Donna e montagna: un connubio antico, che non sorprende. La montagna, come donna, da conquistare. Un’immagine ormai datata, ma non scomparsa. Se vale ancora la pena di pensare la montagna al femminile, si potrebbe dire che la montagna è donna perché ogni montagna, come ciascuna donna, ha una sua bellezza, propria, peculiare, da scoprire. Diverso il discorso per la donna in montagna, la donna nell’universo contadino delle generazioni passate.
Quale immagine? Un’immagine sorprendentemente mutevole, quasi soggetta a metamorfosi non facili da spiegare. Ecco una prima immagine, tratta dall’opera “La Valtellina (Provincia di Sondrio)”, di Ercole Bassi (Milano, Tipografia degli Operai, 1890): “È doloroso il constatare come anche in buona parte della Valtellina la donna, massime maritata, sia destinata alle fatiche più gravi. Essa non solo attende alle faccende domestiche, ad apparecchiare le vivande, a cucire e lavare le vesti, ad accudire ai bambini, ma va al campo a zappare e vangare, aiuta alla falciatura e alla mietitura; se ragazza, va sui monti a raccogliere legna e fieno, anche in luoghi difficili, sfidando ed incontrando non di rado la morte, e discendendo carica di forte peso. Ed accora l'osservare come bene spesso s'incontri per via l'uomo robusto scarico e la donna debole con una gerla o un sacco pieno sulle spalle. La povera donna è trattata con sì poco riguardo che, sino alla più inoltrata gravidanza, deve sostenere dure fatiche, e non di rado anche il giorno stesso in cui si sgrava è obbligata ad alzarsi per attendere alle faccende domestiche. In tal modo ben si comprende, come osservava giustamente il chiarissimo igienista dottor Bartolameo Besta, come per quanto forti ed avvenenti sieno queste donne disgraziate, dopo pochi anni di matrimonio avvizziscono, invecchiano, acquistano facilmente il gozzo e mettono al mondo bambini deboli e difettosi.
Quadro tanto triste quanto assolutamente persuasivo, nel suo realismo. Poi, la metamorfosi che non ti aspetti: quell’essere umile e gravato da pesi ben difficili da portare, cui non pare riservata alcuna delicata attenzione, d’improvviso muta in figura energica e temuta, la “regiùra”, cui è dedicato un capitolo intero del bel volumetto di Lina Rini-Lombardini “In Valtellina - Colori di leggende e tradizioni”, Sondrio, Ramponi, 1950, pg. 99:

Per lo scindersi delle patriarcali famiglie in singoli nuclei è andata via via scomparenlo dalle nostre case la «rigiura», personaggio di primaria importanza nella vita familiare d'una volta. Accorta e imperiosa, lungimirante e tuttavia attentissima alle più piccole cose era, a fianco del «regiur», reggitrice e guida di tutta una gente e spesso creatrice della sua maggior fortuna, in bella prosperità d'averi, di nozze e di culle ...; così come dal robusto albero, ben curato, balzano fuori a ogni primavera nuovi polloni e tralci e fiori e frutti. Un personaggio singolarissimo, non solo per la sua saviezza e le multiformi casalinghe mansioni, ma per il senso di rispetto che ispirava; non scevro di tremore e spesso incrinato dalla mal nascosta insofferenza di qualche nuora quando il suo imperio diveniva tirannia. A pensarla, così severa, talvolta inesorabile nei comandi e nei rimproveri, viene naturale di chiederci: «Come avrà saputo dir dolci parole e sorridere al tempo dell'innamoramento?». Ma forse, a sua volta, in gioventù sottomessa a una inflessibile volontà, docile a nozze combinate, non aveva mai provato l'incantesimo dello amore; docile al dovere di figlia, sposa, madre, aveva poi, venuto il tempo, assunto quell'altro dovere tramandato di generazione in generazione alla più anziana d'una «gente»: Vigila insonne, sulla roba e sui cuori; se la roba e i cuori cominciano a vacillare, la rovina entra nella casa come l'acqua in una barca sconnessa. E si affonda. All'erta».
Sempre all’erta, soprattutto con le nuore; eterno dibattito che scaturisce da questa realtà: «Il figlio è fatto con il sangue del cuore, la nuora entra dalla porta». Porta non amica. Già sulla soglia la giovane sposa del figlio incontrava (e forse incontra ancor oggi), come nella favola della cattiva matrigna, una esaminatrice severa delle sue virtù casalinghe: la scopa da raccogliere e subito adoperare, gli zoccoli di legno da calzar subito, il grembiule di fatica da allacciarsi immediatamente sopra l’abito nuziale, la ingarbugliata matassa da sbrogliare al più presto, la conocchia da cui trarre sveltamente il filo («senza groppi e non le cade il fuso»): trovava, qualche volta, la zappa e quel comando: «ciapa la zàpa e va a zapà».
