La valle di Postalesio, o valle del Caldenno, è l’unico solco glaciale con una propria fisionomia ben definita che si apre sul versante retico mediovaltellinese fra la Val Masino, ad ovest, e la Valmalenco, ad est. Vi passa il confine fra i comuni di Berbenno, ad ovest, e Postalesio, ad est. Una valle certamente modesta rispetto ai colossi che la circondano sui due lati, ma caratterizzata dallo splendido catino glaciale delle alpi Caldenno e Palù, preparato dai ripidi versanti boscosi a monte di Polaggia e Postalesio, un catino che si conclude all’ultimo gradino glaciale, sul quale sta, sospesa, la misteriosa soglia terminale, che raggiunge il piede dei bastioni del complesso dei Corni Bruciati. Una valle densa di colori e fascino, ma anche di ombre e misteri, come suggerisce il suo stesso nome, se è vera la suggestiva ipotesi dell’Orsini, che lo fa derivare da “Calus”, o “Charu”, dio degli inferi, con l'aggiunta del suffisso di origine etrusca "enno". Un’ideale salita dalle sue propaggini più basse al circo terminale è anche un viaggio fra i fantasmi partoriti dall’immaginario popolare nei secoli passati.

Iniziamo, dunque, questo viaggio nell’immaginario. Se, raggiunta Polaggia di Berbenno, proseguiamo lungo la strada che conduce ai prati di Gaggio, incontriamo, all’uscita dal paese, sulla sinistra, un tratturo, con fondo in cemento, la via Della Puncia. Seguendola, arriviamo all’oratorio di San Gregorio (m. 588), posto su un piccolo colle che veniva chiamato, fino al sec. XVII, monte Zardino. Si tratta di una cappella che originariamente era annessa ad una struttura fortificata, detta “castrum Mongiardinus”, di origine trecentesca. Dal colle si gode di un’ottima visuale sulla media Valtellina, da Triangia al Culmine di Dazio. Fra le particolarità dell’oratorio vi è l’ancora lignea dell’altare (scolpita dai milanesi Guglielmo a Gian Filippo Bossi nel 1628), nella quale l’ostia è circondata da due animali squamosi, di origine fantastica. Questi esseri indefinibili hanno sempre acceso la fantasia popolare, che si è foggiata, a loro immagine e somiglianza, una bestia misteriosa, dal nome ancor più misterioso, il “giuèt”. Di essa si raccontava che abitasse i boschi della zona, da Polaggia fino alle soglie dell’alpe di Caldenno.
Le testimonianze popolari sull’animale sono abbastanza varie. L’anziana signora Vittoria Fontana, di Polaggia, ricorda ancora un episodio raccontato dal trisnonno. Questi si trovava, un giorno d’estate, all’alpe Caldenno, con la figlia, e decise di recarsi nei boschi che circondano i prati per fare legna e ricavarne un paio di “sciupèi” (zoccoli). Di ritorno alla baita, si imbatté in un animale mai visto, dalle sembianze di serpente, probabilmente il misterioso giuèt, di cui si parla da tempo immemorabile nella zona. Il ricordo è incerto, perché lo sguardo dell’animale ebbe subito l’effetto di incantare l’uomo, facendolo cadere in un sonno profondo. Venne trovato, riverso a terra mentre dormiva, da altri contadini che tornavano alla baita dopo aver falciato il proprio campo. Portato alla sua baita, rimase in quella condizione, sprofondato in un sonno innaturale, per ben tre giorni e due notti: solo il terzo giorno si svegliò. Era stato vittima di uno degli effetti più risaputi del giuèt, animale incantatore, e gli era andata ancora bene. Dicono, infatti, che, qualora ci si imbatta nel misterioso animale, si deve evitare di guardarlo, perché il suo sguardo può produrre effetti come questo, o ancora peggiori. I suoi poteri magici (detti, popolarmente, la “fisica”), però, sono legati non solo allo sguardo, ma anche al fischio che emette: anche questo può tramortire (qualcosa di simile, è interessante ricordarlo, si dice di un altro animale fantastico ed ancor più temibile, il basilisco –“basalesc” o “basalisc”, in dialetto -: al suo fischio terribile bisogna fuggire precipitosamente, perché al terzo si cade a terra stecchiti).
