1. Bar Bianco-Rif. Salmurano

2. Rif. Salmurano-Rif. Benigni

3. Rif. Benigni-Pescegallo


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Punti di partenza ed arrivo
Tempo necessario
Dislivello in altezza
in m.
Difficoltà (T=turistica, E=escursionistica, EE=per escursionisti esperti)
Rif. Bar Banco- Lago di Culino-Laveggiolo-Rif. Trona Soliva-Diga di Trona-Pich-Sorgente Tronella-Rif. Salmurano
9 h
1400
E
SINTESI. Muniti di pass (acquistato al bar nella piazza centrale di Rasura) ci portiamo alla parte alta di Rasura, andando a sinistra (indicazioni per il Bar Bianco) e saliamo sulla carozzabile chiusa al traffico dei veicoli non autorizzati. Ad un bivio andiamo a sinistra. La salita termina al parcheggio appena sotto il rifugio Bar Bianco (m. 1506). Proseguiamo sul largo sentiero che sale all'alpe Culino e, superata una breve macchia di larici, sale ad intercettare un tratturo che corre quasi pianeggiante (nella salita, ignoriamo un sentiero secondario che si stacca sulla nostra sinistra). Oltrepassiamo la baita del Prato (m. 1705), e ci portiamo ad un casello dell’acqua, dove i cartelli della Gran Via delle Orobie indicano la direzione per il lago di Culino. Attraversata una macchia di larici, eccoci ad una nuova baita (m. 1801) e ad un bivio: ignoriamo la deviazione a sinistra e proseguiamo nella salita, fino ad approdare, dopo un paio di tornanti, all’ampio terrazzo di pascoli dell’alpe di Culino, dove, presso una baita, si trova il caratteristico laghetto di Culino (m. 1959). Proseguiamo verso monte (nord), poi pieghiamo decisamente a destra (est-nord-est) e seguiamo il marcato sentiero che sale sul fianco del crinale, si porta ad una bocchetta e dopo un ultimo tratto sul crinale raggiunge la croce della cima di Rosetta (m. 2147). Torniamo al lago di Culino e prendiamo a destra (sud), portandoci al dosso erboso alle spalle del lago, per scendere, sul versante opposto, ad una splendida conca solitaria, che ospita anch’essa una torbiera. Prendendo come riferimento la baita isolata quotata 1959 metri, proseguiamo verso sinistra, passando a valle della stessa, fino ad intercettare, presso un casello dell’acqua, un marcato sentiero che taglia verso est il fianco del crinale che delimita a sud l’alpe Culino. Il sentiero ci porta alla parte più alta dei prati dell’alpe Ciof, dai quali dobbiamo scendere (est) alla casera quotata 1732 metri. Seguiamo il cartello della direzione verso sud, che dà l’alpe Combana a 30 minuti e l’alpe Stavello ad un’ora. Procediamo sul sentiero che non taglia il pascolo, ma prosegue appena sopra il limite superiore del bosco (leggermente più in basso rispetto alla casera), in direzione sud-est. Dopo il primo tratto, entra in un bosco di larici e comincia a guadagnare quota, per circa duecento metri. Ignorata una deviazione a sinistra, e superato il solco della val Combana, raggiungiamo la baita dell’alpe Combana (m. 1810). Il sentiero prosegue lasciandosela alle spalle, sale verso un bel bosco di larici, taglia un dosso e sbuca nella conca dell’alpe Stavello, dove troviamo il rifugio Alpe Stavello (m. 1944), aperto nella stagione estiva. Scendiamo al limite del prato antistante verso sud-est (destra). Se guardiamo con attenzione, vedremo che, quasi intagliato nel fianco roccioso della Val di Pai, parte, verso destra, una mulattiera esposta (per renderla più sicuro è stata attrezzata con corde fisse e con un ponticello in legno). In breve scendiamo a luoghi più tranquilli, incontrando subito una deviazione a sinistra (segnalata su un masso; attenzione a non proseguire diritti su invitante sentiero), che ci fa scendere verso il solco della valle, passando fra imponenti larici (località Carunèla). Raggiungiamo un’ampia radura, attraversata in diagonale la quale (attenzione ai segnavia) ritroviamo, non lontano dal torrente, il sentiero, che ci porta, scendendo ancora, ad una radura minore ed a due ruderi di baita. La lunga discesa, in una macchia di larici, termina ad un'ampia radura con un ponticello con alcuni cartelli escursionistici. Superiamo dunque il torrente a quota 1497. Passati sull’altro lato della valle (il destro), non seguiamo un sentiero che prende a sinistra, in piano, seguendo la riva del torrente della Val di Pai, ma il sentierino che se ne allontana salendo su un versante segnato da una slavina (segnavia bianco-rossi), portandosi con qualche tornantino ad intercettare un più marcato sentiero, che seguiamo verso sinistra. Procedendo in piano o con qualche saliscendi, tagliamo un versante un po' umido (attenzione ai sassi scivolosi), in un bel bosco di abeti e scendiamo ad intercettare una pista sterrata sopra la località di San Giovanni, a 1460 metri circa. Dirigiamoci a sinistra: la pista scende per un tratto, proponendo pochi tornanti, poi passa per un ampio slargo-parcheggio ed infine intercetta una più larga strada sterrata che sale da Gerola e Castello a Laveggiòlo. La seguiamo andando a destra e salendo per breve tratto fino a Laveggiòlo (“lavegiöl”, m. 1470), dove troviamo un parcheggio ed un pannello illustrativo. Incamminiamoci poi sulla pista sterrata per la Val Vedrano fino a trovare, dopo un breve tratto, sulla sinistra, un cartello della G.V.O. che segnala la partenza di un sentiero (segnalato da segnavia rosso-bianco-rossi) che se ne stacca per portarsi, con tracciato più diretto, al guado del torrente Vedrano. Lo imbocchiamo e, dopo una breve e poco marcata discesa, procediamo quasi in piano, superando alcune baite; ad un bivio, presso una fontanella ed un casello del latte, ignoriamo la traccia meno marcata che sale verso destra (indicazione “Vedrano” su un masso), procedendo diritti. Superati in rapida successione due modesti corsi d’acqua, usciamo dal bosco e superiamo un torrentello, per poi scendere leggermente fino al ponticello di travi in legno che ci permette di superare il torrente Vedrano (m. 1541). Sul lato opposto della valle troviamo subito, a destra, un’amena radura, con un tavolo in legno e due panche per chi volesse sostare. Non seguiamo l'indicazione "Castello" ma la larga mulattiera che sale sul fianco boscoso della valle e, dopo un traverso a sinistra, propone una sequenza di tornanti dx, sx, e dx, prima di intercettare, a quota 1595, la medesima pista sterrata che abbiamo lasciato poco dopo Laveggiolo. La seguiamo salendo con diversi tornanti. La pista si affaccia quindi all'ampio bacino dell'alta Valle della Pietra e, proseguendo con qualche modesto saliscendi, che ci conduce diritta al rifugio Trona Soliva (m. 1907). Proseguiamo sul sentiero per la bocchetta di Trona e ad un bivio segnalato lo lasciamo andando a sinistra (indicazioni GVO): dopo qualche saliscendi siamo alla diga di Trona (m. 1805). Attraversiamo il camminamento da destra a sinistra e saliamo per un tratto fino al sentiero che proviene da Pescegallo, prendiamo destra, sul fianco orientale della valle, fino a trovare, su un grande masso scuro, la scritta “Lago Rotondo”. Lasciamo, ora, il sentiero che si addentra nella valle di Trona, prendendo a destra e scendendo al già visibile specchio d’acqua del lago di Zancone (m. 1856). Torniamo indietro sul medesimo sentiero e proseguiamo verso nord-est, sul marcato sentiero che porta al poggio del Pich (pozza, baita, m. 1835), piega a destra e, dopo tratto in piano, scende ripido ad un pianoro ed al torrente della Val Tronella, attraversandolo. Prosegue verso ovest in pecceta, fino ad una baita solitaria con bivio segnalato: lo lasciamo salendo a destra (sud), verso la Val Tronella, fino alla sorgente Tronella (m. 1808). Qui siamo ad un trivio, e prendiamo a sinistra (nord-est, GVO), tagliando il versante che scende dalla rocca di Pescegallo, volgendo a destra (sud) ed intercettando la pista Pescegallo-Salmurano, a reve distanza dal rifugio di Salmurano (m. 1848).


