Una delle credenze più diffuse nell’ambiente alpino retico rimanda ai tempi remoti in cui la montagna venne colonizzata dall’uomo. In origine, il bosco e la selva, con tutte le loro insidie e minacce, ne erano i protagonisti incontrastati.


Sacco

Ma la credenza immagina che questo mondo duro e misterioso non fosse appannaggio solo di animali e piante, ma anche di un essere dalle sembianze e dai costumi in parte umani, in parte animali.
Un essere dei boschi, delle selve, quindi selvatico (“selvàdec” o “salvàdec”, con termini dialettali). Il suo mito ha una radice classica facilmente individuabile, quella dei miti di Fauno o Sileno (cfr. l'articolo di Giliana Muffatti Musselli "Papposileno, Ercole e uomo selvatico: l'evoluzione di un mito", nel Bollettino della Società Storica Valtellinese).
Secondo un’autorevolissima concezione, che di solito si riferisce al filosofo Aristotele, l’uomo è animale “politico”, cioè tende, per natura, ad associarsi ad altri uomini fondando comunità e città. Chi non sente questo bisogno è meno che uomo (animale), o più che uomo (Dio). L’”homo selvadego” (o “salvadego”) sembra, almeno in parte, contraddire questa concezione: ha tratti umani (anche se il suo pelo ispido ed irsuto, di cui solamente rivestito, lo rende una figura paurosa, simile, per certi aspetti, allo Yeti, “abominevole” uomo delle nevi), ma vive solitario e non sente il bisogno di abbattere boschi e fondare villaggi o città. Nell'immaginario delle genti di montagna questa figura ha spesso assunto tratti fortemente ambivalenti: icona della bontà, giustizia e sapienza dell'uomo in origine conciliato con la natura, da una parte, icona della crudele bestialità dell'uomo che non riconosce i vincoli elementari dell'umanità (non mangiare i propri simili), dall'altra.
Sbaglieremmo, dunque, ad immaginare questo essere semplicemente come un primitivo: o meglio, lo è solo nel senso etimologico di essere stato il primo abitatore dei monti, non nel senso di essere rozzo e sprovveduto. Nella sua versione, per così dire, "positiva" fu, infatti, proprio lui ad insegnare ai colonizzatori quelle arti che permisero loro di sopravvivere alla durezza dell’ambiente montano, vale a dire la coltivazione dei campi, l’allevamento degli animali, l’apicoltura, l’arte casearia, l’arte dell’estrazione e della lavorazione dei metalli. Fu sempre lui a mostrare un costume morale che appare tutt’altro che incivile: non si mostrò ostile di fronte all’invadenza dei nuovi venuti, preferì ritirarsi, discretamente, nelle valli più nascoste e nei luoghi più impervi ed inaccessibili.
E di lui resta, come sintesi di un atteggiamento antitetico rispetto alla violenza predatoria, quel motto che ne accompagna una raffigurazione nella celebre “camera picta” (1464) che si trova in una casa (che ospita anche il Museo dell'homo salvadego) della contrada Pirondini di Sacco (m. 700), primo paese che si incontra salendo in Val Gerola: “E sonto un homo selvadego per natura – chi me offende ge fo pagura”. La paura, dunque, come unica punizione per chi manca di rispetto a questo essere che rimanda al mito di un’originaria alleanza fra uomo e natura. La paura, quasi punizione della coscienza morale (è credenza assai radicata che la paura sia figlia della cattiva coscienza, ed attanagli quindi chi fa del male: “male non fare, paura non avere”, recita un adagio della saggezza popolare). In quest’ottica, l’homo selvadego diventa non solo espressione della bontà originaria della natura e di quegli esseri che sanno vivere in armonia con essa, ma anche una sorta di specchio morale che ricorda all’uomo quanto sia innaturale l’offesa, cioè la gratuita forma di violenza.
Nell’articolo di Rossana Sacchi “Migrazioni iconografiche e vicende storiche dell'Uomo Selvatico” (in “Sondrio e il suo territorio”, Silvana Editoriale, Milano, 1995), leggiamo:
Nel paese di Sacco, in val Gerola, si conserva una delle più celebri raffigurazioni dell'Uomo Selvatico rinvenute finora nelle Alpi italiane, oggi assai nota in quanto l'immagine è stata riprodotta su cartoline, depliants e copertine di opuscoli e libri, a segnalare una indubbia fortuna locale e non. L'Uomo Selvatico di Sacco è dipinto ad affresco in una stanza sita nella contrada Pirondini, al secondo piano di una antica casa in pietra già costituita da tre locali sovrapposti, fino a non molti anni fa ancora utilizzati come stalla, fienile e solaio, ma in origine, nel XV secolo, destinati ad uso abitativo. L'ambiente, che misura circa 5 metri per 3, è affrescato su tutte e quattro le pareti (si può perciò a ragione parlare di una camera picta)… Nella camera picta di Sacco ci sono… due «personaggi parlanti»: si tratta dell'Uomo Selvatico e dell'Arciere, collocati rispettivamente a sinistra e a destra dell'ingresso: accanto al viso del primo si trova liberamente scritta la citatissima frase «E sonto un homo salvadego per natura, chi me ofende ge fo pagura», mentre purtroppo non è più completamente leggibile il cartiglio «legato» all'Arciere, di nuovo espresso in prima persona: «Sonto uno che senza malitia de pecati...». Esisteva dunque un legame preciso tra l'Uomo Selvatico e l'Arciere: entrambi si presentavano al riguardante enunciando il proprio status, di temibile uomo «selvatico per natura» e di buon cristiano «senza malitia de pecati», cui seguivano ulteriori, e ormai perdute, spiegazioni. Le due figure dipinte ai lati della porta vanno quindi lette in rapporto tra loro… Un unico filo moralizzato può quindi legare le due figure, il gigante peloso e il piccolo arciere con l'arco che si fronteggiano in casa Zugnoni-Vaninetti: esse rappresentano l'uomo, nel suo doppio stato primordiale (l'uomo «selvatico per natura») ed evoluto, abitatore di un mondo ormai salvato e redento (l'arciere, che si presenta proprio «senza malitia de pecati»).
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Sacco

