negli orecchi. Trasalimmo, non sapendo a tutta prima, tra il sonno e la veglia, che fosse; ma non tardammo ad accorgerci che era, in agosto, una musica di maggio, una serenata che i ciucarelli del pastore improvvisavano lì per lì in onore e delizia, non so bene, se della comitiva dei bipedi o degli ibridi quadrupedi che essi quella notte ospitavano. La musica era in crescendo, perché uno dei musicanti aveva dato l'allarme, il segnale a tutti gli altri professori d'orchestra. Le note erano distintissime, come quelle che ci giungevano allorecchio, sto per dire col fiato, traverso le fessure di quel maledetto muro a secco, che appena ci divideva da loro. Non so che viso facesse il mio compagno, perché eran tenebre, ma lo udii scaraventare una frase che non era uno de' gai motti suoi soliti. Speravamo che la serenata si finisse col primo concerto, o al più col secondo, col terzo; nossignori, seguitarono due buone ore ad alternare duetti, terzetti, intere sinfonie. Né io, né Cetti siamo bestemmiatori; ma quella notte, che Dio ce la perdoni, dacché ne facciamo qui pubblica confessione, non ci furono imprecazioni che risparmiassimo e nemmeno talvolta il diavolo in persona.
Quand'ebbero i ciucarelli ben bene esercitate le loro canne, noi ci apprestavamo a dormire almeno un paio d'orette, quand'ecco, ohimé! che fummo d'un nuovo romor sorpresi. Che e? Che non e? E' il marchese Cigalini, e dietro lui ad uno ad uno gli altri della compagnia che vengono borbottando alla nostra volta. A prima giunta c'insospettiamo che sia accaduta qualche disgrazia, balziamo dal tavolato, accendiamo il lume, apriamo l'uscio, e facendoci incontro a quei signori li interroghiamo più col guardo che colle parole. Ci dicono, tra il buffo e il bisbetico, che non avevan mai potuto chiuder occhio, che avevan sentito anch'essi le sinfonie, coll'accompagnamento, per giunta, dei trilli di un cagnolino che avean con sé ed altri strumenti a fiato e d'occasione; era state insomma un trattenimento, una serata musicale per tutti. Inoltre ad uno era caduta in capo una tavola, un altro aveva buscato un reuma al collo; venivano, disperati di poter riposare, per ristorarsi e passar il tempo al fuoco. Due o tre soli avean potuto, a dispetto di tutto quel diavollo, darsi al sonno, e nel sonno furono tranquillamente lasciati.

Fuoco accendemmo e al vivace calore delle fiamme dissipammo in breve il malumore. Fuori le bottiglie; fuori i canestri delle provvisioni; fuori ii pastore, che ci dia del latte per cuocere caffè, cioccolata: si fa cosi una prima colazione mattutina. In montagna tutte le ore son buone per mangiare; in quell'aria fresca non si sa che cosa sia indigestione, si conosce soltanto l'appetito: il barone Cesati ben disse in un suo brindisi poetico, che lo stomaco dell'alpinista è tale da digerire un bove.
Sono le 3 e 1/2 del mattino; si esce dal ricovero, si guarda il cielo; e limpidissimo; buon augurio. Allora si fanno i preparativi per la salita al Corno. Fra una cosa e l'altra passa una mezz'ora, dopo la quale tutti siamo in via al primo crepuscolo e allo spirar di un venticello leggiero e fresco, che in brev'ora produce l'effetto di farci parer digiuni e desiderare lo Stella per trar fuori un'altra volta i canestri. La salita era annunziata di un'ora e mezzo; e in capo a un'ora e mezzo appunto, senza incidenti notevoli e senza traversie toccammo la meta, favoriti in chi da un sentiero che la Direzione del Club aveva fatto tracciare nel tratto più difficile del corno terminale.