Se in qualche paese l'incontro era meno aspro e la suocera faceva l'atto di dare il mestolo di legno (simbolo di comando) o le chiavi, quella bonaccia finiva a durar poco; le chiavi, in qualche luogo, erano appena mostrate e subito riappese dalla suocera alla cintura del proprio grembiale.
Implacate chiavi; serravano tutto, dalla cantina alla dispensa. In cantina scendeva solamente la «regiura», con la pinta (a cui aveva aggiunta acqua); in dispensa la «regiura» controllava il consumo di tutto per evitare sprechi («l'uomo è il campo e la donna la siepe»); per evitare sprechi e per esser sollecita a provvedere in tempo: gran saraceno, granoturco, segale.
Era la « regiura » che distribuiva a tutti i membri della famiglia, ogni sera, dopo cena il lavoro dell’indomani chi a custodire le bestie, chi a faticar nei poderi, chi a sbrigare le varie faccende o a curare i piccoli nelle culle. In qualche luogo, come in Grosio, uscendo in campagna, la giovane madre si portava la sua creatura nella gerla (mi riaffiora il ricordo di una culla velata di rosa ai margini d'un campo dove una coppia poco più che ventenne, gettava la nuova semente e l'uomo procedeva irradiando uno spagliettio d'oro e la donna, curva, chiudeva il solco con quel gesto tradizionale che pare un segno di croce).
Dall'ava, i nipoti grandicelli, avevano l'incarico di portare, un po' prima del mezzodì, ai lavoratori il desinare: formaggio o salame casalingo, la «butigia» del vino per gli anziani e il pan di segale per tutti…
Nessuno osava sottrarsi agli ordini dell'ava reggitrice, sia in casa che sui «maggenghi»; nè vendere o comprare senza la sua solenne autorizzazione. Tutti tacevano, rispettosi, quando lei parlava; e le sue parole erano «Vangelo». La sua voce, di solito autoritaria, si venava di non so quale commozione allorquando consigliava figlie e nuore, specialmente le nuore, sul modo d'allevare i piccoli. Assai più tenera con i nipoti che con i figli, la «regiura» sapeva però al momento giusto, intervenire con severità e rimproveri, come quando, al nipote distratto durante la recita corale del rosario quotidiano, arrivava improvvisa con il colpo secco della sua «roka». La «roka» e il fuso oscillante come tremulo fiocco di pioppo erano quasi di continuo nelle sue mani, specialmente d'inverno ai «filò», nelle stalle tiepide di respiri di odor d'erba secca e di latte, o nelle «stue» dove, maestosa anche se magrissima, dominava presso la gran «pigna», e sembrava formare con essa un tutto, entrambe datrici di calore. Ovvero, seduta sotto la gran cappa d'un focolare su cui solo per suo ordine venivano buttati nuovi «baldorin», aveva nell'inquieto riflesso della fiamma, con quella eretta conocchia in mano, l'apparenza d'una Parca ... Ma che fila lo stame della Vita.”
La figura femminile, dunque, si sdoppia: da una parte la “domina”, per dirla alla latina, la signora della casa, insindacabile regolatrice dei lavori e dell’economia domestica, dall’altra la giovane nuova a lei sottoposta, che deve scontare per intero di essersi appropriata di quell’uomo che prima di esserle marito è stato e sempre sarà il figlio di cui la signora va fiera. Nell’attesa di poter diventare anche lei, un giorno, “regiura”.
Ma ci sono metamorfosi ben più ardite. La donna, anche in terra di Valtellina, qualche rara volta si sgancia dall’archetipo della generatrice e custode della vita, per assumere altre sembianze, altre virtù, altri compiti. E’ il tema dell’eroina, della donna guerriera, della virago, si potrebbe dire, esagerando un po’. E qui spicca sopra ogni altra la figura di Bona Lombarda. Si trattava di una contadina di cui si innamorò il capitano Pietro Brunoro, che militava nell’esercito del Ducato di Milano (allora signoria dei Visconti), guidato dal capitano di ventura Niccolò Piccinino e dal valtellinese Stefano Quadrio, esercito che aveva appena sconfitto quello veneziano nella battaglia di Delebio (1432). I due si sposarono nella chiesa di Sacco e la moglie seguì poi il capitano, di origine parmense, nelle sue peregrinazioni legate alla compagnia di ventura per la quale militava. Fin qui niente di strano: ciò che, però, rese quasi leggendaria la figura della donna fu la pratica delle armi, nella quale, affiancando il marito, si distinse per coraggio e valore, tanto da farne un’eroina molto amata, soprattutto in epoca romantica.