Figura misteriosa ed intrigante, l'homo salvadego non manca di mostrare un suo particolarissimo senso della giustizia. Nel volumetto “Mille modi per dire” (Ed. Molino del Dosso), Serafino Vaninetti racconta di aver udito, da ragazzo, questo racconto sull’hum savàdech: “Un giorno l'homo Salvadego camminava nel bosco alla ricerca di cibo, quando incontrò un pastore che stava consumando un pasto, a bassa voce esclamò: chissà se il pastore mi lascia qualche briciola per sfamarmi un poco? Il pastore abituato ad ascoltare tutti i rumori del bosco, aveva un orecchio fine, capì quel borbottio e, per affinità di vita vivendo sui pascoli, lascia nella scodella un po' di pane e latte. Ritornando poi a sera per mettere a ricovero le sue capre, con grande sorpresa si accorge che la scodella a lui lasciata, con poche briciole di pane e latte e qualche grano di miglio, era piena di monete d'oro.  Tutto contento il capraio tornò a casa, fece sapere quello che gli era successo alla sua famiglia e poi ad altri abitanti del villaggio. La notizia fece scalpore, ma ancora più grande fu l'interesse della gente e, tutti corsero nel bosco a mettere scodelle piene dì cibo sotto gli alberi dove usualmente passava l'homo Salvadego. Il giorno dopo quando andarono per ritirarle, con grande dispiacere si accorsero però le ciotole depositate piene di cibo, contenevano un solo un soldo, equivalente al valore delle vivande. Questa ed altre storie noi ragazzi, le ascoltavamo con attenzione, mentre il pensiero volava nei sentieri del bosco, ci sembrava di veder apparire l'hum savadech.”

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L’homo salvadego, di cui parla Aurelio Garobbio in "Alpi e Prealpi, mito e realtà" (Bologna, Alfa, 1967, pg. 77) appare, dunque, sempre nella sua versione "positiva", come una delle tante espressioni del "buon selvaggio", di illuministica memoria, ma non per questo cessa di mostrare anche tratti assai inquietanti. La forza, soprattutto: il robusto bastone che impugna, anche nell'immagine dello stemma della Lega delle Dieci Giurisdizioni (che faceva parte delle Tre Leghe Grigie che tennero la Valtellina dal 1512 al 1797) rimanda a questo aspetto. Una figura complessa, dunque, in cui sono probabilmente proiettati i sentimenti ambivalenti suscitati nei montanari da una natura insieme minacciosa e rasserenante. Diverse le testimonianze figurative di questa figura mitica: da quella di Sacco, in una dimora rurale ora divenuta museo, alle due della Porta Poschiavina di Tirano (purtroppo ridotte ora in pessimo stato) e a quelle del monte Sassalbo, presso Poschiavo (ulteriori notizie possono essere trovate nel volumetto "L'Homo Salvadego di Sacco in Val Gerola", di Natale Perego, edito da Bellavite nel 2001). L'uomo selvatico della Val Poschiavina assume il nome di "salvanco", e merita particolare attenzione, perché le leggende che ha ispirato ne rivelano, come già accennato, la duplice natura, o meglio, il duplice sguardo con cui si può guardare a questa figura. Si credeva che una stirpe di uomini siffatti, di corporatura gigantesca e forza eccezionale, vivesse fra le più alte rupi del versante orientale della valle, ed in particolare fra i monti che dal pizzo di Sena vanno alla celebre cima del Sassalbo (cioè del Sasso Bianco, il monte che sovrasta, ad est, Poschiavo, ed è facilmente riconoscibile fra tutte le altre cime perché le rocce della sua parte sommitale, di natura calcarea, spiccano per il loro colore bianco, tanto da creare l'illusoria percezione, nella stagione estiva, di un innaturale innevamento). Ebbene, da un lato tale stirpe era assai temuta, perché, come racconta sempre Aurelio Garobbio (in "Montagne a valli incantate", Cappelli Editore, Rocca S. Casciano, 1963, pg. 145), la si credeva costituita da esseri feroci, capaci, in qualche caso, di aggredire contadini e pastori ed anche mangiarseli.
Dall'altro, però, era vivo anche il racconto di una loro prodigiosa abilità, che ne faceva esseri tutt'altro che rozzi e crudeli. Una volta, in particolare, si narra che i salvanchi, scesi dal Sassalbo, piombarono all'improvviso sui pascoli dell'alpe Sassiglione, dove i pastori erano intenti a fare il burro. Questi, ammutoliti e sgomenti, li videro appressarsi al loro latte ed al loro siero, con quel volto così inquietante che richiamava le fattezze dell'orso più che dell'uomo. Ma non volevano far razzia, né compiere opera alcuna di violenza: erano, anzi, allegri, si rivolgevano loro con frasi in una strana lingua, mai udita, ma con tono amichevole e scherzoso. I salvanchi, messa mano agli strumenti dell'arte casearia, portarono a compimento l'opera dei pastori e confezionarono un burro eccellente e squisito, compatto e dall'invitante colore biondiccio. Rivolsero, poi, la loro attenzione al siero, dal quale trassero, con una tecnica mai vista dai pastori, cera purissima, prodotto un tempo assai prezioso. Alla fine, improvvisi com'erano venuti, se ne andarono, cantando allegre canzoni con melodie strane e bizzarre. Quando i pastori si riebbero dalla sorpresa, tentarono, e lo fecero più e più volte, di ripetere le operazioni dei salvanchi, ma non riuscirono mai a confezionare un burro altrettanto squisito e, men che meno, a trarre dal siero la cera.
Può risultare interessante osservare che appena di là del crinale che separa la Valle di Poschiavo dalla Val Grosina, alle spalle, quindi, del Sassalbo, sta il Corno di Dosdè, cima legata ad una leggenda che vuole questi monti popolati, in tempi remoti, da una razza di giganti, che si estinsero dopo che uno di loro volle prendere in sposa la bellissima Viola.