La cima della Rosetta

Ogni laghetto alpino conferisce all’ambiente che lo ospita un carattere di compiutezza ed armonia, tanto che un’escursione che lo raggiunga sembra che non abbia bisogno di prosecuzione per considerarsi conclusa e per sé significativa. Eppure, dietro questa facciata di quiete idilliaca, si cela una storia travagliata, una dinamica che affonda le sue radici in epoche remote, e si proietta in un futuro lontano. Nel mezzo, la vita, lo splendore, ma anche il progressivo invecchiamento di questi specchi d’acqua, destinati, quale più, quale meno rapidamente, alla scomparsa. Fra le valli del versante orobico valtellinese la Valle del Bitto di Gerola è, senz’altro, la più ricca di laghetti, per bellezza e varietà, e non solo per numero, superiori a quelli di ogni altra valle. Tre giorni sono il tempo necessario e sufficiente per visitarli tutti, in una lunga traversata che tocca buona parte dell’ampia valle che si apre alle spalle di Morbegno, nella bassa Valtellina.
Traversata che inizia e si conclude all’agriturismo Bar Bianco, sopra
Rasura, il secondo paese, dopo Sacco, ed il primo comune che si incontra, a 9 km da Morbegno, salendo in valle lungo la ex statale 405, ora strada provinciale, (che si imbocca, per chi proviene da Milano, staccandosi sulla destra, dalla ss. 38 dello Stelvio, al primo semaforo posto all’ingresso di Morbegno). All’agriturismo ci si può portare con l’automobile (previo acquisto del pass al bar centrale di Rasura), salendo alla parte alta di Rasura e prendendo a sinistra ad un bivio: una strada asfaltata, che si fa sterrata nell’ultimo tratto, ci porta, dopo 6 km, direttamente al piazzale che lo serve (m. 1506). Dai prati a monte dell’agriturismo, sulla sinistra, parte un evidente tratturo che, dopo un tratto assai ripido, intercetta un largo sentiero. Prendendo a destra, giungiamo alle baite quotate 1606 e, ignorando una segnalazione sulla destra (“Cima Rosetta 124 B”), proseguiamo, salendo in diagonale, ignorando una deviazione a sinistra ed oltrepassando la baita del Prato (m. 1705), fino ad un casello dell’acqua, dove i cartelli della Gran Via delle Orobie indicano la direzione per il lago di Culino ("lach de cülìgn”, toponimo che deriva da "aquilino") e la cima della Rosetta.
Attraversata una macchia di larici, eccoci ad una nuova baita (m. 1801) e ad un bivio: seguendo le indicazioni della G.V.O. proseguiamo nella salita, fino ad approdare, dopo un paio di tornanti, all’ampio terrazzo di pascoli dell’alpe di Culino, dove, presso una baita, si trova il caratteristico laghetto (m. 1959). Il piccolo bacino che lo ospita è di probabile origine morenica, ai piedi dell’ampia conca che si apre a monte della Valmala ("val màla", detta anche "val del pich"). A sud del laghetto si trova un’ampia torbiera, cioè quel caratteristico terreno di natura palustre che circonda molti laghetti di questo tipo, anzi, li stringe in un vero e proprio assedio, il cui esito, anche se in tempi ben più lunghi rispetto a quelli della singola esistenza umana, è già scritto: la capitolazione.
La torbiera è un vero e proprio tipo di suolo, di natura puramente o prevalentemente organica, con una componente minerale nulla o trascurabile; tuttavia ha anche le caratteristiche di un substrato sedimentario, simile a quello dei carboni fossili. Essa si forma nei pianori chiusi da bordi rialzati, dove l’acqua, ristagnando, determina zone umide in cui il l'azione di decomposizione viene rallentata dalla scarsa ossigenazione e dall'ambiente acido. Si accumula, così, uno strato di materiale vegetale che prende il nome di torba ed è caratterizzato da un elevato contenuto di carbonio organico. Questo rende la torba un ottimo combustibile, con un potere calorico che può essere superiore a quello del legno, e proprio come combustibile è sempre stata raccolta ed utilizzata. Nella torbiera, accanto a muschi e sfagni, prosperano carici e giunchi, spesso vivacizzati dai pennacchi degli eriofori, simili a batuffoli di cotone.