Ma com’è fatto il giuèt? Il signor Edoardo, uno dei vegliardi di Polaggia, ricorda la descrizione che ne diede la suocera: si tratta di un animale delle dimensioni di un grosso gatto, che all’apparenza può essere scambiato anche per un bambino in fasce, perché le squame che lo ricoprono sono simili a fasce colorate (la signora Giuseppina Fumasoni, di Polaggia - 89 anni -, racconta addirittura che una donna, tratta in inganno, abbia allattato un giuèt, scambiandolo per un bimbo; del resto, si dice ancora, questi animali amano molto il latte, e spesso approfittano delle mucche al pascolo per succhiare dalle loro mammelle questo alimento). A ben guardarlo, però, l’animale appare davvero repellente, e non solo per la sua pelle squamosa e viscida, ma anche per il muso, che è simile a quello di un drago. La suocera del sig. Edoardo gli raccontò di aver riconosciuto il malefico animale, mentre si recava nel bosco a raccogliere fragoline per poi venderle, a valle del sentiero che stava percorrendo. Riuscì però a sottrarsi al suo incantamento e a fuggire via.
Si racconta anche, in quel di Polaggia, che questi animali sono probabilmente una categoria dei “cunfinàa”, cioè delle anime dannate costrette a dimorare in qualche luogo. I boschi di Polaggia ne erano infestati, ma poi, dopo la consacrazione della chiesetta di san Gregorio, tutti i giuèt li lasciarono e si precipitarono nel vallone del torrente Finale, dal quale non riemersero più.

Ma le storie misteriose legate a questa chiesetta non terminano qui. Narrano che nei suoi sotterranei siano stati rinvenuti resti umani dalla forma strana; si dice, poi, che durante la terribile pestilenza portata dai Lanzichenecchi nel 1629-31, che ridusse a poco più di un quarto la popolazione valtellinese, la chiesa fosse stata adibita a lazzaretto dove languivano gli infelici appestati, aspettando la morte liberatrice; si dice, infine, che una rete di cunicoli congiungesse la chiesetta alla dimora dei castellani. Si dice...
Noi inseguiamo non solo le voci, ma anche i sentieri a monte di S. Gregorio. Ecco che, dunque, oltrepassati i densi ed ombrosi boschi sopra Polaggia, ci affacciamo al luminoso alpeggio di Caldenno, dove la valle assume la caratteristica forma ad “U” dovuta all’escavazione glaciale. In questo grande catino, proprio per la sua conformazione, si addensano spesso, nella stagione estiva, le nere nubi che annunciano la violenza del temporale. Qualche volta la furia degli elementi supera la misura che ci si può attendere da un fenomeno naturale, ed allora i contadini ne intuiscono la natura sovrannaturale. Quell’acqua che si abbatte al suolo con una violenza inusitata o, peggio ancora, quella grandine che flagella i frutti sugli alberi ed i grappoli sui filari sono provocati da potenze malefiche, che, secondo un’antichissima prerogativa demoniaca, hanno il potere di scatenare gli elementi. È la strìa, la malefica strega che si accanisce contro il frutto delle fatiche degli uomini, perché ha giurato loro eterna inimicizia e gode della loro sofferenza. È la strìa che addensa i chicchi della grandine, che poi scaglia sui campi.
E allora, per porre fine alla furia cieca degli elementi, c’è un’unica via: spaccare i chicchi di grandine più grandi e cercare un capello della strìa. Chi lo trova e lo spezza, pone fine con ciò stesso al suo potere malefico. Si placa come d’incanto la tempesta, si squarcia la densa coltre delle nubi, la luce del sole di nuovo trafigge le dense nebbie, ponendo fine a paure ed apprensioni.
Ma è solo una tregua: le perfide streghe, istigare dal Demonio loro signore, torneranno a colpire infierendo contro le fatiche dei contadini.
Ma dove dimorano le streghe? Dove scatenano la loro furia malefica? Per scoprirlo, dobbiamo percorrere l'intera Valle del Caldenno e salire al passo di Caldenno (m. 2517). Il pianoro che, sul versante della Val Torreggio (Val del Turéc'), si apre nei pressi del passo è ricco di rocce di gneiss, che riportano segni e cavità che danno l’impressione di costituire un segno dell’arte petroglifica preistorica. Ma anche un terrazzo in alta Valle del Caldenno, che si attraversa percorrendo il sentiero per il passo, prima dell'ultimo traverso a destra che consente di raggiungerlo, è ricco di queste rocce affioranti. Ecco cosa ne scrive don Nicolò Zaccaria, prevosto di Sondalo ed esperto mineralista, il quale, nel 1902, dopo aver visitato questi luoghi, scrisse: “L’anno 1864 feci un’escursione sull’alpe Caldenno in comune di Berbenno. Appartiene al gruppo del Disgrazia, ed è un’alpe a circa 2600 metri sul mare. Alla sua sommità vi è un valico pel quale si entra nella Val Malenco sopra Torre. Or bene, proprio a questo passo la roccia gnesiaca è nuda e quasi piana ed in essa sono scalfite parecchie cavità d’una dimensione e d’una profondità poco su e poco giù come quella delle scodelle. Variano tuttavia nella forma, perché a prima vista hanno l’aspetto di un piede di cavallo. Quegli alpigiani mi condussero loro a vedere le orme impresse nella pietra dalle streghe che vi ballavano sopra con i piedi di cavallo”. In realtà, come poi fu appurato da Antonio Giussani, non ci sono di mezzo né uomini preistorici né streghe: si tratta di erosioni della roccia del tutto naturali.