Laghetti del passo di Campagneda

Ancor più interessante è registrare, da una cronaca del tempo (Cronaca di Handusers), relativa al 1591, la "cattura avvenuta di venerdì santo, in un punto imprecisato dei Grigioni, di due Uomini Selvatici, vivi e liberi, inviati in deferente omaggio al papa di Roma" (Rossana Sacchi, articolo citato): l'episodio è, però, dubbio.

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Ma torniamo in quel di Valtellina. La Costiera dei Ceck, che fronteggia quella dei Maròch (versante orobico della bassa Valtellina), è divisa da questa da una fiera ed antichissima rivalità. Potevano, dunque, i Ceck subire supinamente la fama del salvadego di Sacco senza rispondere da par loro? No, certamente no. Ecco che anche sul versante solatio della bassa valle fiorirono leggende sull'hom salvàdek. Su un'intera stirpe di hom salvòdek. Ed anche qui, balza all'occhio la differenza fra il pauroso ma giusto homo salvadego della Val Gerola ed il crudele e disumano essere che spadroneggia nei boschi retici. Ecco come racconta la loro storia Domenico Songini, nel bel volume "Storie di Traona Terra Buona - Vol. II" (Sondrio, 2004):“…non solo la Val del Bitto va famosa per il suo uomo selvatico, ma anche la gloriosa sponda soliva era minacciata dalla presenza di giganti mostruosi dal corpo ricoperto d'ispidi peli, dalla testa ai piedi, dalla capigliatura incolta e dalla barba che giungeva alla vita. Di norma, erano pacifici e s'adattavano ad una vita semplice, cibandosi di frutta e di erbe: armati di poderosi bastoni, spesso grossi come tronchi d'albero, cacciavano solo selvaggina in condizione di estremo degrado o pericolosa agli umani ed agli animali. Erano gelosi dell'integrità delle selve ed intervenivano solleciti quando un albero sano correva pericolo d'essere abbattuto: erano pertanto il terrore dei bracconieri e dei boscaioli troppo ingordi. Così si attiravano il rispetto dei cristiani della costéra che, nelle stagioni di siccità o di gelo, non mancavano di rifornire gli "uomini selvatici" di cibarie adatte, lungo i sentieri della montagna. Ma non tutti osservavano il tacito accordo di rispetto reciproco ed allora il "salvadego" s'inferociva e diventava pericoloso: un anno l'homo salvadego della sponda soliva, particolarmente efferato, si mise ad aggredire animali e, talvolta, anche persone”.
Per la loro mostruosità, questi individui selvaggi venivano chiamati anche “bröt salvàdek”.
Dal citato articolo di Rissana Sacchi ricaviamo queste notizie sulle ulteriori tracce della presenza del mito dell'homo salvadego nella Provincia di Sondrio: "È arrivata fino alla soglia degli anni Novanta del secolo scorso, e purtroppo non l'ha superata, una antica osteria di Chiavenna intitolata all'Uomo Selvatico: in seguito a un recente sopralluogo, infatti, tale osteria, che si trovava quasi all'angolo tra la via Paolo Bossi e un vicolo detto appunto dell'«Uomo Selvatico», è risultata chiusa e in corso di trasferimento, per cui non è stato possibile neppure verificare la sopravvivenza almeno dell'affresco da cui la taverna traeva il proprio nome che, secondo alcune fonti, si trovava dipinto sul camino di un locale al primo piano…. Segnalo infine un altro aspetto ancora da analizzare per quanto riguarda l'apparizione dell'Uomo Selvatico in Valtellina: quello riguardante i carnevali, dove la sua presenza non è costantemente attestata (come nel settore orientale delle Alpi e delle Prealpi), ma è comunque riscontrabile sotto diverse spoglie, antiche e moderne…”