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La torbiera, nella sua lenta ma inesorabile avanzata, è destinata ad essere la principale causa dell’interramento futuro di questo laghetto: le specie vegetali producono una quantità più o meno considerevole di materiale vegetativo, i cui resti morti tendono ad accumularsi sul fondale, determinando un suo graduale innalzamento. La diminuzione della profondità dello specchio d’acqua offre, a sua volta, nuovi spazi che, quando sono prossimi al pelo dell’acqua, vengono rapidamente colonizzati da altre piante.
Si assiste, così, al graduale avanzamento, verso il centro del lago, della vegetazione, costituita da comunità diverse che si associano e si alternano nel processo di interramento. Le truppe d’assalto sono quelle più acquatiche, mentre in retroguardia stanno quelle meno igrofile, che colonizzano il suolo meno imbevuto d’acqua. Intorno al laghetto di Culino le briofite, e gli sfagni in particolare, hanno creato un vasto aggallato, che si comporta come una zattera semigalleggiante e si espande verso le sue acque. Ci si mettono, infine, anche, anche le vere e proprie piante acquatiche, come lo Sparganium Angustifolium, che, approfittando delle acque ferme e poco profonde del laghetto, ne ricopre gran parte della superficie. Possiamo immaginare, dunque, quale sarà lo scenario futuro, anche se i nostri occhi non lo verranno mai: al laghetto si sostituirà una piana di torbiera, simile ad altre più illustri ed estese piane, come il pianone della
Val Porcellizzo, ai piedi dei pizzi Badile e Cengalo, o, sempre in Val Masino, la piana di Preda Rossa, ai piedi del monte Disgrazia. La citazione di queste cime non è casuale: dall’alpe Culino (“cülign”, toponimo che deriva da "aquilino"), infatti, si gode di un ottimo colpo d’occhio che abbraccia il gruppo del Masino-Disgrazia (gran parte della Val Gerola, peraltro, possiede questa felice particolarità panoramica).


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A proposito di panorama: è a portata di mano, si può ben dire, ad un quarto d’ora di cammino, la segnalata cima della Rosetta (m. 2147), dalla quale si offre un panorama a 360 gradi di grande impatto e suggestione. Non possiamo mancare di cogliere un’occasione così propizia.
Ridiscesi all’alpe Culino, ci rimettiamo in cammino, per riagganciare l’Alta Via delle Orobie, dalla quale ci siamo staccati alla baita quotata m. 1801. Per farlo, guadagniamo il modesto e panoramico dosso erboso alle spalle del lago, per scendere, sul versante opposto, ad una splendida conca solitaria, che ospita anch’essa una torbiera. Prendendo come riferimento la baita isolata quotata 1959 metri, proseguiamo verso sinistra, passando a valle della stessa, fino ad intercettare, presso un casello dell’acqua, un marcato sentiero che taglia il fianco del crinale che delimita a sud l’alpe Culino. Il sentiero ci porta alla parte più alta dei prati dell’alpe Ciof, dai quali dobbiamo scendere alla casera quotata 1732 metri. Qui ritroviamo la Gran Via delle Orobie (denominata anche, nella sua sezione occidentale, Sentiero Andrea Paniga) e, seguendo il cartello indicatore, prendiamo a destra, in direzione dell’alpe Combana (data a 30 minuti) e di
Laveggiolo (“Lavegiöl”, frazione sopra Gerola Alta, centro principale della valle, data a 2 ore e 20 minuti).


