Anche in Valtellina sussiste la credenza che gli ultimi tre giorni di gennaio (o, con qualche variante, il 31 gennaio ed i primi due giorni di febbraio) siano i più freddi dell’anno, e qui, come in molte altre zone della Lombardia, essi vengono chiamati i “giorni della merla”. Si crede anche, però, che rappresentino una svolta, l’ultima e più temibile morsa del gelo invernale, prima che la cattiva stagione cominci, gradualmente ma ineluttabilmente, ad allentare la sua presa.
A questa convinzione si lega una tradizione scherzosa assai diffusa nella valle: il 31 gennaio ed il 2 febbraio bambini, ragazzi ed anche adulti fanno a gara, ricorrendo a qualche scusa, per indurre le vittime prescelte ad affacciarsi, sul far della sera, all’uscio di casa, gridando poi, nel primo caso “L’è fö ‘l genarùn”, cioè è terminato il lungo mese di gennaio, nel secondo “L’è fö l’urs de la tana”, cioè è uscito l’orso dalla tana. Giuseppe Napoleone Besta, nei suoi “Bozzetti Valtellinesi” (Bonazzi, Tirano, 1878), riporta un fatto singolare legato a questa usanza, narratogli da una sua zia. Non cita il paese in cui avvenne, ma, da un accenno ad una salita sul pizzo di Rodes e da altri dettagli, possiamo supporre si tratti di Piateda.
Qui, al tempo delle guerre napoleoniche (inizio Ottocento) viveva un’agiata famiglia di contadini, composta dai coniugi Lorenzo e Caterina Ronchetti e da tre figli, un maschio e due femmine. La storia ha come protagonista una delle due, la più grande, Maddalena, chiamata Lena, “una giovane alta”, dai “lineamenti un po’ grossolani, ma ben fatti”, dai modi spigliati, allegri ma decisi, tanto da essere spesso apostrofata, anche per i sonori ceffoni che non mancava di assestare ai corteggiatori troppo focosi, come “la bella maschiotta”, cosa di cui si compiaceva assai. Costei aveva raggiunto i diciotto anni, età nella quale appariva del tutto naturale, a quei tempi, che una giovane cominciasse a guardarsi seriamente intorno per trovare un giovane a modo, da prender per marito.
Lena, tuttavia, nonostante, per l’agiatezza della famiglia, il buon carattere e l’aspetto gradevole, fosse oggetto della corte di molti giovani del paese, non sembrava affatto darsi pensiero di questo: era amica di tutti, ma non si legava a nessuno, e sembrava aver a cuore solo di trascorrere quegli anni felici aiutando la famiglia, godendo delle gioie dell’amicizia e conservando quel “carattere…spensierato oltremodo”, che “se ne rideva di tutti gli spasimanti che le facevano la corte”.
Fra i giovani che desideravano conquistare il suo cuore vi era Antonio Pomelli, figlio venticinquenne di uno dei più ricchi contadini del paese, “bello e onesto giovanotto, di un carattere burlone e allegro proprio come quello di Lena”. Date le affinità elettive, i due giovani stavano assai bene insieme, ma intendevano quello stare insieme in modo del tutto diverso. Antonio, che frequentava assiduamente la casa dei Ronchetti, prestando volentieri la sua mano nelle diverse opere della campagna, faceva una corte serrata ma discreta alla ragazza; Lena, invece, era contenta di poter passare con lui momenti spensierati ed allegri, ma lo considerava un amico carissimo, ed anzi, più ancora, un fratello, per il quale nutrire il più acceso degli affetti, ma, appunto, un affetto fraterno.
Le cose andarono avanti così, per un bel pezzo: egli non perdeva occasione per cercare di mostrarle quanto le volesse bene: non mancava mai nelle lunghe serate invernali passate nella stalla a famiglia riunita, serate nelle quali tutti pendevano dalle labbra di nonna Margherita, che non mancava mai di raccontare qualche storia fantastica ed avvincente; non perdeva occasione per venire incontro ai desideri della ragazza, tanto che una volta, avendola sentita lamentarsi, nella calura estiva, per la mancanza di acqua fresca e ristoratrice, salì fino al piccolo ghiacciaio del pizzo di Rodes, riempiendosi la bisaccia di neve, per poi portarla all’amata, ed un’altra volta, avendola sentita esprimere il desiderio di possedere un uccello canterino da tenere in gabbia, rischiò la vita su arrampicandosi su un dirupo pur di catturare quattro piccoli passeri da regalarle.
Gesti di inequivocabile significato, che però non valsero a nulla: mentre la sorella minore Rosina si decideva alle nozze con un bravo giovane, lei, sempre affezionatissima al suo Antonio, a tutto sembrava pensare, fuorché a fare lo stesso. Il giovane non sapeva più a cosa appigliarsi: l’amore diventava sempre più struggente e l’atteggiamento di Lena lo feriva in misura sempre maggiore. L’autunno del 1811 lo trovò in questo penoso stato d’animo.
Una sera, però, parve giunta l’occasione per dichiararsi: Lena lo invitò ad una passeggiata presso le rive dell’Adda, durante la quale, vedendolo triste ed incupito, gli chiese cosa mai avesse. Egli allora sbottò: come aveva potuto non accorgersi di quello che lo affliggeva, dopo tanti gesti, dopo tanta frequentazione? Lei rimase sorpresa dal suo sfogo, gli rispose, candidamente, che non aveva la minima idea di cosa potesse tanto contristarlo, al che lui, al colmo della disperazione, gridò che si sarebbe buttato nell’Adda, e così voleva effettivamente fare. Corse, come fuori di sé, fino alla riva del fiume, e solo il grido dell’amata, che lo richiamava alla ragione, valse a fermarlo, proprio mentre stava per abbandonarsi alla corrente del fiume. Lena lo raggiunse trafelata, e lo scongiurò di manifestare quel che aveva nel cuore.
Fu così che Antonio, per la prima volta, trovò il coraggio di dire con le parole ciò che pensava di aver detto nei gesti, purtroppo invano, mille e mille volte: le disse che l’amava, e che non poteva pensare di continuare a vivere senza il suo amore. Al che l’amata, fortemente scossa dalle sue parole, per la prima volta aprì uno spiraglio di speranza nel suo cuore: “Fermatevi…” gli disse piangendo, “ve lo comando… Andiamo a casa, Antonio. Ci penserò, sperate. Forse la Madonna benedirà le mie preghiere”. “Grazie Lena,”, fu la sua risposta, “voi mi donate la vita, spererò”. Ma dovettero passare ancora alcuni mesi prima che l’amore potesse trionfare. Passò l’autunno, non senza un altro fatto memorabile: Antonio ebbe modo di salvare addirittura la vita di Lena, sventando l’attacco di un toro, infuriato per la giubba e la pezzuola rosse che lei indossava. Salvata dal suo intervento tempestivo (lanciandogli contro il forcone, Antonio era riuscito ad arrestare la corsa del possente animale), continuò assiduamente a pregare. Ma non aveva perso il carattere gioviale e burlone.