Costirera dei Cech

Esiste una versione femminile dell'uomo selvatico? Alcune storie parlano della donna "salvàdega", figura, però, di segno diverso, a metà fra la selvaggia disadattata e la strega. Tale appare, per esempio, nella leggenda ardennese della "màta salvàdega", donna terribile che viveva sola, spauracchio dei bambini disobbedienti, che, a detta delle nonne, amava rapire e bollire in un gran calderone. Nella frazione Masino assicurano che la sua dimora era un enorme masso nel mezzo del torrente omonimo, che scende dalla Val Màsino. Altri sostenevano che invece quel masso fosse il nascondiglio in cui una banda di falsari nascondeva il denaro falso. Sempre a Masino viveva un tale che passò la sua infanzia nel terrore per questa donna terribile: quante volte, dopo aver combinato qualche marachella, era stato preso dalla paura che la màta salvadega venisse, nel cuore della notte, e se lo portasse via! Poi, man mano che la sua età e la sua forza crescevano, la paura diminuì, ma gli rimase dentro un senso di risentimento e di fastidio per questa figurache aveva tormentato come un’ombra minacciosa la sua infanzia. Decise, allora, di toglierla di mezzo. Si caricò sulle spalle una brenta di vino e si avviò verso il grande masso che la temibile donna aveva scelto come dimora. Quando la vide, ne ebbe più ribrezzo che paura, ma lo vinse e, fingendo grande affabilità, le chiese se volesse bere. Questa, dopo averlo guardato con quegli occhietti spiritati dai quali traspariva la sua follia, per tutta risposta si mise a sghignazzare, e spiccò un balzo prodigioso. Per un attimo il nostro temette di vedersela piombare addosso, ma la matta si infilò proprio dentro la brenta (non era un donnone!) e cominciò avidamente a bersi quel buon vino. L’uomo, allora, colse al volo l’occasione e spinse la brenta nel torrente. Sparirono, così, nei gorghi impetuosi del torrente Masino, brenta vino e vecchia. Di lei rimase solo l'eco, sempre più flebile, di un'antichissimo terrore.


Albaredo
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Più simile allo schema classico dell'uomo salvàdego è la figura della“végia gòsa”, , di cui si racconta in quel di Albaredo per S. Marco, nell'omonima valle del Bitto. Era una vecchia con il gozzo, che viveva nei boschi, allo stato selvaggio, e compariva, di quando in quando, suscitando curiosità o paura a seconda delle versioni che la segnalavano in questo o quel luogo della valle. Preannunciata da un roco ansimare, legato all’età avanzata, sbucava, imprevedibile, sul limite dei boschi, affacciandosi sui pascoli e mostrando la sua figura trasandata. Come l’homo salvadego, aveva una presenza insieme imponente e orrida: alta un metro ed ottanta circa, era ricoperta di una fitta peluria e da pochi stracci, rinforzati, d’inverno, con erba secca. Viveva di quanto la natura offre spontaneamente, soprattutto di frutti di bosco, e, per sua natura, non recava danno ad alcuno. Nondimeno, era temuta, vuoi per il suo aspetto, vuoi perché, si diceva, aveva l’inquietante abitudine di accompagnarsi ad altre figure femminili tutt’altro che innocue, le streghe.
Eccoci di nuovo, infine, in bassa Valtellina, sulla sponda meridionale dell'Adda, per scoprire, sorpresa davvero grande!, che quella dell'uomo salvadego non è solo leggenda o mito, ma anche cronaca. Questo accade sul versante orobico a monte di Delebio. Ce ne parla Ercole Bassi, in un articolo pubblicato su "Le vie del bene": "Io ho conosciuto anche l'uomo selvaggio. Era costui un contadino che viveva affatto solitario in una casupola isolata sui fianchi del monte Legnone a Canargo di sotto e viveva col latte di una vacca e di qualche capra e un po’ di farina, di patate e d'altro che i suoi parenti gli portavano. Non era pazzo e non sentii che avesse fatto male ad alcuno. Molti lo temevano, e non ho mai potuto sapere perché conducesse tale vita".
Ed ancora lui tratteggia la curiosissima figura della Castellana della Piazza Calda, sorta di versione al femminile dell'uomo selvatico: "Ho conosciuto anche una giovane avvenente figlia di intelligenti artieri, che passava la maggior parte dell'anno sola, a 1100 metri, in una località della "Piazza Calda", ove teneva una casetta, stalla fienile, e vi coltivava un orto con patate, insalata, fagiuoli e piante di frutta. Vi allevava delle api rustiche, e nella primavera scese l'orso a mangiarle il miele... Era una giovine seria e laboriosa, e s'intratteneva volentieri con chi la frequentava".

Come dire: non è tutto selvatico ciò che si rintana nelle selve!


Osiccio

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Riportiamo, per finire, due racconti di uno dei maggiori cultori dell’universo immaginario alpino. Aurelio Garobbio (dall’opera “Leggende delle Alpi Lepontine e dei Grigioni”, Rocca San Casciano, Cappelli, 1969). Il primo riguarda i già citati Salvanchi del Sassalbo, il secondo gli uomini Selvatici della vicina Engadina.