Casera all'alpe Ciof

Dopo il primo tratto, entra in un bosco di larici e comincia a guadagnare quota, per circa duecento metri. Ignorata una deviazione a sinistra, e superato il solco della val Combana, raggiungiamo, infatti, la baita dell’alpe Combana (m. 1810). Questa parte del sentiero suscita emozioni contrastanti: gli alpeggi offrono scenari gentili ed aperti, ma i boschi lasciano intravedere versanti che cadono, ripidi, sugli anfratti ombrosi di valli profonde, la val Combana e, ancor più, la successiva val di Pai. La deviazione a sinistra, ignorata, porta proprio nel cuore di questa seconda valle, ad un ponte sul torrente, che permetterebbe di accorciare il percorso di un buon tratto. Meglio, però, rimanere più in alto.
All’alpe Combana, oltretutto, ci viene offerta l’occasione di un secondo interessante fuori-programma, che richiede circa due ore di supplemento di marcia. Invece di proseguire verso la casera di Stavello, prendiamo a destra, risalendo, senza percorso obbligato, la solare e solitaria parte alta della val Combana.
Oltrepassate un paio di baite dell’alpe Piazzi di Fuori, guadagniamo la conca terminale. Portiamoci ora nella sua parte sinistra, risalendo verso il piede della testata fra massi e sfasciumi. Incontreremo, qua e là, tracce di sentiero. Raggiunto il piede di una formazione rocciosa, troveremo un sentiero che ci porta facilmente all’erbosa cima del monte Stavello, a 2416 metri. Dalla conca non è facile individuare la cima, posta ad ovest-sud-ovest rispetto all’ultima baita dell’alpe. Sta alla nostra sinistra e non è molto pronunciata.
Torniamo però ora alla baita di Combana: il sentiero se la lascia alle spalle, sale verso un bel bosco di larici, taglia un dosso e sbuca nella conca dell’alpe Stavello, baitone e dalla casera di Stavello (“baitùn” e “casera de stavél”, m. 1944, nella parte bassa dell’alpe omonima; il termine deriva dal termine dialettale “stabiéll”, stalla, e si trova anche in altri luoghi della Valtellina, cioè in Val Lesina, in Val Grosina, sopra Tirano e Lovero). Il baitone è stato ristrutturato ed ospita oggi l'azienda agrituristica e rifugio Alpe Stavello, aperto nella stagione estiva, che offre servizio di pernottamento su prenotazione (telefonare al 334 7652242; cfr. www.alpestavello.it; per contatti via mail info@alpestavello.it), oltre alla possibilità di ristorazione e di consultazione di un'interessantissima biblioteca.
L'alpe è menzionata già in un documento del 1291, l'atto di vendita dell'alpeggio dalla famiglia Gamba di Bellano ai Capifamiglia di Pedesina. A quel tempo l'alpe Stavello comprendeva anche gli attuali alpeggi di Combana e Combanina. Dopo la Prima Guerra Mondiale la proprietà dell'alpe passò dalla famiglia di Lorenzo Rabbiosi di Rasura alla famiglia Martinelli di Morbegno, che ancora la possiede. Fino a quegli anni l'alpeggio caricava circa 100 capi e vi lavoravano dalle 20 alle 25 persone, una vera e propria piccola comunità con le sue figure e gerarchie (con al vertice il capo, o vecc', ed il casaro), i riti ed i ritmi della vita d'alpeggio di cui oggi si stenta ad immaginare la durezza.


Il rifugio Alpe Stavello

Propongo un terzo fuori-programma, più lungo dei precedenti, e quindi riservato ai grandi camminatori. Dal baitone imbocchiamo il marcato sentiero che sale, verso sud-ovest, in direzione di una formazione rocciosa, che viene tagliata: ci introduciamo, così, nell’ampio anfiteatro dell’alta val di Pai. Siamo su un sentiero, marcato con segnavia rosso-bianco-rossi, che, superata una baita a quota 2000, si dirige verso il ben visibile intaglio nella testata della valle, la bocchetta di Stavello, che viene raggiunta dopo un ultimo ripido tratto. 
La bocchetta, a quota 2201, dà sull’alta val Fràina, laterale della Val Varrone, dalla quale giunge il sentiero Cadorna, tracciato durante la Prima Guerra Mondiale per portare pezzi d’artiglieria alle fortificazioni che sono ancora visibili nei pressi della bocchetta stessa. Troviamo anche una
breve galleria scavata nella roccia e che era parte integrante del sistema di fortificazioni. Dalla bocchetta parte, verso destra, una traccia di sentiero che, appoggiandosi alla parte sinistra (di sud-ovest) del crinale, conduce facilmente alla cima erbosa del monte Rotondo (m. 2495), sormontata da una statua della Madonna. Il panorama, da qui, è, nelle giornate limpide, particolarmente ampio e suggestivo. Questo terzo fuori-programma richiede circa due ore e mezza di cammino in più.
D’accordo, adesso diamo un taglio ai fuori-programma e torniamo al sentiero Paniga. Eravamo al baitone di Stavello. Scendiamo al limite del prato antistante verso sud-est (destra). Se guardiamo con attenzione, vedremo che, quasi intagliato nel fianco roccioso della Val di Pai, parte, verso destra, un sentiero abbastanza largo, ma assai esposto (per renderlo più sicuro è stato attrezzato con corde fisse e con un ponticello in legno). Si tratta della mulattiera fatta scavare nella viva roccia, ad inizio Novecento, dalla famiglia di Lorenzo Rabbiosi di Rasura. In breve, però, scendiamo a luoghi più tranquilli, incontrando subito una deviazione a sinistra (segnalata su un masso; attenzione a non proseguire diritti su invitante sentiero), che ci fa scendere verso il solco della valle, passando fra imponenti larici (località Carunèla). Sono luoghi di grande bellezza, fra i più suggestivi della val Gerola.
Raggiungiamo un’ampia radura, attraversata in diagonale la quale (attenzione ai segnavia) ritroviamo, non lontano dal torrente, che scende qui rinserrato in aspre rocce, il sentiero, che ci porta, scendendo ancora, ad una radura minore ed a due ruderi di baita. La lunga discesa, in una macchia di larici, termina ad un'ampia radura con un ponticello con alcuni cartelli escursionistici. Superiamo dunque il torrente (“ul bit de la val de pài”; “bit” è termine generico che significa “torrente”), a quota 1497.