In suo ricordo venne posta, nel 1887, questa iscrizione (con testo dell’arciprete di Sondrio don Antonio Maffei, vissuto nel secolo XIX) su una lapide nella cappelletta vicina alla casa nella quale nacque, a Campione, fra Morbegno e Sacco: BONA LOMBARDA A CUI UNANIMI LE STORIE TRIBUTANO OMAGGI E LODI NACQUE DEL 1417 FRA IL GRUPPO DEGLI UMILI CASOLARI QUI TUTTORA SORGENTI VIRTUOSA E BELLA MENTRE TRA QUESTE SELVE GUIDAVA IL GREGGE ISTANTANEAMENTE RICHIESTA DAL VISCONTEO CAPITANO PIETRO BRUNORO LO SEGUIVA FIDA MOGLIE IN OGNI EVENTO NEI GENEROSI PROPOSITI IRREMOVIBILE SFIDO I PERIGLI DIFESE E SALVO IL MARITO CONSEGUI VITTORIE E PALME E AMMIRATA DA TUTTI REDUCE DALLE TURCHESCHE PUGNE DI NEGROPONTE MORIVA IN MODONE NEL 1468 ALTRO ESEMPIO CHE ANCHE IN POVERI TUGURI E SOTTO RUVIDE SPOGLIE NASCONDONSI TALVOLTA MAGNANIMI SPIRITI CAPACI DI ARDUE E NOBILISSIME IMPRESE - PROF. D. ANTONIO MAFFEI * IN OCCASIONE DEL GIUB. SACERD. DI LEONE XIII QUE DI SACCO POSERO 1887.


Campione

Di lei scrive lo storico ed uomo d’armi Giovanni Guler Von Weineck, già governatore della Valtellina per le tre Leghe Grigie nel biennio 1587-88, nella celebre opera “Rhaetia”, (Zurigo, 1616, versione dal tedesco della sola parte che riguarda la Valtellina e la Valchiavenna di Giustino Renato Orsini, Sondrio, 1959):
Della saggezza, fedeltà ed accorgimento valtellinese abbiamo un nobile esempio nella celebre eroina Bona Lombarda, che io non voglio passare in silenzio, perché da lei, che fu soltanto una donna, si può arguire facilmente quali virtù posseggano queste genti. Essa era nata da poveri genitori in Valtellina, dove più tardi militò il celebre e valentissimo cavaliere Pietro Brunoro da Parma al servizio del Duca Filippo Visconti, sotto il condottiero Giorgio Cornaro, provveditore della serenissima Repubblica Veneta.
La giovinetta fu dal Brunoro vista innocentemente fra i prati, dove pascolava le pecore; era piccola e bruna, ma per altro non senza bellezza. Poiché essa, scherzando con le compagne, addimostrava forza, bravura e vivacità di spirito, tutte queste doti piacquero al Brunoro, che desiderando di farne una donna grande e famosa, nel 1432 di Cristo la fece rapire, e, contro il di lei volere, la condusse seco. Da allora, mentre Bona si applicava ad esercizi di ogni genere, le accadde spesso di mutar veste e di presentarsi in abito virile; di cavalcare così alla caccia, di occuparsi di destrieri indomiti o poltroni, nonché in altri esercizi militari, ed in tutto ciò dimostrava parecchia attitudine, pur trattandosi di cosa fatta per passatempo. Inoltre, sebbene fosse evidente che Brunoro la teneva soltanto per suo diletto, essa dimostrò a lui in tutte le circostanze, fedeltà, devozione ed affetto sublimi; si sobbarcava ad ogni fatica del corpo e dello spirito, non meno di Brunoro stesso; con entusiasmo accettava di affrontare con lui, suo maestro e signore, ogni viaggio più lontano. anche fuori d'ora, e in nessun pericolo gli veniva meno. Anzi lo seguiva sempre a cavallo ed a piedi, per monti e per valli, per mare e per terra, con ammirevole fedeltà e docilità; né mai l'abbandonò.
Quando il Brunoro, per consiglio di un altro condottiero ,detto Troilo, abbandonò il servizio dei principi di Milano (ai tempi di Francesco Sforza, col quale aveva pure abbastanza a lungo militato) c si pose al soldo di Alfonso re di Napoli, lo seguì anche Bona. Ivi però Brunoro cadde in sospetto al re, che lo fece catturare e tenere lungo tempo in carcere, senza speranza di liberazione. Bona ne fu così afflitta che non poteva più avere né riposo né pace, finché essa dai più illustri principi italiani e da altre potenze, quali il re di Francia, Filippo duca di Borgogna, la Signoria di Venezia ed altre ancora, ottenne per lettera tanto interessamento e tante intercessioni in favore del suo signore, che il re Alfonso, per le sollecitazioni di così grandi principi, fu veramente costretto a rimette in libertà Brunoro, ridonandolo alla sua virile ed accorta giovane eroina. La quale, per provvedere più largamente al suo signore, riuscì ad ottenere che egli fosse assoldato dai Veneziani, per loro condottiero, assegnandogli un grado elevato.
La grande fedeltà
e la virtù della celebre Bona: suscitò poi tale riconoscenza nel signor Brunoro che egli la tolse per moglie, e sempre maggiore deferenza con l'andare degli anni a lei dimostrava. chiedendo il suo consiglio in tutti gli affari più Importanti: poiché tutti i progetti e maneggi della moglie riuscivano cosi felicemente.