Uomini giganteschi, i Salvanchi, vivevano sulle impervie pareti calcaree del Sassalbo, ed abitavano nelle numerose caverne di quella montagna nuda, a levante di Poschiavo. Irsuti come caproni e più feroci dei lupi, possedevano la forza di un bue. Se dovevano inerpicarsi sulle ripide pendici della montagna, sradicavano senza fatica un pino con le intere radici e se ne servivano come bastone. Ma guai se gli uomini toccavano le piante: urlavano; e si udivano dall'altra parte della valle; cacciavano fuori gli occhi dalle orbite, e l'ira li accecava. Per la violenza e la crudeltà nessuno osava affrontarli e bisognava rassegnarsi alle continue rapine, ritenendosi fortunati di non imbattersi in loro, poiché assalivano gli uomini. I Salvanchi giravano per il sonante bosco di pini e di larici al piede del Sassalbo, ma si incontravano un po' dovunque nei dintorni: sotto il Pizzo di Sena ed al Fil della Veglia, in val di Campo ed in val del Teo, in val Traversina ed ancora di là della cresta, nelle valli di Sprella e di Guinzana che digradano erbose verso la Grosina.Quel che trovavano diventava loro: una capra, una pecora, un sacco di farina, una pentola, una forma di formaggio; tutto arraffavano con la prepotenza o con l'astuzia e se lo portavano nelle squallide spelonche. Viaggiavano da soli: la solitudine era diventata un loro abito mentale, e forse dava noia anche lo scambiarsi una semplice parola, ma se calavano là dove gli uomini civili erano molti, si univano in gruppo.
Certi inverni duri, quando l'alta neve ammantava la montagna e sugli alpeggi non restava più nulla da razziare, i Salvanchi compivano rapide puntate notturne sino a qualche casolare isolato.
Benché giganteschi, erano agilissimi, e si scorgevano a volte sui precipizi del Sassalbo saltare da una roccia all'altra come stambecchi. Camminavano a piedi scalzi e vestivano rozzi velli di marmotte, o di camosci, catturati rincorrendoli o tendendo lacci. Erano ghiotti del miele selvatico e della panna fresca, ma appetivano anche la carne umana.
Se un bambino scompariva dalla culla non si nutriva dubbio. Là dove la terra era più molle, si finiva infatti con lo scoprire la spaventosa impronta di un piede immane.
In una baita di Pradalta, una giovane stava sola. Gli uomini erano scesi a Pedecosta, per barattare un capo di bestiame con farina di granoturco; i ragazzotti curavano le mandrie al pascolo. La fanciulla spannava il latte nei grandi secchi di legno e raccoglieva la panna in un mastello per poi versarla nella zangola e fare il burro. Lavorava tranquilla e per ingannare il tempo cantava. Dall'uscio aperto entrava il sole, disegnando sul pavimento un rettangolo luminoso.
La giovane voltava le spalle alla porta e d'un tratto vide scemare la luce nella stanza. Sorpresa ed insospettita — non aveva udito lo scalpiccio dei piedi sulle pietre — voltò la testa a sbirciare, e scorse profilata in terra un'ombra paurosa. Lo spavento l'agghiacciò: male aveva fatto a non barricarsi in casa, mentre spannava il latte, e per di più a cantare. I Salvanchi, ghiottissimi della panna, ne annusavano da lungi il profumo nell'aria, e il canto delle ragazze li eccitava. Sentì il sangue raggelarsi nelle vene, così il canto si era fermato sulle labbra.
L'orrore durò un solo istante e con disperato coraggio, invitò il Salvanco:
- Te ne stai impalato sulla porta? Fatti avanti, dammi almeno il buon giorno - e tirò fuori una panca di sotto la tavola.
L'uomo delle selve emise un grugnito gutturale, appoggiò alla capanna il larice che gli serviva da bastone, curvò il groppone per poter passare, entrò nella baita, affrettandosi a sedere, ché troppo basse erano le travi del tetto, e lo costringevano a rimanere piegato, per non darvi dentro con la testa.
Giungi a buon punto, furbacchione — lo blandi la giovane, manovrando in modo da mettere la grossa tavola d'abete tra sé ed il selvaggio.
- Ffior di latte, freschissimo. Lo senti il profumo, eh? Il malsquadrato grugnì nuovamente e tese le manacce per afferrare il mastello.
- È tutto per te; ne dovranno passare degli anni prima che tu possa scordare una simile scorpacciata.
L'uomo irsuto immerse goloso le labbra sorbendo rumorosamente. Ora la panna, poi la ragazza, pensava: leccornie del genere erano purtroppo rare.
- Che ingordigia! Fa piano. Ti è venuta tutta adesso la premura? Se bevi come una spugna non senti nemmeno il gusto.
Il gigante alzò appena appena gli occhi, pronto a rituffare il muso nella panna, ma la donna proseguì:
- Succhia lentamente, come quando ti butti a terra e tieni la camozza sopra di te. Io intanto canterò.
Doveva cantare, ma, per quanto si sforzasse, l'orgasmo non le lasciava trovare le parole.
Il Salvanco, subodorando un inganno, accennò ad alzarsi dallo sgabello, e allora le balenò alla memoria la vecchia

La canzon dal carimon
cur ca l'è cotta la sent da bon,
gnanca la fema miga l'om...

Cantava e ballava, marcando il tempo con il piede, e l'uomo selvaggio stava lì, a mirare estasiato, tenendo il mastello della panna dinanzi a sé con entrambi le mani.

gnanca l'om l'è miga la fema
gnanca la lana l'è miga la pena...

Cantava e ballava la ragazza, saltando ora qua ed ora là, arrischiando qualche passo fuori dal riparo della grande tavola, ma tosto ritornando d'un balzo al sicuro, temendo d'essere improvvisamente afferrata per un braccio. E sarebbe stata finita.


gnanca 'l fich l'è miga 'l pom,
gnanca 'l pom l'è miga 'l fich,
gnanca la tegia l'è miga 'l castel,
gnanca la cavra l'è miga 'l vedell...

