Sarà perché c’era la fame, sarà perché c’era la necessità di tener buoni i bambini e dissuaderli dal frequentare luoghi pericolosi, sarà perché quando ci si ritrovava la sera, magari nel fienile, dopo il Rosario veniva il momento dei racconti che tenevano sospesi tutti, sarà perché non era ancora dilagato quell’universale disincantamento che fa del mondo la fiera del noto e del prosaico, sarà come sarà, ma un tempo le storie di paura fiorivano da una vena che pareva inesauribile. Di primo acchito si assomigliano un po’ tutte, ma poi, guardate con maggiore attenzione, in filigrana, mostrano ciascuna una coloritura propria. I volti della paura sono molti e, come in una famiglia, si assomigliano e richiamano, ma non si confondono.
In quel di Faedo, come in ogni paese di Valtellina, c’erano un tempo le streghe. Ma qui avevano un nome particolare: strega è la “dòna del giööc”, la “donna del gioco”. Niente a che vedere, ovviamente, con biscazziere o mattacchione: il “giööc” non è, infatti, il comune gioco, ma l’atto bizzarro, il dispetto, il gesto inaspettato ed apparentemente senza senso, ma in realtà con un profondo significato ed una potente valenza malefica. La strega, infatti, opera i suoi malefici anche attuando questi gesti di gioco: lanciare oggetti, tracciare segni, fare gesti indecifrabili, sono strumenti con i quali attira sulla testa dei malcapitati le più diverse sciagure. Un’interpretazione diverse dell’espressione la intende come “la moglie del gioco”, cioè la donna che si è sposata con giochi e balli, da sempre sospettati di essere porte aperte sul baratro del peccato.
Entrambe le espressioni sembrano accolte in questo testo del prefetto Angiolini (Sondrio, 1812): “l villici sono portati a personificare gli enti morali, o per meglio dire molti di questi. Quindi è che il giuoco, il ballo ecc. sono per essi qualche cosa di reale, a cui danno moglie. Queste mogli comprendono tutte le idee schifose e ributtanti; e quando si vuol nominare od indicare con disprezzo una vecchia squarquoia, si dice della stessa che assomiglia alle femmine del ballo o del gioco. Questa e le altre enunciate assurdità hanno suggerito a dei furbi la maniera di sbrigarsi degli armenti che pascolano in tenute di cui si vorrebbe ingiustamente profittare. Basta solo il gettare una pianella per entro ai pascoli medesimi: questa ritrovata dai pastori li getta nella maggiore costernazione, e gli obbliga ad abbandonare il pascolo a coloro che meno semplici non temono di valersene” (citato dal profilo del dialetto di Faedo tracciato da Remo Bracchi nel volume sui toponimi del paese).
In ogni caso, la donna del gioco è diventata una delle figure che, proprio per la sua indeterminatezza (ciascuno da sé dà corpo con la fantasia a questo enigmatico connubio fra megera e gioco), suscita una profonda tanto indefinita quanto profonda.
Più netti sono i contorni del classico diavolo: il diavolo è sempre lui, non si accompagna a giochi (anche se presiede i sabba, che però gioco non sono, ma atto di omaggio a lui), non si serve di simboli e gesti equivoci, ma va diritto allo scopo.
In una ricerca delle classi III, IV e V della scuola elementare di Faedo troviamo raccontate un paio di storie che hanno proprio per protagonista il diavolo, o un diavolo che frequentava la montagna di Faedo.
La prima ha come scenario la costruzione dell'antica e veneranda chiesetta di San Bernardo, così cara alle generazioni passate ed anche alle attuali di Faedo. Dovete sapere che non fu costruita da mano d'uomo, no, ma dalla mano stessa del Signore. Quando Dio si accinse a posare la prima pietra, il diavolo, che, come sempre, ci deve mettere lo zampino, se ne stava là, a guardarlo con occhio scettico.
"Che hai da guardare?", chiese il Signore, che, essendo Dio, lo sapeva già benissimo.
Il diavolo non volle dargli la soddisfazione di rispondere alla prima domanda, e se la fece ripetere, prima di degnarsi di profferrire verbo. "Scommettiamo... scommettiamo..."
