Fra le storie che si raccontavano la sera, quando ci si ritrovava tutti insieme, la sera, nella stalla a “fa filò”, o “fa filagna”, ve n’erano molte, dette “esempi”, che avevano chiaramente lo scopo di offrire un insegnamento ai bambini, puntando sulla loro naturale suggestionabilità e sulla leva psicologica della paura. Alcune hanno un lieto fine, altre terminano con una punizione terribile, ma il canovaccio è costante: vi è un bambino disubbidiente, che trasgredisce le regole cui dovrebbe obbedire, e per questo motivo finisce per ritrovarsi in una situazione di pericolo, viene rapito, viene portato via. Morale della favola: i bambini cattivi stiano attenti, perché la punizione è dietro l’angolo. Ne proponiamo alcune, a titolo esemplificativo.
La prima, che si ritrova, con qualche variante, nella tradizione di diversi paesi, è costruita come un climax, cioè un crescendo di tensione e paura. Ben raccontata, suscita un sicuro spavento. Ne è protagonista Giuanìn, che, a dispetto del nome simpatico, è il tipico bambino cattivo: disobbediente, scapestrato, irriverente, cocciuto, ha tutte le qualità negative che i genitori non sopportano nei figli. Come per tutti i cattivi, però, arriva anche per lui il momento del rendiconto e della punizione. Una punizione terribile, che sopraggiunge, inattesa una notte.
E’ mezzanotte suonata e, forse présago di quanto l’attende, il bambino, solo nella sua stanza, non riesce a chiudere occhio. All’improvviso, il silenzio della notte, un silenzio profondo come il buio che avvolge la stanza, è rotto dal rumore di passi sulla scala che conduce all’uscio della camera. E, con i passi, una voce, cavernosa: “Giuanìn, sono sul primo scalino”; una pausa di qualche istante, nel quale il bambino sente il cuore battere sempre più forte, e poi ancora “Giuanìn, sono sul secondo scalino,… Giuanìn, sono sul terzo scalino”, e così per tutti e dodici gli scalini. Il bambino trattiene il fiato per il terrore. Silenzio. Poi la voce si fa ancora sentire, più vicina e più minacciosa: “Giuanìn, cerco la porta”… Giuanìn, l’ho trovata,… Giuanìn, non trovo la chiave… Giuanìn, l’ho trovata”. Il bambino, rannicchiato in fondo al letto, con le coperte sopra il capo, trema di terrore, non trova neppure la forza per gridare. Sul quel piano ci sono diverse camere e, dopo qualche interminabile istante, la voce riprende: “Giunìn, non trovo la camera… Giuanìn, l’ho trovata”.
Il bambino si sente perso, vorrebbe farsi sempre più piccolo, sparire fra le coperte che lo avvolgono. Silenzio. Dov’è la voce? Chi è quella voce? Cosa accade? Qualche istante, poi la voce, paurosamente vicina, fa sussultare di nuovo il bambino: “Giuanìn, non trovo il letto… Giuanìn, l’ho trovato”. Un grido si strozza in gola al bambino, mentre la voce, ormai vicinissima, sembra materializzarsi in una presenza malefica: “Giuanìn, non ti trovo… Giuanìn, ti ho trovato”. L’urlo, che sembrava non voler più venire fuori, esce, improvviso, come un ultimo disperato tentativo di difesa. Lo ode la madre, che dorme in una camera vicina, e si precipita fuori, accorrendo per vedere cosa succede. Ciò che vede è, però, solo un letto disfatto e vuoto. Sconvolta, corre dal parroco, raccontando, trafelata, l’accaduto.