Ormai il Salvanco, ammaliato dalla voce, la seguiva con gli occhi, inebetito come un orso ubriaco di vino. Il momento propizio si avvicinava. Sempre cantando e ballando, la ragazza abbandonò il rifugio sicuro dietro la tavola, e cominciò a girare intorno, appressandosi al Salvanco e ritirandosi indietro per tornarsi ancora a riavvicinare. Gli occhi lucidi dell'uomo selvatico non la lasciavano nei balzi ritmici qua e là per la capanna.

gnanca la tina l'è miga 'l lavegg,
gnanca 'l lavegg l'è miga la tina,
gnanca la nev l'è miga farina,
gnanca la boca l'è miga 'l nas,
gnanca 'l nas miga la boca,
gnanca 'l fil l'è miga la roca,
gnanca la lana l'è miga la stopa,
gnanca la stopa l'è miga la lana...

Quando l'uomo selvatico fu affatturato, la ragazza con un colpo bene assestato sotto il mastello gli buttò in faccia la panna, che si impiastricciò sulla barba incolta, sui baffi e sulle sopracciglia, entrando negli occhi. Il selvaggio emise un urlo e balzò in piedi, ma essendo troppo alto pestò un gran colpo contro il tondone del tetto, ricadendo a sedere. Inferocito, più nulla vedendo perché la panna gli bruciava negli occhi, si stropicciava le palpebre, urlava. Ed ogni volta che con tutta la forza faceva per alzarsi dava di cozzo nel grosso tronco di larice che sosteneva il tetto a lastre di pietra, e non capiva d'essere lui stesso a procurarsi il dolore, ma accecato come era, perso il bene dell'intelletto, si credeva attaccato da chissà qual gigante, assai più robusto di lui, e strepitava da far tremare le valli, dibattendosi e divincolandosi come un orso nella tagliola. Ma più si scontorceva, più andava a cozzare contro le travature e le pesanti lastre del tetto. Ed intanto la ragazza era corsa fuori d'un balzo tirandosi dietro l'uscio e richiudendolo, e scendeva a rompicollo, giù per il pendio, per porsi in salvo. ...