La nostra virago era sempre in armi, ogni qualvolta ci fosse battaglia: e, quando si dovevan guidare le fanterie, si addimostrava un'eroina imperterrita, ponendo veramente una grande perizia nelle cose di guerra. Questi suoi pregi furono messi parecchie volte in rilievo, ma specialmente nella guerra che Venezia conduceva contro Francesco Sforza. allora duca di Milano. Poiché, quando fu perduto il castello di Pavone nel Bresciano, il valore e la astuzia di Bona apparvero si grandi da meravigliare ognuno. Infatti costei. dopo essersi armata da capo a piedi, lo scudo al braccio e la spada nel pugno, addimostrò nell'assalto grandissimo valore: e fu causa che la piazza forte venisse ripresa, ponendovi il piede per prima.
Con eguale valore Bona si comportò nella presa del castello di legno che il doge Pasquale Malipiero. durante certi festeggiamenti faceva assaltare; poiché nessun altro di quelli che dovevano tentarne la resa riuscì ad espugnarlo.
Finalmente la Signoria Veneta, per particolare fiducia verso Brunoro e verso Bona, la di lui audace ed animosa consorte, li spedì a Negroponte, la penisola (sic!) che un tempo fu detta Eubea, per difenderla contro i Turchi. Ed ivi il nemico secolare non poté mai danneggiare le fortezze da loro costruite, né porvi piede, finché essi vi rimasero.
In seguito, dopo che Brunoro fu morto e sepolto con grandi onori, Bona si pose in viaggio alla volta di Venezia, per ottenere al due suoi figli la conferma nella carica del defunto marito; ma fu allora colta da grave malattia; e poiché questa di giorno in giorno progrediva, essa si fece erigere in Modone uno splendido sepolcro, che volle le si mostrasse compiuto prima di morire; quindi, appena ebbe gloriosamente finito il corso della sua vita mortale, fu deposta dentro l'avello con magnifiche onoranze, l'anno di Cristo 1468”.
Alla figura di quest’eroina è dedicato anche un capitoletto dall’opera dello storico ottocentesco Cesare Cantù “Racconti storici e morali” (Paolo Carrara editore, 1868). Lo riportiamo nella sua interezza.
Era il conte Pietro Brunoro uno di que' tanti capitani che, nel secolo XV, vendevano il valor proprio e quel d' un branco di seguaci a chi li pagasse per combattere cause altrui, e nuocere ad amici e nemici. Insieme col Piccinino, altro più famoso capitano di ventura, condusse egli l'esercito de' Visconti in Valtellina nel 1432, per combattervi i Guelfi, che aveano sottratto quella valle alla dominazione viscontea.

Il Brunoro, mentre la presidiava coll’armi ducali, capitato. a Sacco, villaggio d'industre agiatezza, ben piantato sul monte che fiancheggia Morbegno alla sinistra del Bitto, vide uno stuolo di fanciulle, in sottane di grossa lana che danno poc' oltre il ginocchio, con ben ricamati bustini, acconce le treccie con un giro di spilloni d' ottone e con intrecciati nastri, come oggi ancora vi si costuma. Era giorno festivo, e guidava la danzante ilarità delle coetanee una donzella, brunetta anzi che no e di piccola statura, ma gagliarda bene e vivace, con una tale disprezzata leggiadria di adornarsi , un fare magnanimo troppa più che dal suo piccolo stato, che fermò gli occhi del capitano. Chiesto della condizione dí lei, egli seppe come un Gabrio Lombardo di colà, militando sotto il duca di Sassonia, avea posto amore in Pellegrina, figliuola d'un mercante di Vestfalia , e di furto sposatala, ne avea avuto quella fanciulla, cui pose nome la Bona: e come questa, ben presto orfana di parenti, rimase ad uno zio, curato di Sacco; e tosto apparve, se povera di fortune, avventurata però di bei doni della natura. Ne crebbe curiosità e vaghezza al Brunoro quando, accostatosele, la trovò, secondo sua pari, assai costumata e ben parlante, con umile franchezza ed accorta innocenza. La Bona, varcato il terzo lustro, era nel tempo che con maggior forza vengono le leggi della giovinezza: onde non è meraviglia se affissossi ella pure in lui, volentieri come sogliono le donne nei militari: e ben tosto mosse entrambi un vicendevole impulso d'amore. Venuto adunque il Brunoro a poco a poco domestico con lei, tolse un'abitazione là poco discosta; spesso la vedeva, la traeva a sè, e vestita da uomo l'addestrava alla caccia. Gli storici n'assicurano dell'illibatezza di lei. Stia a loro fede; noi sappiamo solo del brontolar che ne faceva lo zio pievano, il quale alla fine, per iscampar vergogna alla nipote, indusse il Brunoro a sposarla, secretamente però, chè questi non ne patisse disdoro per la diversa condizione.