Eccoci alfine su questo ormai famoso pianerottolo, dove possono stare un quindici o venti persone attorno al convenzionale uomo di pietra. E' appena levato il sole; ma il cielo, che laggiù ci era parso cosi libero da nubi, ne si mostra lasso nei più lontani termini del vastissimo orizzonte dove annebbiato e dove assolutamente rannuvolato. Questo contrattempo ci ricaccia in gola quel grido di stupore e di gioia che a chi tocca una di quelle supreme vette erompe per solito irresistibile dalle labbra. Il Corno Stella e a soli 2.600 mail sul livello del mare; non è una salita da menarne vanto; le signorine stesse di Sondrio l'hanno sommesso al lor pie delicato; ma è tuttavia un corno dei pia alti delle Prealpi e per molti rispetti stupendo. Esso a molta distanza regna principe sopra un'assemblea di monti, per dirla col poeta. Ritti in piedi sopra di esso si prova nell'animo un altero senso di soddisfazione d'esser finalmente poggiati in circa, nel vero significato della parola, a quei monti, che mirati di laggiù nel piano ci han fatto nascere tante volte un sentimento di invidia, d'umiliazione. Finalmente, si può dire, li ho sotto i piedi, e tutti! Tutti? No: ecco in lontananza le vero moli delle Alpi ed anche alcuna delle Prealpi, le quali dimezzano ben tosto la mia soddisfazione, rintuzano la mia superbia, mi fanno di nuovo piccino. Ecco altri giganti che nol guardano d'alto in basso; ecco il Monte della Disgrazia, che minaccia a settentrione con quella sua fronte aggrottata e con quei vasti ghiacciai ch'ei lascia vedere disotto al cappello delle sue nubi; ecco la Bernina che rimpicciolisce la Disgrazia; ecco il Pizzo Scalino, piramide svelta e libera; ecco il Rodes, il pizzo del Diavolo, e, maggiore di questi, l'inesplorato Redorta, che intercettan la vista a levante e solo mi concedono per grazia tra cresta e cresta qualche ritaglio di spazio ove si degnano abbassarsi per lasciarmi giungere colla vista infino all'Adamello. A mezzodì la vicina austera costa che separa Valle del Brembo da Val Seriana. Ad occidente lo Spluga, il Legnone, il Resegone sono visibilissimi e chiudono il cerchio da quella parte. Più oltre in questo giorno non si può spingere da veruna pane l'avida vista: le nebbie e le nubi fanno guerra agli occhi ed ai canocchiali. La pianura lombarda che doveva aprirsi a noi davanti all'ingiù di Val Brembana e del Resegone, è involta in densa nebbia. Bisogna che ci accontentiamo di un panorama ristretto. Rimando pertanto i lettori alla descrizione che ci ha fatto il deputato Romualdo Bonfadini in altra occasione più fortunata.

Il panorama in quella giornata, quantunque ristretto, era tuttavia magnifico e vario come quello che presentava la natura, qua nella sua orrida, grandiosa selvatichezza, la addomesticata e ringentilita dalla mano dell'uomo. Si vedevano infatti fuor delle gole del Liri i colti vigneti di Ponchiera e dei Mossini; fuori dello sbocco di Val Cervia le costiere di Postalesio e di Berbenno; e verso mezzodì gli erbosi pascoli di Valle Brembana coi paesetti di questa situati lungo la comoda via che la percorre.
Uno degli spettacoli che soddisfano la vista sullo Stella è di poter rilevare di un tratto tutta l'ossatura della Valtellina dal Corno stesso al Legnone. Sono tante valli secondarie colle rispettive catene di separazione allineate come le reste d'una spina di pesce, le quali dipartendosi dalla cima delle Prealpi si dirigono al piano parallelamente le une alle altre e dominate per tutta quella estensione dal Corno Stella. La prima Val Cervia, che mette i brividi perchè fa vedere un solitario e nudo vallone a picco sotto il Corno. Guai se scivolasse il piede ad uno dei nostri alpinisti! La seconda e Val Madre, e poi Val di Tartano, Val del Bitto, e giù cosi fino al Legnone, tutte disposte in modo che disegnano alla vista le coste loro alte una dietro l'altra.