Laveggiolo

Passati sull’altro lato della valle (il destro), non seguiamo un sentiero che prende a sinistra, in piano, seguendo la riva del torrente della Val di Pai, ma il sentierino che se ne allontana salendo su un versante segnato da una slavina (segnavia bianco-rossi), portandosi con qualche tornantino ad intercettare un più marcato sentiero, che seguiamo verso sinistra. Procedendo in piano o con qualche saliscendi, tagliamo un versante un po' umido (attenzione ai sassi scivolosi), in un bel bosco di abeti e, lasciato il torrente sempre più in basso, scendiamo ad intercettare una pista sterrata sopra la località di San Giovanni, a 1460 metri circa. Dirigiamoci a sinistra: la pista scende per un tratto, proponendo pochi tornanti, poi passa per un ampio slargo-parcheggio ed infine intercetta una più larga strada sterrata che sale da Gerola e Castello a Laveggiòlo. La seguiamo andando a destra e salendo per breve tratto fino a Laveggiòlo (“lavegiöl”, m. 1470), dove troviamo un parcheggio ed un pannello illustrativo.


Sentiero Laveggiolo-Val Vedrano

L’antico nucleo è citato già in un documento del 1321, dove risulta costituito  da tre nuclei famigliari, tutti Ruffoni, che discendono da un unico capostipite, tal ser Ugone. È collocato su una fascia di prati assai panoramica (il colpo d’occhio sul gruppo del Masino e sulla testata della Val Gerola è davvero suggestivo), nella parte mediana del lungo dosso che scende verso est dalla cima del monte Colombana (“ul pizzöl”, m. 2385). Il suo nome deriva, probabilmente, da "lavegg", la nota pietra grigia molto utilizzata in Valtellina per ricavarne piatti ed altri utensili.
Dalla spianata del parcheggio, dove si trova anche un’edicola del Parco delle Orobie Valtellinesi, parte una pista sterrata che si dirige verso l’imbocco della Val Vedràno (“val vedràa”), il cui torrente, omonimo, confluisce nel Bitto poco a nord di Gerola.
Si tratta di una pista chiusa al traffico; un gruppo di cartelli vicino a quello di divieto di accesso ci segnala, fra l’altro, che imboccando la pista procediamo sulla Gran Via delle Orobie (G.V.O.) ed insieme sul Sentiero della Memoria (a ricordo del ripiegamento della 55sima brigata partigiana Fratelli Rosselli, che effettuò, nel novembre del 1944, la traversata Valsassina-Val Gerola-Costiera dei Cech-Valle dei Ratti-Val Codera-Svizzera), che ci porta, in un’ora e mezza, al rifugio di Trona Soliva; da qui, poi, con un’ulteriore ora di cammino, possiamo portarci al rifugio Falc. Incamminiamoci, dunque, sulla pista, fino a trovare, dopo un breve tratto, sulla sinistra, un cartello della G.V.O. che segnala la partenza di un sentiero (segnalato da segnavia rosso-bianco-rossi) che se ne stacca per portarsi, con tracciato più diretto, al guado del torrente Vedrano. Lo imbocchiamo e, dopo una breve e poco marcata discesa, procediamo quasi in piano, superando alcune baite; ad un bivio, presso una fontanella ed un casello del latte, ignoriamo la traccia meno marcata che sale verso destra (indicazione “Vedrano” su un masso), procedendo diritti. Superati in rapida successione due modesti corsi d’acqua, usciamo dal bosco e superiamo un torrentello, per poi scendere leggermente fino al ponticello di travi in legno che ci permette di superare il torrente Vedrano (m. 1541).