Vien il tempo di uscire di Valtellina, e la Bona, in arnese da sergente, si offre alla fatica di seguitare il marito, scotendosi dalle cure donnesche per sottentrare alle battagliere; nè per disastri di viaggi, o per travagli in terra ed in mare lo abbandona mai; nè punto gli scema dell'affetto perchè se ne vegga trattata piuttosto da fante che da moglie. Intanto il Brunoro, com' era costume di quei capitani mercanteggiar del loro valore quando con questo, quando con quel principe, mutossi a' servigi di Alfonso il Magnanimo di Napoli: ma essendo a questo caduto in sospetto di fellonia, ne venne cacciato in prigione. Dieci anni vi languì, ognuno può facilmente immaginarsi con quanto accoramento della Bona, la quale ebbe in questo frangente il destro di attestare al mondo quanto ambre la legasse al signor suo. Imperocchè, sempre in abito virile, si diede a correre a tutte le corti d'Italia, al re di Francia, al duca di Borgogna, ai Veneziani, impetrando da tutti buone attestazioni e preghiere per iscusar innocente e redimere il suo Pietro.
Ricca di tante testimonianze, si presentò ad Alfonso, invocando la libertà del marito: nè il re, ammirata la costanza della Valtellinese, gliene seppe far niego. Non istette ella però contenta a sciogliere quei ceppi, ove, s'ella non era, avrebb'egli dovuto stentare l'intiera vita ; e tanto s'adoperò che ottenne dai Veneziani conducessero il Brunoro a loro servigio con largo stipendio. Da quel punto, secondo il merito pagandogliene la mercede, il capitano se la tenne pubblicamente per moglie diletta, e da' consigli di lei non poco utile ritrasse. Con tolleranza e valore nell'armi, da molto trascende la condizione del suo sesso, compariva ella a capo della milizia, entrava innanzi a tutti gli assalti. faticavasi nelle zuffe; nè lieve incitamento era al valor de' soldati l'esempio d'una donna armata. Per non dire tutto, ricorderemo solo come una volta i Veneziani, campeggiando contro Francesco Sforza, perdettero il castello di Pavone in Bresciana, lasciando prigione lo stesso Brunoro. Poteva la Bona non infiammarsi al danno del suo diletto? Raccoglie le sbandate reliquie de' marcheschi: se ne fa guidatrice: più coll'esempio che colla voce le incora: piomba di nuovo sui Milanesi: li fuga: ricupera la perduta fortezza, e rende alla libertà il caro marito.
Anche nei giuochi che si bandirono a Venezia nel 1457 per l'elezione del doge, toccò essa la palma per aver preso il gran castello di legno, difeso invano da destri soldati e capitani.
L'alta idea che del valore di lei avea concepito Venezia fece sì che venisse col marito spedita a difendere Negroponte, allora minacciata dal Turco, il quale, con grande spavento dell'Europa, veniva verso Italia inoltrando le sue conquiste. Finché però ne stettero alla guardia il Brunoro e la sua donna, non fu che quello procedesse. Ma il marito ivi morì, e la Bona si ricondusse a Venezia per ottenere dalla generosità della repubblica la confermazione dello stipendio paterno a pro di due suoi figliuoli già destri nelle armi. Giunta però a Modone estenuata di forze, sconsolata dalla perdita di quel caro capo, dovette sostare, e sentendo avvicinarsi il giorno estremo, si fece preparare un magnifico sepolcro, e colà finì nel 1468.
Se mi indugiai narrando di lei non fatemene colpa; ben sarebbe a compiangere la condizione dello storico, se non gli fosse concesso lasciarsi andare talvolta alla vaghezza d'una gioconda simpatia.
Così il pellegrino, affaticato dalla via, si ferma con diletto, e scolpisce il suo nome sulla quercia che protesse di ombra ospitale il suo riposo. Ben più volte mi meravigliai come, in tempo che entrano di moda i romanzi storici, niuno abbia assunto ancora sì bel soggetto, che lo porterebbe a dipingere e la Lombardia, e il reame, e quel mare e quelle isole che tengono ora fisso lo sguardo di tutto il mondo, ove una prode nazione vede finalmente coronati i sanguinosi sforzi che tant'anni durò per iscuotersi dal collo un intollerabile giogo.”
Meno famosa, ma non meno affascinante la figura di Caterina Scannagatta, di cui leggiamo nel volume “Guida alla Lombardia misteriosa” (Sugar Editore, Milano, 1981; Borgese Giovanna ha curato le voci relativa alla Valtellina):
Il petto di Caterina.
Ai tempi di Napoleone I un'impavida ragazza di Berbenno, il cui nome viene variamente riferito come Caterina o Elisabetta, comunque di cognome Scannagatta, si sostituì al fratello, richiamato sotto le armi. Non solo sostenne alla perfezione l'inganno, ma si comportò con tanto valore da raggiungere il grado di capitano. Nessuno ebbe dubbi sulla sua vera natura fino al giorno in cui fu ferita al petto. Fu allora congedata, ma con grandi onori.”