Lì sulla punta del Corno Stella feci tra me e me un progetto che io qui espongo in pubblico senz'obbligo di retribuzione per parte di chicchesia, solo riservandomi la proprietà dell'invenzione. Dissi fra me: di qui a cent'anni, quando la dinamite avrà convertito la pia parte dei monti in altrettanti cribri, perforandoli in tutti i sensi, e le ferrovie correranno sulle creste più elevate mediante sistema Agudio, sarà venuto momento di applicare le macchine perforatrici a Carona e uscir fuori con esse dopo un chilometro e mezzo circa di galleria al Forno per indi procedere a Sondrio e unire cosi questa città e provincia con Bergamo e Milano. Cosi gli alpinisti avranno vantaggio d'andare a vapore insino alle radici del Corno Stella. Di qui a cent'anni chi vivrà vedrà; perocchè da sperare che i nipoti dei presenti uomini non diranno: «La ferrovia in Valtellina e impossibile per mancanza di alimento»... Mancanza di un corno, dico io a lettere maiuscole, come il Corno Stella; e piuttosto mancanza di slancio, di previsione. Ma io mi accorgo che ho battuto colla lingua dove il dente duole; e poi... zitto! che l'ingegnere Vanossi sta facendo progetto, almeno progetto, delle ferrovie valtellinesi; e torniamo a bomba.
Dopo avere spaziato per qualche tempo ad volo libero tutt'all'intorno sfoderammo i nostri canocchiali e binoccoli e spiegammo le carte: non misurammo l'altezza, perchè già si conosceva. Tirammo di canocchiale sulla Bernina per iscoprirvi i nostri colleghi Martelli e Baretti che vi salivano in quel giorno; ma quei due audaci alpinisti furono ancor meno fortunati di noi, perocchè le vette a cui miravano erano difese in quel mattino da nubi impenetrabili alla vista, onde dovettero per quel giorno rinunciare all'impresa; fecero niente più che una ricognizione, risoluti, come ritengo, di dare in tempo vicino e opportuno l'assalto ad una fortezza e ad un nemico degno di loro.
Non avendo noi potuto soddisfare intieramente la vista pensammo di soddisfare un altro senso di più modeste, se non meno esigenti pretensioni. Rinfoderammo i cannocchiali e sfoderammo i salami, gli stufati, gli arrosti e le bottiglie con quel che segue, e seduti sui ruderi dell'uomo di pietra, ci vendicammo di quella sorta d'insuccesso visivo sui polli, sul cacio parmigiano e sui fiaschi di Sassella. Uno solo dei nostri, principe Asian d'Abro, faceva parte da sè in un angolo del Corno, dove sedutosi in faccia alla Disgrazia, e inforcata la tavolozza s'era messo ad abbozzare una veduta di quel monte. Se gli amici a gara, tra una pennellata e l'altra, non gli mettevano fra i denti un boccon di pane e una fetta di prosciutto, il bravo paesista discendeva dal Corno senza essersi ricordato di far colazione.
Saziato il desiderio delle vivande, dirò con Virgilio, il decano della compagnia, commendatore Torelli, raccolse i biglietti di visita d'ognuno, e trovata la convenzionale bottiglia rannicchiata fra i sassi, vi rinchiuse dentro i nomi di tutti noi; poi riadattato meglio il ripostiglio, ve la ricollocò religiosamente, assicurandone l'apertura con grossa pietra. La bottiglia profanata dagli epuloni a oggidì rimessa in onore e riconsacrata dagli alpinisti, dagli uomini di mare, dagli audaci esploratori del polo. Essa viaggia sulle correnti marine da una sponda all'altra dell'Oceano portando i nomi dei naufraghi; naviga sui ghiacci del nord, recando notizie dei periti viaggiatori artici; sorge immobile sulle più alte cime dei monti, custode gelosa dei nomi audaci di coloro che vi salirono primi, o pochi. La bottiglia a memoria d'illustri infelici, e grido di aiuto, monumento di ardire; nessuno la violi, ma legga e riponga; ed o versi una lacrima pietosa, o corra, potendo, al soccorso, e s'inspiri per essa ad ardui e generosi cimenti.