Apri qui una panoramica su Val Gerola e Valle di Trona dalla pista per il rifugio Trona Soliva

Sul lato opposto della valle troviamo subito, a destra, un’amena radura, con un tavolo in legno e due panche per chi volesse sostare; un’indicazione su un masso (“Castello”) segnala che giunge fin qui anche un sentiero che parte più in basso, dalla località Castello. Il sentiero, che qui diventa larga mulattiera, prende a salire sul fianco boscoso della valle, ingentilito da luminosi larici e, dopo un traverso a sinistra, propone una sequenza di tornanti dx, sx, e dx, prima di intercettare, a quota 1595, la medesima pista sterrata che abbiamo lasciato poco dopo Laveggiolo. Se preferiamo una traversata tranquilla possiamo seguire interamente la pista che propone alcuni tornanti e si affaccia all'ampio bacino dell'alta Valle della Pietra, conducendo diritta, con qualche saliscendi, al rifugio Trona Soliva, oppure cercare alcune ripartenze della storica mulattiera e percorrerne i tratti rimasti.


Laveggiolo dalla pista agro-silvo-pastorale per il rifugio Trona Soliva

Seguendo il sentiero, che corre un po' più basso rispetto alla pista, dopo un tornante a destra ed il successivo a sinistra, percorriamo un lungo traverso, superando un primo traliccio, un torrentello ed un secondo traliccio (si tratta della linea ad alta tensione che scavalca il crinale orobico in corrispondenza della bocchetta di Trona), presso una radura. Passiamo, poi, accanto alla baita isolata quotata 1725 metri. Una sosta ed uno sguardo alle nostre spalle ci permette di ammirare l’ottimo colpo d’occhio sulle cime del gruppo del Masino, dal pizzo Cengalo al monte Disgrazia.
Dopo il successivo tornante a destra, troviamo, sulla sinistra, il cartello che segnala la ripartenza della mulattiera che abbiamo lasciamo un bel tratto sotto. Saliamo per un tratto verso sinistra, poi affrontiamo una sequenza di tornanti dx-sx-dx-sx ed usciamo dalla macchia di larici, attraversando una piccola radura fino ad una roccia affiorante, per poi volgere di nuovo a destra. Dopo un ultimo tornante a sinistra, raggiungiamo una radura con un tavolo in legno e due panche: siamo alla “furscèla” (m. 1888), cioè alla forcella, piccola bocchetta sul crinale che dal Piazzo (“piz di piàz”, m. 2269) scende verso est.
Ci affacciamo, così, sulla soglia settentrionale dell’ampio bacino dell’alpe di Trona e si apre davanti a noi l’intera testata della Val Gerola, che mostra, da est (sinistra), il monte Verrobbio (m. 2139), il pizzo della Nebbia (“piz de la piana”, m. 2243), i pizzi di Ponteranica (“piz de li férèri” o “piz ponterànica”, orientale, m. 2378, meridionale, m. 2372, occidentale, m. 2372), l’agile spuntone del monte Valletto (“ul valèt” o “ul pizzàl”, m. 2371), la compatta compagine della Rocca di Pescegallo (o Denti della Vecchia, “ul filùn de la ròca” o “denc’ de la végia”, cinque torrioni il più alto dei quali è quotato m. 2125 e che vengono visti come un unico torrione da Gerola, chiamato anche “piz de la matìna” perché il sole vi sosta, appunto, la mattina), i pizzi di Mezzaluna (“li mezzalüni”, vale a dire il pizzo di Mezzaluna, m. 2333, la Cima di Mezzo ed il caratteristico ed inconfondibile uncino del torrione di Mezzaluna, m. 2247), il pizzo di Tronella (“pìich”, m. 2311), il regolare ed imponente cono del pizzo di Trona (“piz di vèspui”, m. 2510) ed infine il più famoso ma non evidente, per il suo profilo tondeggiante e poco pronunciato, pizzo dei Tre Signori (“piz di tri ségnùr”, m. 2554, chiamato così perché punto d’incontro dei confini delle signorie delle Tre Leghe in Valtellina, degli Spagnoli nel milanese e dei Veneziani nella bergamasca).


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Dopo qualche saliscendi, saliamo ad intercettare la pista sterrata che prosegue fino al rifugio (possiamo seguirla senza mai lasciarla da Laveggiolo), a monte del quale si trova un frangi-valanghe in cemento, su cui è scritto “Rifugio di Trona 10 min.” Pochi metri più avanti, infatti, dopo una semicurva ci appare la struttura del rifugio: ci vien da pensare che 10 minuti è stima ottimistica, e ci vorrà almeno un quarto d’ora. Dopo aver superato il punto nel quale ci intercetta, salendo da sinistra, il sentiero che sale diretto dal fianco orientale della Val della Pietra (segnalazione su un masso), ci attende una discesa che ci porta ad attraversare un torrentello, prima di riprendere a salire. Attraversato il torrentello, alziamo lo sguardo verso il crinale nel quale culminano gli alpeggi: vedremo, alla sommità di una sorta di enorme scivolo erboso, il profilo sfuggente del pizzo Mellasc. Poi un ultimo tratto con qualche saliscendi ci porta al grande edificio del rifugio di Trona Soliva (“casèri végi”, la Casera vecchia di Trona sulla carta IGM, m. 1907), che offre i servizi di pranzo, di mezza pensione o pensione completa, con piatti tipici valtellinesi fatti in casa (pizzoccheri fatti a mano, gnocchi di patate al grano saraceno prodotti nel rifugio stesso, polente e carni, dolci fatti in casa) o classici della cucina italiana (lasagne, paste fresche all'uovo fatte in casa, ...). A 15 minuti dal rifugio c'è anche una palestra attrezzata di arrampicata su roccia. Diverse arrampicate con diversi gradi di difficoltà si trovano da mezz'ora di cammino in poi. Dal rifugio si possono effettuare diverse escursioni, comprese le salite al pizzo dei Tre Signori ed al pizzo Mellasc', che domina con la sua verde ed un po' sfuggente cima il versante ad ovest del rifugio.