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Anche tra le montagne dei Grigioni c'erano Uomini Selvatici: spalle tozze, quadrate, tronco robusto come quello di un vecchio cembro, braccia muscolose, gambe nervose e velocissime. La loro statura solitamente non superava quella di un ragazzotto, eppure possedevano la forza di un gigante. Ispido vello copriva loro interamente il corpo e si estendeva fin sulla faccia, lasciando liberi solo gli occhi, il naso, le labbra. Baffi, barba, capelli si frammischiavano congiungendosi al pelame delle spalle e del dorso, accentuando l'aspetto caprino.
Vivevano come capre, o per essere più esatti come stambecchi e camosci, perché le capre d'inverno amano il caldo dello stabbiolo, mentre gli Uomini Selvatici avevano orrore di ciò che sentiva di muro e di chiuso. In gara con i camosci, si vedevano balzar velocissimi giù per le erte pendici; saltavano instancabili di greppo in greppo, ignorando le vertigini. Preferivano la solitudine dei grandi boschi, dove la luce è d'oro e verde, il lichene si abbarbica ai tronchi rivestendoli, la terra umida ha profumo di aghi e di muschio. Abitavano in caverne quando non dormivano all'addiaccio, tra le ondulate distese dei pascoli. Forse, nelle notti serene, parlavano con le stelle. I maschi giravano completamente nudi, solo coperti del lungo ispido pelo; le donne si ravvolgevano in pelli di ermellino o martora, di tasso o volpe, grossolanamente cucite insieme. Nella cruda stagione, per resistere ai rigori del clima alpestre si spalmavano il pelame con una sorta di unguento, del quale custodivano gelosi il segreto, e che preparavano impastando grasso di marmotta e midollo d'orso, con il fiele dei falchi. Camminavano sempre a piedi nudi, insensibili alle asperità delle rocce, alle scaglie del sottobosco, al gelo della neve.
Con i boschi, loro incontrastato dominio, avevano un misterioso patto di alleanza. Non portavano forse come bastone un'intera pianta, con fronde e radici? Non si lamentavano forse, e piangevano, quando gli uomini incidevano il piede di un albero, per abbatterlo? A volte avevano persino assalito i boscaioli, urlando infuriati. Tolte quelle ire, violente quanto repentine, gli Uomini Selvatici erano bonari e mansueti e se preferivano far vita solitaria, non rifiutavano aiuto all'uomo; lo prestavano anzi volentieri, accontentandosi di poco o nulla, perché ignoravano il significato ed il valore della proprietà e non ambivano le ricchezze.
Così a Pardenna, presso la Claustra da Partent un Um Selvadi lavorava un'intera annata, accontentandosi di un paio di scarpe. Uova di pernici, di fagiani, di gallinacci costituivano il loro cibo prelibato; femmine di stambecchi e camozze fornivan loro la maggior parte del vitto. Da quelle bestie superbe ed indipendenti gli Uomini Selvatici facevano allattare i propri bambini, ed in tal modo si costituiva una naturale familiarità ed i nobili animali, abituati alla vita libera, amavano quei selvatici uomini, liberi come loro e dai quali nulla avevano da temere, perché non portavano fucili né ricorrevano vilmente alle trappole con il sale. Al primo mattino ed al calar del sole, gli Uomini Selvatici si ponevano due dita in bocca e lanciavano un lungo fischio: al noto richiamo, le bestie sospettose e scontrose accorrevano a frotte, lasciandosi docilmente mungere. La velocità degli Uomini Selvatici, la possibilità di correre intere giornate senza sentire il cuore battere in gola, non dipendeva solamente dal latte di camozza succhiato da piccoli, ma anche dal fatto che, in tenerissima età, si estirpava loro la milza.
Vivendo a contatto immediato con la natura, beandosi delle albe e dei tramonti, partecipando al miracoloso rinnovarsi del mondo nel ciclo ininterrotto delle stagioni, gli Uomini Selvatici capivano il linguaggio delle cose che a noi sembrano inanimate. Strologavano il tempo, conoscevano le virtù terapeutiche dei fiori dell'artemisia e dell'iva, del timo e della lavanda e dell'arnica, ed ancora delle radici della genziana e dell'aconito, del colchico e dell'elleboro che sboccia fra la neve.
Anche i metalli conoscevano, benché non ne valutassero il valore: in Sopraselva insegnarono agli uomini il modo migliore per fondere ferro e piombo. Una contadina di Fuma, villaggio su un vasto ripiano boscoso e prativo sopra la sponda sinistra della val Partenzo, aveva assistito. una Donna Selvatica che dava alla luce un bambino la quale, per ricompensarla, tolse dal focolare alcuni pezzi di carbone: — Accontentatevi di quel che ho.
Non è proprio il caso - si schermì la contadina, e per non offendere la donatrice se li lasciò riporre nel grembiule, ringraziando. Giunta a casa, scosse il povero regalo nel focolare e trasecolò: tra la cenere, più lucenti della brace, brillavano pezzi d'oro purissimo.
La Selvatica che dimorava in un bosco della Poppa, si fermò alla finestra di una casa, curiosandovi dentro; la massaia impastava farina.
- Se così fai - osservò - non otterrai mai un pane lievitato e soffice.
- Proprio tu puoi parlare di raffinatezze - e con la mano bianca di pasta raggrumata la padrona additò il primitivo vestito di pelli dell'abitatrice dei boschi. Pretenderesti di insegnare a me!
- Certo che ti posso insegnare - ribatté quella e facendo seguire i fatti alle parole entrò, impastò, tagliò, infornò destra Veder lavorare quell'ometto peloso e muscoloso era un piacere: sicuro di sé, veloce e prudente nelle più difficili operazioni del casaro. Non un solo granello lasciò nel siero, e tutto raccolse ordinato ed economo nella forma, né mai cacio fu migliore.
Il malgaro rideva sotto i baffi; imparava e riposava, perché l'Uomo Selvatico non sollecitava aiuto alcuno. Appena appena ebbe finito, senza dargli tregua per riflettere, gli chiese: - Il formaggio caprino, lo sai fare?
- Le capre sono simili ai camosci!
- Vuoi dare un saggio della tua abilità?
Insensibile alla fatica, il Selvaggio si mise alacremente all'opera, con animo volonteroso e contento ed alzò gli occhi dal lavoro soltanto quando fu terminato.
L'alpigiano approvando con il capo, dovette convenire che l'individuo dai costumi poco civili, non era affatto da disprezzare.
Sai tu fare la cera? — chiese a sua volta l'Um Selvadi. Che sciocchezze vai spacciando? I miei vecchi, esperti d'ogni arte, non ne hanno parlato.
Loro non lo sapevano, io lo so. Riattizzò il fuoco, vi spinse sopra la caldaia di rame colma di siero, dimenò sempre nello stesso verso, frullò, sbattè ed infine versò nei mastelli una bionda cera, in tutto simile a quella delle api. Benché possedessero innumerevoli arti, gli Uomini Selvatici non si dirozzavano. Uno di essi si era costruito una specie di chiuso, ma senza tetto. Richiesto della ragione di simile dimenticanza, scrollò le spalle:
- Quando è bel tempo non lo uso e quando piove non so che farne.

Gli Uomini Selvatici si lamentavano del bel tempo, perché dopo sarebbe giunta la pioggia. Cantavano e ballavano felici sotto l'acqua, perché dopo il nuvolo il cielo ritorna sereno. Sull'Alpe Neza uno di essi stava all'aperto, intirizzito sotto il vento, con il pelo ritto, solo vestito del proprio vello e borbottava:


- Pioggia è la pioggia, neve è la neve,
ma questo vento,
che brutto tempo!


Caldo e ben coperto, l'alpigiano s'affacciò all'uscio della capanna, ma invece di invitare il poveraccio a ripararsi, lo derise. Allora l'Uomo Selvatico irritato e indispettito fuggì nei boschi.