Dato un ultimo sguardo all'ingiro ed un increscioso addio a quelle altissime vette ricominciammo la discesa. Io svelsi sul pianerottolo del Corno un cespo della «Poa bulbosa» che superba nella sua umiltà sembrava meravigliarsi e sdegnarsi di essere anche lassù calpesta da piede umano. Raccolsi alcuni frammenti del gneis granitico onde il corno terminale è costituito, come pure del micascisto ferruginoso antracitico che si addossa al medesimo alquanto più basso. E' visibilissimo su quella cresta il fatto della emersione della roccia granitica costituente il nucleo centrale della montagna e i1 metamorfismo delle rocce di contatto sollevate; quel granito presenta struttura scagliosa, forse perché essendo in istato di sfasciamento, la parte felspatica si va scomponendo. Erborizzai anche alcun poco discendendo; ma non volendo smarrir la via, né perder la traccia dei compagni, dovetti accontentarmi di scarsa messe botanica. Raccolsi a caso, e più in memoria della gita che per rarità di specie, la Campanula linifolia, l'Hieracium alpinum, la Solidago virgurea, il Geum montanum, il Cirsium spinosissimum, il Rododendrum ferrugineum, la Daphne Mezereum, l'Eriofhorum angustifolium, oltre vari altri Hieracium, Myosotis, Potentille, Asplenii, Primule, Gentiane, ecc.
Nella discesa osservammo a nostro agio il solitario e cupo lago del Publino, incassato fra le rocce, che collo sgelo delle loro nevi lo alimentavano. A guardarlo dall'alto e di lontano sembra inaccessibile, come quello che dal solo lato di settentrione a aperto e circoscritto da un orlo di roccia strettissimo e ripidissimo.
In breve fummo di nuovo al ricovero del medesimo nome. Era meriggio e lo potemmo osservare comodamente. E' un deserto roccioso a terreno ineguale con depressioni paludose ed erbose sparse di macigni che precipitano dai circostanti dirupi: non ha nulla di allettevole. Quanto ci fece invidia il lago del Palù sotto Scerscen!
Qui ripresi i nostri bagagli che vi avevamo lasciati prima di salire al Corno, e fatta da chi volle un'aggiunta alla prima, o meglio seconda colazione, salutammo l'ospite, benché mezzo selvatico pastore del luogo, vero tipo d'uomo primitivo, il quale vi conta che egli segue invariabilimente da trent'anni il costume dei suoi antenati, costume che si perde nella notte dei tempi, di salire da Val Brembana a passar la state in quel luogo colle sue capre, le sue bovine, i suoi asini canori.
Era di pieno giorno, avevamo fretta di giungere a Sondrio: perciò non dubitammo di prendere la scorciatoia. Ho dovuto ammirare in quella ripida discesa l'agilità colla quale il nostro condottiero e decano, senator Torelli, si disimpegnava nei più difficili passi e scivolava lestamente, puntando il suo alpenstok dalle più erte rocce. Ecco l'uomo, diss'io, che discese già non meno lestamente dalla cupola del Duomo di Milano, dopo avervi piantata la bandiera tricolore in faccia agli Austriaci!

LA SALITA AL CORNO STELLA DESCRITTA NELLA GUIDA ALLA VALTELLINA DEL CAI DI SONDRIO
(1884, II ED.)