Ma sarà davvero così, o sarà piuttosto vero quel che la fantasia popolare ha immaginato, figurandosi sfrenati sabba delle streghe danzanti al passo, nelle notti meladette, per evocare il Demonio?
Il Demonio, si è detto: in dialetto è chiamato "bàu" e, sull'antico sentiero che dal Pian del Prete sale verso Prato Isio si trova il suo letto, il "léc del bàu".
Oltre la conca dell’alpe Caldenno e quella, di poco più alta, dell’alpe Palù, ecco il gradino terminale della valle, oltre il quale si nasconde la soglia più alta, ai piedi delle rocce rossastre e grigie del complesso dei Corni Bruciati. Buona parte di questa soglia è occupata, nella sua parte occidentale, da un’enorme colata di sfasciumi. Massi di ogni dimensione, disseminati caoticamente, con un effetto di desolazione che non cessa di stupire chi si trovi a visitare più volte questi luoghi. In alto, i torrioni gotici e nervosi che circondano i Corni Bruciati. Anche qui la fantasia popolare non poteva mancare di dire la sua. Quel deserto di pietre aveva tanto l’aria di essere una sorta di campo di prigionia, o di supplizio: i massi parevano messi lì perché qualcuno vi desse di mazza, frantumando e frantumando, nell’impresa immane ed impossibile di ridurli ai minimi termini. La fantasia era suffragata dalle testimonianze: più di un pastore, e di quelli a cui bisogna prestar fede, aveva raccontato di aver udito, sul far della sera, colpi di mazza provenire proprio da lì. Nessuno aveva mai osato avvicinarsi nottetempo a quei luoghi, nessuno aveva mai visto con i propri occhi quel che accadeva. Ma non era difficile immaginarlo.
Per capire dobbiamo fare un passo indietro, ed addentrarci in qualche scampolo di teologia popolare. Si sa che dopo la morte termina la battaglia fra angeli e demòni per conquistare a sé l’anima degli uomini. La vittoria dei primi guadagna al cielo le anime destinate alla salvezza, che però, in genere, debbono trascorrere un periodo più o meno lungo in Purgatorio prima di accedere al Paradiso. La vittoria dei secondi rappresenta, invece, la condanna delle anime alla dannazione eterna. Ma qualche rara volta accade che la battaglia non abbia vincitori né vinti. Qualche anima, vuoi di eretico, vuoi di falsario o di peccatore ignobile di altra specie, non è voluta né da Dio né dal suo avversario: si diceva, in passato, di questi uomini che fossero “invisi a Dio et a lo inimico suo”. Né cielo né inferno, dunque, per costoro, né beatitudine né tormenti infernali. Una condanna, però, da scontare nei luoghi più inospitali di questa terra. Lì dovevano rimanere confinati. Si tratta, dunque, dei famosi confinati (“cunfinà”), condannati a qualche opera ingrata ed inutile, oppure a spaventare la gente manifestandosi in forma animale o in qualche altra forma terrificante. L’enorme ganda dell’alta valle del Caldenno è uno di questi luoghi, dimenticati da Dio e dal demonio, un luogo di desolazione e di tristezza senza fine. Il vano battere notturno del metallo sulla pietra dice tutta l’angoscia della condizione di queste anime, che nessuno vuole, che nessuno reclama.
Un’angoscia di cui sono muti testimoni i Corni Bruciati, anch’essi legati ad una leggenda maledetta. Si racconta, infatti, che in tempi antichissimi la zona dei Corni Bruciati (come anche quella del monte Disgrazia) fosse ricca di splendidi pascoli, che giungevano fin quasi alle vette più alte. L’egoismo di un pastore, che negò ospitalità al Cristo apparsogli nelle vesti di umile mendicante, attirò però il castigo divino, cui scampò solo il generoso fratello del pastore: dal cielo piovve fuoco, che bruciò tutto, riducendo la zona ad ammasso di rocce incandescenti. Il colore rossastro dei Corni Bruciati testimonia l’antichissimo cataclisma, e ricorda agli uomini la tragedia dell’egoismo che è, troppo spesso, frutto avvelenato della prosperità.


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