Se dalle gloriose regioni della fama passiamo a quelle oscure dell’infamia, ecco il panorama farsi più fitto, più fitto delle sinistre incarnazioni della superstizione popolare, ecco le streghe, fin troppo note icone della paura e della maledizione più antica. Ma, anche qui, è la metamorfosi a farla da padrona: un antichissimo archetipo, di divinità femminile datrice di vita, si è sdoppiato nelle figure antitetiche ma pur sempre sottilmente legate dello spirito femminile malvagio, che minaccia e sottrae la vita, e dello spirito benevolo, pronto a correre in soccorso degli uomini. Ci aiuta ad addentrarci in questi sentieri di esperimento di ricostruzione dell’immaginario l’ottimo Ivan Fassin (da "Credenze e leggende dell'area orobica valtellinese: un esperimento di interpretazione. L'eredità della dea rimordiale: sopravvivenze della religione arcaica", nel Bollettino della Società Storica Valtellinese n. 61 del 2008, Sondrio, 2009):
Riprendiamo le considerazioni della GIMBUTAS (LD, 210): "l'antica figura di colei che uccide e rigenera è nota a tutto il folklore europeo non come dea terrificante, ma come strega. Streghe volanti su manici di scopa, (...) vecchie che scagliano formule magiche, circondate da animali o che si trasformano in animali o pietre, sono immagini ben note a partire dal XVI secolo".
La negativizzazione della figura della Dea comincia comunque assai presto, ed è ben presente in ambito greco e latino, non tanto con riferimento alle grandi dee direttamente derivate dalla dea primigenia, quanto riguardo a figure minori, dai tratti sinistri. È il caso delle varie Ecate, Gorgo, Mormo, Baubo, Empusa, ecc. Importante sembra particolarmente Lamia, specializzata nel rapire i bambini...
Si dovrebbe aprire qui una parentesi riguardo ai processi alle streghe sviluppatisi soprattutto tra XV e XVII sec. in tutta Europa.
Dai verbali dei processi (anche locali) emerge una immagine demonizzata della strega, totalmente asservita al Diavolo, sottoposta alla sua volontà, a cominciare dall'iniziazione sacrilega, fino ai riti spesso necrofili di preparazione dell'unguento e altre sostanze malefiche, al volo notturno verso il Sabba, ai riti di sottomissione, ripetuti ogni volta, al Signore del Male dal piede caprino. Quanto di tutto ciò sia indotto dalla pressione degli inquisitori è comunque difficile stabilire.
Quel che è certo è che l'immagine della strega nella memoria popolare locale, anche relativamente recente, è assai lontana dall'estremismo satanico dei processi, e infatti, anche dopo che questi si sono verificati per decenni, dopo tante accuse e tanta propaganda, dopo tanto disagio sociale, essa presenta solamente i consueti tratti tradizionali.
Tuttavia la credenza nelle streghe, a mio parere, costituisce comunque un presupposto o se si preferisce un precedente dei processi. In altre parole quella ambivalente immagine di fata/strega, di cui stiamo discorrendo, evolutasi sotto diverse denominazioni (anguana, masca, stria, in aree alpine e perialpine, ecc.), e in particolare la sua facies negativa, certo presente fin dall'inizio, è da ritenere un antecedente importante della accentuata demonizzazione, sviluppatasi lungo i secoli, e aggravatasi in età moderna, a carico infine di donne reali, indicate dalla vox populi come maghe e fattucchiere.”
Anche alla base della credenza popolare (e non solo popolare, purtroppo) nelle streghe vi è un’eclatante metamorfosi: la donna che esprime in Maria Madre di Dio il vertice creaturale, assume, nella figura della strega, la dimensione del male più profondo, cioè del deliberato asservimento al Demonio in odio al genere umano. Quest’ultima metamorfosi obbedirebbe ad un principio che, latinamente espresso, suona così: “corruptio optimi pessima”, cioè “la corruzione di ciò che è ottimo genera ciò che è pessimo”.
Poesia, poesia, terrore. Poi c'era la prosa, la quotidianità fatta di fatiche improbe, non sempre ripagate da gratitudine. Non erano rari i casi di maltrattamenti di cui le donne erano vittime. Ne parlano, fra molte altre cose, un aneddoto ed una leggenda.
L'aneddoto. Sul sentiero che da Cagnoletti sale ai Pizzi, poco oltre il tratto su roccia detto "Scala dei Pizzi",
si trova un roccione sospeso su un salto, chiamato "Sas de la Strìa".