La Val del Livrio e Il Como Stella (2618 m.) — Da Albosaggia, e precisamente dal polite sul Torchione alla contrada di Piazza parte una via mulattiera che attraversa da prima un castagneto, poi boschi di betulla, e dopo circa mezz'ora di cammino conduce a una chiesa dedicata a S. Antonio. Pochi minuti ancora e poi la strada s'addentra in lenta salita nella Valle del Livrio, mantenendosi sulla pendice orientale, lungo una zone di monte mesta e selvaggia, che i nativi chiamano, forse con nome derivato dalle antiche traditioni religiose dell'epoca romana, i Valrnani. Il nome di Livrio dato al fiume o alla Valle da molti scrittori e nelle carte geografiche, non è antico e non traduce bene quello con cui si la designano i terrieri. Essi chiamano, nel natio idioma, Liri il torrente, e questo nome avrebbe potuto essere accolto senza variationi di sorta, molto più che è uno dei tanti che la Valtellina ha comuni coll'antica Etruria, col Lazio e la Campania. Oltrepassati gli ombrosi casolari di Cantone si arriva al Forno, che dove il suo nome ad antiche fornaci di ferro ora inoperose, grosso maggengo dove si puà trovare la notte modesto ricovero. Risalendo ancora la valle si giunge all'Alpe Piana (1495 in.), a circa tre ore e mezzo da Sondrio. Fin qui s'è percorsa una strada in parte costrutta a nuovo ed in parte riparata pochi anni or sono affine di farvi passare la soenda per trasportare a Cajolo le bore ottenute dal taglio dei boschi che erano nella valle. Il taglio si face porò solo interpolatamente, e i monti sono ancora rivestiti di boschi, quantunque rari e privi di quelle piante secolari che prima vi erano in gran numero, come ci manifestano i tronchi di quelle tagliate. Anche dopo Alpe Piana il sentiero corro per una mezz'ora nel fondo della valle sulla sponda sinistra del torrente, poi si eleva tortuosarnente e ripidamente fino a un'ultima alpe detta del Publino (2110 m.) che si stende sul letto di un antico stagno, fra pareti rocciose. Vi sono due commode capanne, più riparate delle altre della valle. Una la Casera costrutta in muratura a calce , l'altra la Baita in muratura a secco. Su quest'alpe trovasi un pastore di pecore dalla metà di luglio al principio di settembre; ma anche quando egli discende lascia una buona provvista di legna e la baita aperta affinché possono trovarvi riparo coloro che si portassero lassù. Fin qui il Corno Stella non apparve mai, ora lo si può vedere a sud-ovest portandosi su un'altura pochi passi ad oriente della capanna. A differenza delle altre creste che l'attorniano le quali son tutto frastagliate, esso ha la forma regolare di un cono. La sua massa è di granito. Dal Publino un sentiero, che a tratti a tratti scompare, guida su pel monte, e non cessa del tutto che là dove cominciano i campi di neve. Questi si innalzano ordinariamente fino quasi alla bocchetta che è al nord del Corno e metto nella Val Cervia, verso la quale il monte scende a picco per parecchie centinaia di metri. Dalla bocchetta un comodo e sicuro sentiero, fatto costruire anni sono, per cura della Sezione valtellinese del C. A. I., conduce fino alla cima.
Anche colui che è avvezzo a considerare dalle vette de' monti il creato nelle sue forme più grandiose, non potrà trattenere, al giungere sulla cima del Corno Stella, un grido di ammirazione. Dall'innumerabile congerie di cime nevose che si elevano sopra mari di ghiaccio alla vasta pianura lombarda, dal profondi burroni di Valcervia ai pittoreschi laghi del Publino e ai ridenti vigneti di Sassella, dalle foreste secolari del Livrio ai pascoli verdeggianti di valle Brembana, dalle città popolose all'umile casupola del montanaro, tutto quanto la natura ha di bello, di maestoso e di selvaggio, di lì puossi abbracciare d'uno sguardo.