"Scommettiamo che cosa?" domandò il Signore, con quel suo sguardo bonario e mite che solo il Signore sa non perdere mai.
"Scommettiamo che ci metto meno io, che sono solo un povero diavolo, a portar su fin qui dal torrente Venina la pietra più grossa sul fondovalle, con il solo dito mignolo, che tu a finire la tua chiesa? Se vinco, mi prendo la tua chiesa, se perdo, me ne vado da qui e non do più fastidi a quelli di Faedo."
Sorrise, il Signore, perché già sapeva come sarebbe andata a finire la cosa, ma non volle essere sprezzante, ed accettò la scommessa.
Il diavolo, allora, si pecipitò giù, in men che non si dica, sul fondo della valle, là dove un'ariaccia fredda tira sempre, anche d'estate, la luce stenta ad arrivare e di pietre grosse ce ne sono in buon numero. Volle essere leale e ne prese una ce, se proprio non era la più grossa, era fra le prima, e comincò a spingerla su per il crinale, arrancando e sbuffando, perché tirar su quel bolide era davvero una fatica del diavolo, tirarlo su con il solo mignolo... vi lascio immaginare! Ma era determinato più che mai a vincere la scommessa. Giunto a poca distanza dalla chiesetta, vide che il Signore era ancora piuttosto indietro nel lavoro. "E' fatta!", pensò, e si fermò a riposare. Fu un solo attimo di distrazione, ma gli fu fatale: allentò la presa del suo mignolaccio sul masso, e questo gli scivolò di lato e cominciò a rotolare giù, fino in fondo alla valle, fermandosi più o meno dov'era prima. Il diavolo ci restò tanto male che avrebbe voluto prendersi a cornate per la rabbia, ma non c'era tempo: la speranza è l'ultima a morire, ed allora si precipitò giù anche lui, riprese il masso e ricominciò l'imgrata salita verso la piana di S. Bernardo.
Venne su di nuovo con tutta l'energia di cui era capace, ma quando si riaffacciò al bordo dei prati vide che la chiesa era bell'e finita. Fu preso, allora, da un attacco di ira cieca, sferrò un pugno tanto vigoroso al masso, che l'impronta vi rimase impressa, e la si vede ancora oggi.
Lo hanno chiamato "crap de diàul". Poi se ne andò, imprecando, perché una scommessa è una scommessa, e lui doveva pagare pegno. Non sappiamo se si sia riservato di tornare, un giorno, per tornare ad insidiare quelli di Faedo. Ogni anno in molti accorrono da tutto il comune, nella festa del santo, la sagra del “pàa e vìi” (chiamata così perché viene donato a tutti pane e vino), anche per controllare. Non si sa mai.
In quella stessa ricerca si riporta una seconda leggenda, legata alla località "Ca' di Gai" (letteralmente "Casa dei Galli", semplicemente "Galli" sulla carta IGM), che si trova, a 626 metri, al termine della mulattiera che dai Gaggi (segnalazione) scende lungo il fianco scosceso della Val Venina. Oggi il maggendo è abbandonato, ma un tempo vi ferveva la vita dei contadini, ed il diavolo, che c'è sempre di mezzo, non mancava di frequentarlo.
Per procurarsi un nascondiglio, pensò di utilizzare un grande masso del torrente Venina e di portarlo in prossimità delle baite. Essendo, però, questo bagnato, mentre lo portava su gli scivolò dalle mani, schiacciandole. Cacciò, allora, un urlo potente, liberò la mano come potè e corse ad immergerla in una pozza d'acqua, per placare il dolore. rinunciò, quindi, all'idea del nascondiglio, e se ne andò da un'altra parte ad insidiare le anime dei Cristiani. restò, però, sul terreno l'impronta della sua manaccia pelosa, e restò anche il masso, a circa un chilometro dal maggengo, in direzione dell'interno della Val Venina. Gli anziani raccontano che a mezzanotte l'impronta si accende, come se ardesse, diventa rossa, fiammeggiante, emana sinistri bagliori. Ma anche di giorno c'è da aver paura: i pescatori che frequentano la zona se ne tengono ben alla larga!

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