Il sacerdote intuisce di cosa si tratta, indovina la presenza del Maligno e decide, come unico modo per cercare di scongiurare il peggio, una processione sul monte che sovrasta il paese, alla volta di un burrone dal quale, si diceva, il Diavolo veniva fuori per portarsi via le anime malvagie. La processione si incammina, mesta e trepidante, giungendo nei pressi del burrone. Qui si fa silenzio, e dal silenzio emerge un pianto, dirotto ed inconsolabile. Affacciandosi sul ciglio del dirupo, i fedeli scorgono, con raccapriccio, una fascia di rovi in fiamme, e, fra le fiamme, Giuanìn, lacerato dalle spine dei rovi, insanguinato, avvolto dalle spire del fuoco divorante. Troppo tardi, ormai: il bambino paga, in modo esemplare ed atroce, tutte le disobbedienze. Sua madre è distrutta dal dolore e le altre madri, stringendosi appresso i piccoli, commentano: “Visto cosa succede a non dar retta agli insegnamenti dei genitori?”
Questo esempio è stato raccontato dal nonno di Florindo Bombardieri, classe 1896, di Chiuro, e raccolto dall’insegnante Armida Bombardieri, ma racconti molto simili si potrebbero trovare in altri paesi.
Trasportiamoci, ora, sul versante orobico, più ad ovest, in Val di Tartano. Anche qui i bambini hanno bisogno di qualche racconto su cui meditare. Anche a Campo Tartano, infatti, ci sono bambini cattivi. Uno, in particolare, non voleva mai dire le preghiere, e neppure fare il segno della croce, nonostante la madre lo ammonisse ricordandogli che i bambini come lui se li portava via il diavolo.
Un giorno la minaccia diventò realtà: mentre la madre, infatti, era intenta a mungere le mucche, udì il grido del figlio, che la supplicava di accorrere, perché il diavolo lo stava prendendo. Allora lasciò tutto, uscì dalla stalla e corse verso l’uscio di casa, proprio mentre stava uscendo il diavolo, che si era preso il bambino e se lo stava portando via. Non si perse, però, d’animo: sapeva bene, perché l’aveva sentito tante volte, fin da bambina, al catechismo, che il segno della croce può mettere in fuga il diavolo, ed allora gridò al figlio: “Fai il segno della croce, fai il segno della croce!”.
Questa volta il bambino non si fece pregare, portò la mano alla fronte e si fece il segno della croce. Il diavolo lo lasciò immediatamente, e scomparve in un istante, così come era apparso. La madre potè, quindi, riabbracciarlo, e dal quel giorno non ebbe più motivo di lamentarsi di lui, perché non dimenticò più di dire le preghiere, come ogni buon bambino deve fare.
Sempre a Campo Tartano viveva un altro bambino, di nome Stefano, neppure lui campione di obbedienza. I suoi genitori gli avevano detto più volte di non andare con gli estranei, ma, come accade qualche volta, queste parole gli erano entrate da un orecchio ed uscite dall’altro. Una sera la madre gli chiese di andare a prendere il sale in paese, raccomandandogli di fare presto. Abitavano nel bosco vicino al paese, e si stava facendo notte.
Il bambino partì subito, ed incontrò, strada facendo, un signore, mai visto, che gli chiese, gentilmente, dove fosse diretto. “Vado in paese a prendere il sale”, rispose Stefano, al che l’uomo, sempre molto gentile, lo invitò a seguirlo a casa sua, promettendo che gli avrebbe dato lui il sale. Il bambino, incurante degli ammonimenti dei genitori, lo seguì, ma, appena giunto alla casa, scoprì che non si trattava di un gentile signore, bensì di un malvagio, che lo rinchiuse nel porcile, insieme ai maiali.
Stefano pianse, gridò, strepitò, ma nessuno poteva udirlo. Resosi conto che si doveva arrangiare da solo, cominciò a pensare a come fuggire, perché aveva capito che avrebbe rischiato, altrimenti, di fare la fine dei maiali. Scorse, allora, in un angolo, un chiodo, e, lì vicino, un sasso. Usando il sasso per battere il chiodo, cominciò, con pazienza, a scalfire la parete di legno del porcile, aprendovi, alla fine, un varco sufficiente per sgusciar fuori e fuggire. Fu fortunato, perché riuscì a ritrovare la strada di casa. Quanto vi giunse, trovò i suoi genitori angosciati, che lo riabbracciarono piangendo di gioia. Udito il suo racconto, la madre riuscì a dire, fra i singhiozzi: “Hai visto quel che capita a non dar retta ai genitori ed a seguire gli sconosciuti?”