Cimitero di Piateda

Giunse, così, il gennaio del 1812, uno dei più rigidi e terribili a memoria d’uomo, con la temperatura che scese di 20 gradi sotto lo zero. “I lupi che in quell’anno desolavano la Valtellina”, scrive il Besta,”scendeano a torme nei paesi in cerca di preda, e non temeano avvicinarsi a fiutare le porte delle stalle e a pascersi delle feci dei giumenti sulle vie. I contadini accendeano grandi fuochi poco lungi dalle case onde tener lontane quelle feroci belve che urlavano di freddo e di fame nel silenzio della notte”.
Venne anche il 31 gennaio: Lena non perse l’occasione per rinnovare gli scherzi tanto amati, si travestì con panni maschili, avvolgendo il volto in uno scialle di lana, per non farsi riconoscere, e si incamminò, la sera, verso la casa di Antonio.
Era decisa a vincere la scommessa, fatta con lui, che sarebbe riuscita, lei per prima, a farlo uscire dalla casa, secondo l’antichissima tradizione. Giunta sull’uscio, lo chiamò, cercando di imitare la voce del dottore del paese, il signor Carlo. Antonio udì la voce e cadde nell’inganno: dopo aver gettato un’occhiata da una finestra al primo piano, prese il lume e si accinse a scendere per aprire.
I fatti, nel giro di pochi istanti, però, precipitarono: Lena, vinta dal freddo atroce, si sentì venir meno e cadde a terra svenuta. Un branco di lupi, che l’aveva seguita, subito si avventò su di lei, trascinandola per la via e cercando di strapparle di dosso i panni nei quali era avvolta. Antonio, aperto l’uscio, vide la scena e, senza esitare, afferrò un’ascia, scagliandosi contro le belve e disperdendole con vigorosi colpi vibrati con decisione e precisione. Solo allora, scoprendo il capo di quel fagotto di forma umana, vide, con raccapriccio, che si trattava di Lena! Per la seconda volta, in pochi mesi, le aveva salvato la vita.
Fu la volta buona, perché Lena, dopo essersi riavuta, nel tepore della casa, vinta da tanto amore, non poté fare a meno di esclamare: “Antonio! Tu sei grande; tu sei il più nobile, il più magnanimo uomo della terra. Antonio, perdonami se fin ora non ho appagato l’amor tuo benedetto! Sento adesso che non meriti solo il mio, ma tutto l’amor dell’universo. Antonio! T’amo, t’amerò sempre e sarò tua per l’eternità.” Le sospirate nozze non tardarono ad essere celebrate, e la camera dei novelli sposi fu adornata da tre tappeti di pelle di lupo. Antonio benedisse sempre l’usanza di chiamar fuori il gennaio: senza di quella, infatti, forse non sarebbe mai giunto a coronare il suo sogno.

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