Si dice che in Vai Davos dietro Fuma, gli Uomini Selvatici siano scomparsi dopo che le campane suonarono per la prima volta.
Verso la fine d'agosto, i pastori di Valleccia in Stossavia, udirono i passi di qualcuno che si avvicinava alla capanna. Avanti! — invitò il padrone, sentendo bussare.
Era ormai notte, e credeva si trattasse di qualche vian­dante solitario.
Nessuno si presentò: silenzio assoluto.
Venite avanti - ripetè rinforzando la voce. Identico risultato.
Si alzò, schiuse la porta, uscì per vedere chi fosse lo strano Visitatore. Sotto il cielo stellato non scorse nessuno. Chiamò, richiamò, ma non ottenne risposta.
Rientrato nella capanna, commentò con i famigli lo strano caso. Un vecchio diede la spiegazione: - È stato lo Spirito del Tempo, a bussare. Ci ha dato l'avviso. Stanotte le Vergini Bianche danzeranno sulle montagne e domani l'Alpe Valleccia sarà coperta di neve.
Durante la notte venne il vento, il tempo si cambiò, ed al mattino l'alpeggio risplendeva bianco sotto il sole.
Il padrone rimirava l'insolito spettacolo: pungente era l'aria e si sentiva le dita intirizzite. Per scaldarle le portava alla bocca e ci soffiava sopra.
Un Uomo Selvatico che bazzicava da quelle parti, ed a volte aiutava i pastori senza pretendere nulla, guardò l'alpigiano ripetere lo stesso gesto e chiese: - Perché soffi sulle dita?
- Con il fiato le riscaldo.
L'abitatore dei boschi non commentò ed andò a lavorare insieme ai famigli. A mezzogiorno ritornò alla capanna, sedette al desco con il padrone, i pastori, i mungitori, i caprai e tutta la numerosa gente dell'alpeggio.
C'era zuppa di latte. Scottava ed il padrone soffiò sul cucchiaio colmo.
- Perché soffi sul cucchiaio?
- Scotta e con il fiato la raffreddo.
L'Uomo Selvatico si alzò ed uscì.
Non comprendendo lo strano comportamento, il padrone lo rincorse: - Invece di mangiare, te ne vai?
- Non posso rimanere accanto ad uno che dalla bocca fa uscire il caldo ed il freddo.

Un Uomo Selvatico sostava davanti ad una capanna di Camana, il vasto alpeggio di Stossavia, sopra i gorghi della Rabiusa. In cucina una donna faceva il formaggio. Vedendolo lo invitò: - Entra a ristorarti: ti darò da bere e da mangiare.
L'ometto rispose: - Non lo posso fare, perché se mi pongo sotto il tetto, comincia a piovere.
- Anche questa debbo sentire - sbottò la donna. - Non si è mai visto sereno piú limpido. Dove la trovi una nube?
L'intera famiglia sui prati segava l'erba, la stendeva al sole ad essicare, la rivoltava con le forche.
- Ti dico che se entro si mette a piovere.
Non essere scortese, entra!
La donna insisteva, l'Uomo Selvatico si rifiutava, fin che quella, spazientita, lo insolentì, lamentandosi perché offendeva l'ospitalità offerta.
- Se proprio lo vuoi - disse l'Uomo Selvatico, ma appena entrato sotto il tetto, grosse nubi salirono da ogni parte dietro i monti, sommersero l'azzurro fin che non ne rimase una sola chiazza, e piovve a secchi.
- Tu ci guasti il fieno! - cominciò ad inveire la donna. - Ci ricambi il bene col male.
Siccome l'Uomo Selvatico non parlava, quella si eccitava sempre più, e passando alle vie di fatto prese il manico di una falce e lo cacciò di casa.
L'ometto peloso corse un po', si sedette su di un masso non lungi dalla capanna, lanciò una minaccia: - Aspetta: ora te ne pentirai. - E scomparve.
Immediatamente la pioggia cessò, il vento spazzò le nubi, il sole tornò a splendere cocente, tanto cocente, che una soffocante calura avvolse l'Alpe Camana. Pareva salisse dalla terra, il caldo, e piovesse dal cielo. In breve l'erba fu asciutta, e cominciò a rinsecchire.
Gli uomini rincasati commentavano la stranezza del tempo, e la donna raccontò la storia dell'Uomo Selvatico, invitato in casa e mandato via malamente.
I giorni passavano, la siccità perdurò. Ogni erba seccò, la terra sollevò polvere. Le mandrie non trovando da sfamarsi, strappavano le radici, muggendo da far pietà. Ogni fonte inaridì.
Scongiuri e minacce degli alpigiani arrabbiati e preoccupati caddero sulla povera donna: la si cacciò di casa, dovette cercare albergo nelle tane fra le gole e sarebbe morta di fame, se una figlia non le avesse pietosamente portato qualche cosa.
Perdurando il sereno, si nutrirono le mucche con il fieno, ma presto anche i fienili furono vuoti, e le povere bestie stecchite cominciarono a morire. Di pioggia, neanche a parlarne.
I pastori proibirono di portare il cibo alla donna nel rifugio di sasso: era causa del male e doveva perire, come le mandrie un tempo fiorenti.
La figlia rattristata uscì di casa, sedette sullo stesso masso dal quale l'Uomo Selvatico aveva scagliato la maledizione, sentì un groppo stringerle sempre più la gola, scoppiò in un pianto dirotto.
Tre lagrime caddero sul secco terreno, e l'Uomo Selvatico apparve.
- Guarda - le disse - piove.
Il cielo si era improvvisamente coperto, ed una pioggia calma, fresca, ristoratrice scendeva blanda sulle zolle inaridite. Pioveva a fili diritti, come nelle notti d'autunno, ed in breve l'erba tornò a spuntare, un verde intenso ricoperse i pascoli ed il bestiame fu salvo. Si andò allora a trarre dalla tana di roccia la donna causa di tanto male, e la si lasciò in pace.

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(Massimo Dei Cas, www.paesidivaltellina.it)

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