Questi ultimi due esempi sono stati raccolti dalla Scuola Elementare di Campo Tartano e riportati nel volume “C’era una volta”, curato dalla Scuola Elementare di Prata Camportaccio ed edito nel 1992.

Marcello Canclini “Raccolta di tradizioni popolari di Bormio, Valdisotto, Valfurva, Valdidentro e Livigno – Il ciclo della vita – La nascita e l'infanzia” (Centro Studi Storici Alta Valtellina, 2000), riporta un interessante repertorio di "paure" sapientemente orchestrate per far star buoni i bambini e tenerli lontani dai pericoli:
"I bambini nei loro giochi erano liberi e si trattenevano a svolgerli più spesso fuori di casa. Tanti potevano essere i pericoli e, per questo, si ammonivano di non frequentare certi luoghi e di non uscire dagli usci di notte. Per rendere l'immaginazione più carica di sacro terrore, ci si richiamava a rappresentazioni vaghe e terribili, quali al Senzasànch. Lo si raffigurava come uno spirito fantastico ipostatizzazione del vento compresso tra le gole. Il vento ululante delle montagne poteva facilmente suscitare nella fantasia dei bambini immagini mostruose. Si faceva loro credere che, al suo passaggio, rapiva i piccoli. A Trepàl i disgiun che quando al bufàa, l'ara fora quél sénza sànch. A Trepalle affermavano che quando soffiava il vento circolava scatenato quello senza sangue. A Sant'Antonio Morignone al Senzasànch era, secondo alcuni il vento, secondo altri al màrtul, la martora che, nella credenza popolare, non ha sangue e per questo lo succhia con voracità alle galline. Si tenevano quieti i fanciulli soltanto con l'intimare loro: Al ve ciaperà al Senzasànch! Vi prenderà il senzasangue!

Nel gergo dei calzolai di Piatta la voce si è evoluta a indicare il diavolo, attraverso un noto processo di animazione dei fenomeni atmosferici temuti. La presenza inculcata a più riprese del senzasangue veniva sfruttata per evitare che i bambini rovistassero negli armadi e nelle stanze. Dervìsc mìga, che l'é int al Senzasànch o la Zuzaròba, in Valfurva la Sozacófa, cioè la realtà sozza per eccellenza. A Isolaccia e Pedenosso il diavolo veniva indicato ai bambini come al Senzacòsa, un composto nato da compromesso forse di origine tabuistica tra le due denominazioni che precedono. Raccontava Filìp che, se i bòcia i fàen un qualc frasc'carìa, se ghe disgiei che al rivàa al Senzacòsa. Se i bambini combinavano qualche marachella si diceva loro che sarebbe arrivato il Senzacòsa. In Valfurva si spaventavano i marmocchi intimando loro: Sént, ca végn al món! Senti, che viene il diavolo!. A Cepina i genitori ammonivano i piccini dicendo: `Na òlta o l'altra al te porta ìa quél di bròc(h)'. Una volta o l'altra ti porta via quello delle corna (il diavolo). Anche a Piatta il diavolo era qualificato come quello delle corna: al bric(h)inu. Per lo stesso villaggio Remo Bracchi testimonia la presenza dei sinonimi: al damìn o damerin di córn, il damerino con le corna, l'ang(hi)elin di córn, l’angioletto cornuto. Il demonio veniva anche definito con altre voci di varia provenienza, quali bordulòch, ciapìn, màimen e timilingàtt.
Il diavolo era ancora il barzét. Al piccolo si lasciava intendere, per farlo rigare
diritto: Al vegnerà al barzét a portàt ìa! Verrà il diavolo a portarti via!. A colui che ancora non era in grado di distinguere tra credenza e credenza si lasciava paventare in tono di minaccia: Al vegn al bau, che 'l te màglia! Viene il diavolo a mangiarti! Si imponeva il silenzio con: Cito, che 'l végn' al babào! Silenzio, altrimenti arriva il mostro!