Spriana vista dal Sas de la Stria

Sono davvero molti i massi che in Valtellina hanno ricevuto questo nome, perché le credenze popolari hanno immaginato che vi si nascondessero delle streghe o che fossero stati scagliati da streghe contro nuclei abitati. Questo masso è invece legato ad una diversa storia, quella di una donna sondriese andava in moglie ad un abitante dei Pizzi. Dopo ripetuti maltrattamenti, questa decise di tornarsene a Sondrio. Quando il marito venne a reclamarla e promise di trattarla diversamente, si convinse a riprendere la vita coniugale. Si avviarono, dunque, entrambi sul sentiero per i Pizzi, ma proprio poco prima di raggiungerli il marito la afferrò e la spinse sul ciglio di una roccia a strapiomdo su un salto, apostrofandola con queste parole minacciose: "Se lo fai un'altra volta, ti faccio vedere a strìa", cioè "ti faccio passare un gran brutto spavento". Non sappiamo se la minaccia sortì il suo effetto.


Rustico ai Pizzi

La leggenda. La racconta Giuseppe Napoleone Besta, in una novella dei suoi “Bozzetti Valtellinesi” (Tirano, 1878). Ne è protagonista un pastorello, Giovannino, figlio di una povera vedova, Maria.
Costui viveva, felice, a Teglio, nella pace non turbata da alcun pensiero, curando il suo gregge. Giunse, così, ai quindici anni, finché, un giorno gli accadde qualcosa che lo strappò dalla sua beata spensieratezza. Non era un giorno qualsiasi, per la verità, ma il primo giorno dell’anno, che egli, però, incurante di festeggiamenti, trascorse come tanti altri giorni, conducendo le sue pecore alla ricerca di qualche modesto filo d’erba nei prati ammantati di neve. In un prato vicino alla valle della Maga, sulla mulattiera che da Teglio scende a San Giovanni, gli accadde, così, di vedere un insolito spettacolo: la neve sembrava essersi ritirata, lasciando scoperta un’ampia porzione di prato, sulla quale si erano avventate le pecore, avide di erba fresca. Egli fu preso da viva curiosità, perché non aveva mai visto una cosa del genere: la vista dell’erba, in mezzo alla quale faceva capolino addirittura qualche piccolo fiore, lo mise in uno stato d’animo particolarmente allegro. Manifestò, così, il suo buon umore intonando un’aria improvvisata con lo zùfolo, che amava suonare nei lunghi pomeriggi passati a vegliare il gregge.
Ma le sorprese erano solo all’inizio: d’improvviso, come dal nulla, apparvero tre bellissime fanciulle, che gli si avvicinarono mostrando di gradire molto le sue melodie. Una, in particolare, la più giovane, con una grazia ed una soavità che rapirono il ragazzo, gli dimostrò tutta la sua simpatia, elargendo sorrisi che si impressero indelebilmente nel suo cuore, che non aveva mai conosciuto il sentimento dell’amore. Il tempo volò e venne, ben presto, la sera, in quello che era uno dei giorni più corti dell’anno: con essa venne anche, per le fanciulle, il momento di prendere congedo. Incuranti delle suppliche di Giovannino, che desiderava che lo seguissero nella sua casa, si mossero per andare, ma la più giovane, prima di scomparire, gli diede l’arrivederci al primo giorno dell’anno successivo. Poi, più nulla: svanirono come i sogni al primo sbatter di palpebre. Giovannino cercò, chiamò, invano.
Tornò più volte, i giorni successivi, in quel luogo, ma non vide nulla, se non la neve, che si era riconquistata la parte di prato dalla quale era stata misteriosamente estromessa. Non gli restò che rassegnarsi e portare con sé il ricordo di quell’incantevole incontro. Un ricordo che lo accompagnò tutti i mesi successivi. Anche in piena estate, quando il sole picchiava implacabile, egli invocava il primo giorno dell’anno, e la cosa non passò inosservata alla madre, che si decise a chiedergli cosa mai gli succedesse. Egli raccontò l’accaduto e la madre non si mostrò affatto sorpresa: al povero padre, gli disse, era apparsa almeno cento volte la terribile Maga in persona, con il piede di mulo ed il cappello di paglia in mano, ed altrettante volte egli l’aveva vista scomparire nelle fiamme dell’abisso.
Non c’era di che stupirsi: le streghe assumono le sembianze più diverse. C’era, addirittura, modo di rapirne una, purché si fosse abbastanza scaltri e pronti. Bastava scagliarle contro il cappello e colpirla, per poi andarsene: la strega sarebbe, allora, stata costretta a seguire il suo possessore, per restituirglielo e, una volta entrata nella sua casa, sarebbe dovuta rimanere per sempre al suo servizio. A Maria non parve vero di poter avere una nuora docile ed obbediente: ormai gli anni avanzavano, e le energie venivano rapidamente meno. Così, all’approssimarsi dell’inverno, ripeté più volte al figlio le istruzioni sul da farsi. Quanto venne, infine, il tanto atteso primo giorno del nuovo anno, Giovannino sapeva bene come comportarsi. Si recò di nuovo nel prato dove aveva incontrato l’anno precedente le tre fanciulle, questa volta con il cappello saldamente stretto in mano.