Il panorama non potrebbe essero più imponente, né più variato. II Como Stella sorge a oltra trenta chilometri di distanza dalla cresta della catena maggiore della Alpi; al nord , all'ovest e a mezzodì non ha cime più elevate fino alle Alpi e agli Appenini; all'est soltanto e a poca distanza s'alzano a maggiore altezza i gruppi del Pizzo del Diavolo, del Redorta e del Rodos, le cui creste dirupate, mentre nascondono il gruppo dell'Adamello, offrono però di per se stesse un quadro di selvaggia grandezza. La catena dell'Alpi puossi ammirare tutta dal Tresero, dal Gran Zebra, dall'Ortler e dalla Cima del Piazzi fino al lontano Monte Viso. Imponente è la vista delle vedrette immense di Fellaria, di Scerscen, e dei giganti che da esse si elevano facendo corona al Bernina. Più vicini e meno alteri stanno la svelta piramide dello Scalino e l'inesplorato gruppo del Painale. Grandioso è l'aspetto del Disgrazia; e osservando quella sua immensa e frastagliata schiena si dura fatica a persuadersi che il piede del viaggiatore la possa avere violata. Fra questi colossi, quasi in un profondo abisso, sta la Valmalenco, e il verde dei suoi pascoli e dei suoi boschi forma uno strano contrasto coll'aspetto selvaggio dello creste ond'è rinserrata. All'entrata di essa vedonsi le chiese dei Mossini e di Ponchiera. Proseguendo all'ovest appaiono le cime caratteristiche di Val del Masino, i gruppi del Pizzo Stella, e del Tambo, e l'Oberlaud bernese, che non perde di maestà per la lontananza. Chiaramento anche ad occhio nudo si distinguono le sue cime culminanti, il Finsteraarhorn e la Jungfrau, a cui sembrano appiccicate ad angolo retto le vette prepotenti del Mischabel. Più ad occidente s'offre allo sguardo da prima tutta la catena delle Prealpi valtellinesi fino al Legnone, ed alla Grigna, la schiena dentata del Resegone, poi i monti che attorniano l'ampio bacino del lago di Como, e sopra di essi la massa podorosa del Monte Rosa fiancheggiata dalla indimenticabile piramide del Cervino. Più lontano (205 Km.) le vette del Gran Paradiso, poi, più lontane ancora, fra le nebbie, le Alpi Cozie e Marittime e la lunga striscia degli Appennini.
La pianura della gran Valle del Po si vede attraverso a duo convalli: da un late verso la Brianza, dall'altro, precisamente al sud, lungo il corso del Brembo. A destra del Resegone in direzione del Monviso, si vedo Novara, che dista 110 Km.; al disopra del lungo dosso dell'Albenza si scorge una parte di Milano; più a sinistra si distingue, anche ad occhio nudo, un'ampia borgata che discende ad anfiteatro sino alle sponde di un largo flume: è Cassano d'Adda, vicino a cui, a nord-ovest, apparo la villa dei Castelbarco a Monastirolo.
Sebbene ogni anno forse, i pastori delle vicine alpi salissero il Corno Stella, nulladimeno soltanto dal 1872 esso è visitato da alpinisti. Nel settembre di quell'anno il signor Romualdo Bonfadini, socio della sezione Valtellinese, salitovi in compagnia di due suoi amici, richiamò, con una brillante appendice, pubblicata sul giornate La Perseveranza, l'attenzione su questa vetta che egli disse a giusta ragione un nuovo Rigi, e d'allora in poi ebbe molti visitatori, e anche parecchie visitatrici. Nell'anno 1879 le due sezioni del C.A.I. di Sondrio e di Bergamo, resa facile la salita mercè la costruzione di sentieri dai rispettivi versanti, diedero l'incarico al valente pittore E. F. Bozzoli di rilevarne il panorama. …
La discesa può praticarsi lungo la cresta occidentale, per il sentiero che la Sezione di Bergamo del C. A. I. fece costruire fino al Lago Moro (2215 m.). Di là si può scendere a Foppolo, oppure, girando il lago a destra e superando il vicino passo, ritornare per la Valcervia a Sondrio. Molti poi che trovansi a Sondrio e vogliono ascendere il Corno Stella si portano a Foppolo per il passo di Valmadre e, dopo aver compiuta di là la salita, discendono per la Valle del Livrio. Dall'alpe Publino, girando in alto la valle, si giunge in breve alla strada mulattiera che sale direttamente dall'Alpe Piana, al passe del Publino (2300 m.) per cui si scende al Lago Sambuso, ai Pagliari o ai Branzi in Val Brembana. Se, in luogo di salire al passo, si continua il giro della voile, si arriva, dopo circa tre quarti d'ora di cammino dall'alpe , al pittoreschi laghetti del Publino ai piedi del Monte Zerna. Da questi laghetti un sentiero quasi continuo conduce, in poco pin di un'ora, fra magri pascoli, rocce e gande, al passo dello Scoltador o della Vena (Miniera) (2492 m.) che mette in Val Venina, e per essa ad Ambria.

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