Il diavolo, con deformazione fonetica intesa a evitarne l'evocazione, veniva anche chiamato diàsc'col o, secondo un'antica terminologia di Piatta e di Oga, al boler, a Livigno bolar.
In Oga si era soliti impaurire i bimbi con un'intimazione che si richiamava alle arcaiche raffigurazioni teriomorfe del demonio: Vàrda che al te ciàpa al pè de eàbm, che l'è su i pè de ,fiich. Guarda che ti acciuffa quello che ha i piedi di capra infuocati.
Anticamente satanasso veniva indicato anche come quél de li càlza grìsgia, quello con le calze grigie. Una mamma di Cepina rassicurava i suoi quindici figli: L'é miga de ör pöira del diàol, perché l'ang(hi)el cuscidde al l'à cé per la cadéna, sefat i brài. Non bisogna avere paura del diavolo, perché l'angelo custode lo trattiene per la catena, se vi comportate bene.
In Valfurva, in località i Sèl, si intimorivano i fanciulli affermando che l'èra in giro Patascìch sc'condà ó in un böc(h)', che si aggirava nell'oscurità Patascìch solitamente rintanato in un buco: un uomo, un fantoccio, un mostro, un essere indefinito che impauriva i bambini.
Per far zittire i piccoli si ricordava loro la bestia più temuta di un tempo, come già facevano le nutrici greche: Vàrda che al végn al lof! Guarda che balza il lupo dal bosco!

Si riteneva che di notte i bambini fossero più facilmente aggredibili dalle streghe. Per questo, dopo il rintocco dell'Avemaria, nessun bimbo poteva uscire, se non dopo essersi fatto il segno della croce (segnàs). I bòcia i g'àen la tröcena (in Val Poschiavo si parla di trùcciana) de li sc’tria. I bambini nutrivano un sacrosanto terrore delle streghe. «A Sant'Antonio Morignone le mamme ammonivano le figlie troppo insofferenti: Se saverésuf cuje che l'é la nöc’', / meterésuf gnènca un déit fòra del böc’. Se voi sapeste che cos'è la notte, non esporreste allo scoperto neppure un dito». Nello stesso vil­laggio si faceva insistentemente pressione sui bambini che, dopo l'Ave Maria, bisognava fare il segno della croce, perché se n di al te saltà a adòs al diàol o li sc'tria, perché altrimenti ti avrebbero aggredito il diavolo o le streghe. Gli stessi adulti, quando uscivano la sera dopo i fatidici rintocchi della campana, se portavano un bimbo in braccio, dovevano, per difenderlo, segnàs, farsi il segno della croce. Allo stesso modo i vecchi tramandavano ai loro eredi la norma di non raccogliere mai l'insalata dopo gli ultimi rintocchi dell'Ave Maria, perché ovunque per l'aria e per i crocicchi tenebrosi si aggiravano streghe e stregoni: Guai ramàr su insalata dòpu l'avemarìa, perché al gira nóma li sc'ktria e i sc’trión.
Ripetevano sentenziosi i livignaschi: Dòpo l'avemaria li sc’trìa i én for ne la via. Dopo il suono dell'Ave Maria le streghe si riversano per le strade. Più di un secolo fa una famigla di Semogo si trovava, come ogni anno, sull'alpeggio li Prefara a trascorrere la stagione estiva con tutto il bestiame. Un dì uno dei piccoli. di soli tre anni, scomparve. l genitori lo cercarono disperatamente per ben tre giorni. Improvvisamente alla terza giornata, come spuntato dal nulla, il bimbo comparve. Gli fu chiesto: Ma indoe t’esc sc'téit? Dove sei stato? Il bimbo rispose: Tré dì lè l'é gnùda chiè una fömenìna col panét rós e m’è töit su. Pö i m'én tegnì de cunt li fömenìna blànca. Tre giorni or sono è venuta a prendermi una donna con in testa un fazzoletto rosso e mi ha portato via. Poi mi hanno curato le donnine bianche. Erano dunque state le megere che avevano rapito il bimbo dopo il suono dell'Ave aria e avevano lasciato in lui il segno! Il piccolo infatti zoppicava e quella menomazione gli rimase accollata per tutta la vita.