Le tre ragazze non mancarono all’appuntamento, ed egli, senza perdere tempo, scagliò il cappello contro la più giovane, per poi incamminarsi subito verso casa. Questa lo seguì, con il cappello in mano, fin dentro la casa, facendo l’atto di restituirglielo. La madre, allora, prontamente richiuse con il catenaccio la porta alle sue spalle: ora era prigioniera di quella casa. La giovane, smarrita, pianse ed implorò la donna ed il ragazzo perché le restituissero la libertà, perché le permettessero di tornare, prima del calar del sole, nella sua dimora, ma fu tutto inutile. Il giovane le dichiarò il suo amore e le disse che sarebbe stata la sua sposa e la madre dei suoi figli.
La giovane, allora, fece atto di rassegnarsi a quella nuova vita, ma ammonì Giovannino con queste parole: “Tu avrai la moglie più bella che pastore abbia mai avuto, e la tua casa sarà felice e prospera, allietata dal sorriso dei bambini; io sarò una moglie fedele e devota, paziente ed attenta; potrai anche picchiarmi, nei momenti d’ira, ed io saprò sopportare; una sola cosa, però, non potrai mai fare, colpirmi con un manrovescio: se farai questo, mi perderai per sempre”. Egli giurò e spergiurò che mai e poi mai gli sarebbe venuto in mente di farle del male, perché l’amava profondamente ed era la gioia dei suoi occhi.
La giovane divenne così sua moglie, e gli diede presto due splendidi gemelli, un bambino ed una bambina, che diffusero nella casa la gioia. Crebbe anche la prosperità, e tutto sembrava andare per il meglio. Ma la stoltezza, vera tragedia della condizione umana, impedisce all’uomo di apprezzare i beni che possiede, dopo che li ha tanto desiderati: così anche l’amore di Giovannino per la moglie cominciò, dopo qualche anno, ad affievolirsi, nella stessa misura in cui cresceva, invece, quello per i figli, che venivan su belli e vispi.
Egli si mostrava sempre meno affettuoso verso di lei, ed aumentavano le occasioni nelle quali la trattava con una freddezza che, ben presto, si tramutò in asprezza. E così, quasi fatale, venne anche il primo schiaffo, per una minestra troppo salata. Superata quella soglia, Giovannino non seppe più frenarsi: era diventato duro nei suoi confronti, ma la moglie sopportava sempre, senza mostrare segni di insofferenza. Finché, un giorno, egli tornò a casa e, accortosi che non era stato ancora acceso il fuoco per cucinare la cena, non stette neppure ad ascoltare le giustificazioni della donna, che aveva avuto il suo bel daffare nell’intera giornata, e la colpì con il dorso della mano, girandosi, poi, per accendere il fuoco. Quando si volse di nuovo verso di lei, si accorse che era sparita.
La cercò in tutta la casa, ed anche fuori, chiese ai bambini ed all’anziana madre, chiese anche in paese, ma nulla: di lei si era persa ogni traccia. Si ricordò, allora, delle sue parole, e comprese che quel che aveva fatto. Troppo tardi: passarono settimane e mesi, ma lei non tornò più. Tuttavia accadeva nella casa qualcosa di prodigioso: quando l’uomo tornava, la sera, dai campi, trovava tutto in perfetto ordine, come se la moglie fosse ancora in casa. La madre, che aveva ormai perso totalmente la sua lucidità per l’età avanzata, non sapeva dire cosa accadesse, mentre i figli, interrogati, rispondevano, candidi, che era la cara mamma a fare tutti i lavori domestici.
Giovannino non era più lui: la misteriosa presenza della moglie ed il peso della solitudine lo inasprirono al punto da fargli perdere le staffe anche nei confronti dei figli, che una volta, per una lieve mancanza, giunse a percuotere. Perse, così, anche loro, perché subito scomparvero alla sua vista, lasciandolo nell’autentica disperazione. Quell’anno disgraziato perse anche la madre, che morì di vecchiaia.
Rimasto completamente solo, pensò che così non poteva continuare a vivere: doveva riavere a tutti i costi la moglie ed i figli. Attese, quindi, il primo dell’anno: erano passati dieci anni esatti dal primo incontro con le tre fanciulle. Ma quel giorno era ben diverso: non c’era il sole a diffondere la sua luce nella fredda aria di gennaio. Un cielo plumbeo incombeva sul paese ancora assonnato, scaricando sulle pigre case la neve, che cadeva a larghe falde. Ma Giovannino non dormiva e, sul far del giorno, si recò nel prato legato a così cari ricordi. Ma non accadde ciò che sperava, non comparve nessuno, nulla ruppe il tetro silenzio del luogo. Attese, ed attese ancora, poi, vinto dalla disperazione, si avvicinò al dirupo nel quale sprofondava il torrente e vi si gettò Lo cercarono, il giorno successivo, e, seguendo le sue orme, capirono quello che era successo, ma nessuno osò avventurarsi fra le rocce della forra per recuperare il cadavere dell’infelice.

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