Il rifugio di Trona Soliva

Se guardiamo, durante la sosta ristoratrice, verso sud-sud-est, vedremo il secondo incontro lacustre, annunciato dallo sbarramento della diga di Trona. Si tratta, infatti, di un bacino artificiale, che ha ampliato, però, un precedente lago naturale, incorniciato, sulla sinistra, dalla costiera con il pizzo di Tronella, il torrione, il dente ed il pizzo della Mezzaluna, e sulla destra dal profilo imponente, regolare e tondeggiante del pizzo di Trona ("piz di vèspui", m. 2510), alla cui destra si riconosce appena, defilato e poco pronunciato, il più celebre pizzo dei Tre Signori (m. 2554), che deve il suo nome all’incontro dei confini storici della terra di Valtellina, possesso, nell’età moderna, dei Grigioni, della bergamasca, possesso della Repubblica Veneta, e della terra dell’alto Lario, possesso degli Spagnoli, signori del Ducato di Milano.


Pizzo di Trona, lago di Trona e pizzo dei Tre Signori dall'alpe di Trona

Sempre seguendo le indicazioni della Gran Via delle Orobie, ad un bivio lasciamo sulla destra il sentiero che sale alla bocchetta di Trona ("buchéta de Truna": si tratta dell’antichissima Via del Bitto, da Morbegno ad Introbio, in Valsassina, il più agevole collegamento storico fra il lecchese e la Valtellina) e ci portiamo allo sbarramento della diga di Trona. Due parole sul toponimo “Trona” vanno, a questo punto, spese, visto che lo abbiamo trovato riferito ad un lago-bacino artificiale, ad un pizzo e ad una importante bocchetta. Esso significa “cavità”, “caverna”, e si giustifica con riferimento non solamente alla presenza di cave di minerale ferroso, assai sfruttate, in passato, ma anche alla natura particolare di queste montagne, ricche di cavità naturali che determinano, fra l’altro, fenomeni di carsismo, per cui i corsi d’acqua appaiono e scompaiono, in un gioco difficile da decifrare.


Lago Zancone

Ma torniamo alla diga, posta a 1805 metri di quota. In origine vi era, qui, un laghetto di origine glaciale; nei primi anni Quaranta del secolo scorso, però, la società Orobia ne modificò l’assetto costruendo la diga, attualmente gestita dall’ENEL, che ha una capacità di 5.196.000 metri cubi d’acqua, e rappresenta il maggior serbatoio per la produzione di energia elettrica in Val Gerola. L'acqua viene raccolta anche dal versante della bergamasca (Val Biandino) ed alimenta la centrale di Gerola. Non disperiamo, però, di poter ammirare, in questa zona, uno scenario interamente naturale. C'è, ed è immediatamente a monte della diga, nascosto alla nostra vista.
Si tratta del laghetto di Zancone, uno dei più belli delle Orobie. Per raggiungerlo dobbiamo attraversare il camminamento della diga verso sinistra, salire per un tratto fino al sentiero che proviene da Pescegallo, procedere verso destra, sul fianco orientale della valle, fino a trovare, su un grande masso scuro, la scritta “Lago Rotondo”. Lasciamo, ora, il sentiero che si addentra nella valle di Trona, prendendo a destra e scendendo al già visibile specchio d’acqua del laghetto, posto a 1856 metri di quota, e risparmiato, rispetto al progetto originario, che prevedeva il suo inglobamento nel bacino artificiale di Trona. Alle spalle delle sue rive paludose si stagliano le rocce rossastre della testata della valle. Alcuni massi affiorano, a mo’ di isolotti, e dalle sue acque quiete sembra spirare un profondo senso di pace. Può avere, un lago così pacifico, dei nemici? Qui il processo di interramento e l’assedio dei nemici vegetali sembra assai meno temibile, ma non è assente. Le acque un po’ più profonde paiono assicurare allo splendido laghetto un futuro più rassicurante rispetto a quello di Culino.


Val Tronella

La zona è assai interessante anche dal punto di vista geologico, in quanto presenta estesi affioramenti della cosiddetta formazione di Collio. Tutta la fascia orobica era, in epoche remote, occupata da paludi e laghi, il cui materiale di deposito si è poi saldato in conglomerati che ora affiorano nelle zone più elevate della catena, in seguito al processo di sollevamento che ha originato la catena alpina. E’ questa, dunque, l’origine di rocce risalenti al Permiano Inferiore, quali la già citata Formazione di Collio, sedimentazione continentale fluviale e lacustre, prevalentemente costituita da arenarie verdi o nere, ed il Conglomerato di Ponteranica, costituita dai conglomerati di ciottoli, da vulcaniti e da arenarie rossastre formatisi nelle zone marginali e poco profonde degli stessi bacini lacustri. In questi tempi remoti, dunque, quelle che ora sono rocce costituivano il fondo di laghi e fiumi.