Nella Svizzera italiana le credenze erano molto simili a quelle del nostro Contado e si sosteneva che la notte era fatta per «gli animali notturni e... dall'Ave Maria della sera fino all'Ave Maria del mattino essi hanno il diritto di girare indisturbati pel monte e pel piano, e male incoglierà chi li dilegga o li molesti in qualsiasi modo». Ai bambini si raccontava: I diàvri e i strii a giran dopu l'avemarìa. I diavoli e le streghe girano do o l'avemaria. Quànd ch'a sóna l'avemaria, al lüv al sa nvìa. Quando suona l'a­vemaria, il lupo si avvia (Viganello). A Muggio, dopo il fatidico rintocco, giravano il memöla e il mamögia, ossia degli esseri mostruosi che rapiscono i bambini per mangiarli.
Qualsiasi casa sperduta sui monti veniva additata ai piccoli come la casa delle streghe e si ammonivano, indicando loro le località remote: Fà al brào, se nò al riva ó la sc'tria e la te pórta ìa! I bambini di Pedenosso erano vivamente sconsigliati dal recarsi la sera a Quartinèl, baite a mezza costa, su un dosso che sovrasta Pecé, al di là del fiume Viola, perché là stazionavano le streghe. Ti incutevano una paura terribile con le storie delle streghe. Una bambina l'avevano chiusa fuori dalla porta di casa, dicendole che sarebbe passata la strega. Nel frattempo passò un gatto e la fanciulla si spaventò al punto che si ammalò di epilessia. Un'altra ragazza balbetta ancor oggi.
In Isolaccia, sul pendio verso il Sasso di Scianno, in località Sc'pigolón, si indica tuttora una casa evitata da tutti i bambini, pur essendo abbastanza vicina al paese. Era un tempo la bàita de Zìzo, un omaccione che si diceva mangiasse i bambini.

Nelle lunghe giornate invernali, quando la nonna e la mamma rimanevano nella sc’tua a filare, i bimbi, seduti sul bancherón, panca, vicino stavano a bocca aperta ad ascoltare li sc'tòria de li sc'trìa, che il nonno andava raccontando con grande enfasi, forse neppure lui del tutto convinto che le megere non fossero mai esistite. I racconti e le chiacchiere (far filò) nelle stalle tra gli adulti al tempo in cui, invece di riscaldare la pigna, si rimaneva accanto al tepore emanato dall'alitare degli animali. I grandi burloni, spesso si nascondevano nei corridoi e negli androni che portavano alla stalla e, senza essere visti, facevano gran movimento di catene e di ferraglie, mentre un adulto ammoniva i bimbi a comportarsi diligentemente, perché altrimenti le streghe sarebbero salite dai locali seminterrati.
L'acqua. la corrente dei canali e dei fiumi bisognava a ogni costo evitarla, perché sul fondo si acquattava la mandràgola, ossia quel mostro fantastico con la grande cresta colorata e con la bocca più grande di un forno. Il motivo principale di tale creazione da parte degli adulti era quello di allontanare i bambini dai gorghi selvaggi dei fiumi, che un tempo erano molto più impetuosi per la mancanza di captazione delle acque. Infatti il fiume principale delle valli veniva chiamato aquòn, ossia acqua grossa o àqua grànda, lo stesso nome usato per definire le piene. Si soleva ammonire: Van mìga arént a l 'aquón, che 'l te ciàpa la mandràgola! Non avvicinarti al fiume, perché altrimenti ti afferra la mandràgola! A Sant'Antonio Morignone la mandràgola era presente anche nell'acqua della fontana.
I bambini venivano spaventati con lo stesso stratagemma anche quando si avvicinavano all'aguàlar, il canale d'acqua derivato dal fiume Frodolfo, che serviva per alimentare i vari mulini del reparto Dossiglio. Tutti gli adulti insistevano: Sctà lontàn de l'aguàlar, che al te ciàpa la mandràgola o al barzét, il diavolo. A Bormio il termine mandràgula stava a designare anche il riflesso dell'acqua o dello specchio. Il termine sembra derivi, a ogni modo, dal nome della pianta, la mandràgora, attraverso la personificazione di un essere mostruoso, suggerita dalla configurazione antropomorfa della radice. A Premadio, a Cepina e a Sant'Antonio Morignone la mandràgola si identificava nella lùdria, ossia la lontra, animale acquatico.
Uno dei pericoli maggiori per i bambini di Pedenosso era certamente costituito dal Sasso di Scianno, una parete di roccia verticale sovrastante il villaggio di Isolaccia. Sopra questo sasso i ragazzi si recavano a pastura e i genitori ammo­nivano i loro figli di tenersi il più possibile lontani dal ciglio del burrone, per­ché altrimenti sarebbe arrivata la mandràgola. Sul bancone roccioso l'animale fantastico veniva assimilato a un grosso uccello che rapiva i piccoli. Per inculcare con più profonda convinzione la salutare paura, si raccontava sovente ai bambini la "storia vera" di quell'ògola, aquila, che sul ciglio del precipizio aveva ghermito con i suoi artigli un marmocchio e l'aveva portato in volo sino alle baite di Pézel, sul versante opposto. La corrispondente creazione fantastica a Campodolcino porta il nome di Cativòra, alla lettera aria malvagia, sempre pronta a divorare chi si sporga dall'alto.

In Oga, dove non esistono veri e propri corsi d'acqua, la mandràgola veniva raffigurata come un volatile misterioso che viveva nascosto nel bosco. Ai bambini di quel paese, quando scendeva l'oscurità e si sentiva in lontananza giungere tra gli alberi uno strano belato, si diceva: Fèt i brài, se nò al végn al cabrabèsgiol, state buoni, perché altrimenti arriva il caprimulgo. I piccini, colpiti nella loro fantasia, ubbidivano con scrupolo, tenendosi lontani dalle soglie della selva, non sapendo che questo animale a cui si alludeva da parte dei grandi non è altro che un uccello del tutto innocuo, che ha la caratteristica di emettere un suono simile al belato di una capra.
Le bestie dalle abitudini notturne con i loro versi incutevano un sacro terrore nei bambini e a volte anche negli adulti. A Sant'Antonio Morignone si minacciava: Al te c(h)liaperà la notula! Ti prenderà il pipistrello!, o al te c(h)iaperà al lelé. Quest'ultima voce riproduce il verso notturno delle lepri quando dormono e si è lessicalizzata come loro referente onomatopeico. L'èra li lèur ch'i fan lé, lé, lé. quali che li dòrm.
I papà di Cepina impaurivano i loro bimbi dicendo che nel bosco si aggirava l’omen salvàdigh, una figura mostruosa metà uomo e metà animale. I genitori insegnavano ai bambini a tenersi alla larga anche dalle acque stagnanti e a non bere assolutamente nelle sorgenti poco mosse, perché in esse si acquatta la sédula, il gordio o cappello di strega, un verme lungo e sottile come un filo di refe o come una sottile radicola senza scorza che, se fosse stato ingerito, avrebbe proliferato malignamente nella pancia, provocando la morte. A Trepalle ugualmente si ripeteva ai bambini di non bere le acque stagnanti, perché al g'àra ó li sédula. A Sant'Antonio Morignone li sédola i é cóme filin de réf vermin biànch, sono come fili di refe, piccoli vermi bianchi, che i én ó in de li peti, che vivono nelle acque stagnanti.

I bambini venivano ancora minacciati di essere segregati in cantina al buio alla mercé di topi e pantigàna (ratti da fogna) che avrebbero loro mangiato le gambe e il naso."


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