Impronta fossile di un esemplare dei tetrapodi del Permiano nelle rocce del comprensorio Trona-Inferno

Durante il Permiano Superiore si formarono anche quei depositi alluvionali che diedero origine all'attuale cosiddetta formazione del Verrucano lombardo, la roccia rossastra che conferisce una dominante cromatica a queste montagne: si tratta di un conglomerato costituito da detriti portati a valle da corsi d'acqua che confluivano nelle grandi pianure. Per questo motivo queste arenarie, verdi, rosse o nere, antichissimi fondali bassi o rive sabbiose di bacini lacustri, conservano un’impronta interessantissima della vita di circa 250 milioni di anni fa. In particolare, sono state scoperte in questa zona le impronte fossili di rettili preistorici di piccole o medie dimensioni: i più grandi, di 7-8 cm., potrebbero essere paragonabili alle attuali iguane, e costituiscono gli antenati dei dinosauri.


Sorgente Tronella

Dopo questa divagazione geologica, torniamo sui nostri passi, riportandoci sul sentiero che dalla diga di Trona procede verso Pescegallo, portandosi sul filo del lungo dosso che scende verso nord dal pizzo di Tronella. Qui troviamo una caratteristica pozza le cui acque assumono, in autunno, una colorazione rossastra. Le pozze alpine, spesso ignorate e neglette, meriterebbero un discorso a parte. Sono, infatti, un po’ le sorelle minori del laghetti alpini, in quanto anch’esse si sono originate dall’azione erosiva dei ghiacciai, laddove questi hanno scavato delle conce nella roccia, che hanno, poi, permesso la raccolta dell’acqua, impedendo che filtrasse nel terreno o defluisse verso valle. Sono state sempre assai preziose come fonte alla quale abbeverare il bestiame. Poi, complice anche l’abbandono dei pascoli, il loro delicato ecosistema si è alterato e molte di esse hanno cominciato ad interrarsi. Questa pozza, collocata sul Pich, panoramicissimo dosso quotato 1835 metri, poco a monte rispetto ad una baita isolata, sembra, però, resistere tenacemente a questo processo di lento soffocamento. Proseguendo sul sentiero, aggiriamo il dosso, e ci affacciamo alla parte orientale dell’alta Val Gerola, costituita dalle valli di Tronella e Pescegallo (oltre che dalla Val Bomino, che però da qui resta nascosta). Dopo un breve tratto pianeggiante, inizia una ripida discesa, che ci porta ad una fascia di pascoli più bassa, dove dobbiamo prestare un po’ di attenzione, perché il sentiero riprende sulla sinistra scendendo ad una conca inferiore. Attraversato un torrentello, continuiamo a scendere, fino ad una baita solitaria, dove troviamo un cartello che indica, sulla destra, la deviazione per la val Tronella.
Lasciamo, quindi, il sentiero per Pescegallo e cominciamo a salire in questa splendida valle, fra pascoli e splendide macchie di larici. Il panorama, alle nostre spalle, è davvero emozionante. La salita ha come meta la sorgente Tronella (che sgorga dal “böc’ de Trunelìna”, m. 1808), presso la quale un piccolo sbarramento ha costituito un laghetto artificiale. La sorgente scaturisce dal cuore stesso delle rocce sulla costiera orientale della valle, caratterizzata dalla caratteristica formazione denominata Denti della Vecchia o Rocca di Pescegallo. Tutte le montagne di questa zona, data la natura delle rocce, di cui si è detto, sono state finemente modellate, dagli agenti atmosferici, in guglie, torrioni e spigoli; acqua e vento hanno conferito loro quell’aspetto così gotico e curioso che fa pensare a scenari dolomitici. Ne abbiamo una riprova guardando anche verso destra: lo sguardo, in particolare, è subito attratto dal singolare torrione della Mezzaluna (m. 2333), che deve il suo nome non alla forma (che un po’ assomiglia ad uno spicchio di luna), ma alla sottostante, sul versante della bergamasca, valletta e baita della Mezzaluna (che significa spianata, o pianetta -"mesa"- a forma di luna). Il laghetto di Tronella, soprattutto nella mesta quiete del primo autunno, è un luogo che non si dimentica.
Proprio qui i cartelli segnalano un trivio: proseguendo nella salita in val Tronella si guadagna, dopo un ultimo ripido canalino, l’altopiano dei Piazzotti, dove si trova, nei pressi del lago dei Piazzotti, il rifugio Benigni; prendendo a destra torniamo ad intercettare il sentiero Pescegallo-Diga di trona; prendendo a sinistra, infine, effettuiamo la traversata alla valle di Salmurano ed all’omonimo rifugio. È quest’ultima la soluzione che fa al caso nostro, anche se segnaliamo che una salita diretta al rifugio Benigni consentirebbe di abbreviare a due giorni la traversata dei laghi del Bitto (lasciando, però, fuori il lago di Pescegallo, il laghetto di Verrobbio ed i laghetti di Ponteranica). In cammino, dunque, sul sentiero che taglia il versante settentrionale che scende dal pizzo di Tronella e si affaccia all’ampia conca verde della valle di Salmurano, intercettando la pista sterrata che da Pescegallo sale al rifugio Salmurano, posto a 1830 metri. Qui termina la prima giornata della traversata dei laghi del Bitto, dopo circa 9 ore di cammino, necessarie per superare un dislivello approssimativo in altezza di 1400 metri.


Conca di Salmurano

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