“Non fare l’uccello del malaugurio”: se ci sentiamo rivolgere da qualcuno una frase di questo tenore, significa che stiamo mostrando eccessivo pessimismo, un pessimismo che non porta bene, che magari alla fine ci attira addosso la malasorte.
Già, ma cosa c’entrano gli uccelli? È credenza antichissima, diffusa fra le più diverse culture, che alcuni fra i volatili, soprattutto quelli notturni, ed ancor più quelli il cui verso è lugubre e sinistro, annuncino sventure, o addirittura attirino sul capo degli sciagurati che lo odono le disgrazie. Anche in Valtellina troviamo questa credenza, legata soprattutto a due predatori notturni, la civetta ed il gufo.
Curioso uccello, la civetta, legato a significati simbolici diversi. Nell’antica Grecia era considerato sacro a Minerva, dea della sapienza, ed ancora Hegel, nell’Ottocento, lo considerava simbolo della filosofia: infatti, così come la nottola (altro nome della civetta) spicca il volo sul far del tramonto, la filosofia giunge a comprendere il senso della storia a cose fatte, quando la storia ha già fatto il suo corso.
Nell’immaginario popolare, però, alla civetta sono legati significati meno elevati. Fare la civetta, detto di una ragazza, significa comportarsi in modo frivolo, leggero, superficiale, sciocco. I prodotti-civetta, al supermercato, sono quelli che attirano il cliente, allettato dal loro prezzo vantaggioso: una volta nel supermercato, poi, questi finirà magari per comperare anche ciò di cui non avrebbe avuto stretto bisogno. Ma la fama più sinistra della civetta (sciguèta, con voce dialettale) è legata alla sua nomea di uccello porta-sfortuna. Se, attraversando nottetempo boschi e selve, odiamo il suo lugubre canto, dobbiamo allarmarci e fare i debiti scongiuri: la sventura è dietro l’angolo. Sussiste, infatti, un qualche misterioso legame fra questo uccello notturno e le forze del male che, si pensa, sono all’origine di eventi nefasti, quali malattie, infortuni, tracolli economici, morti.
Una testimonianza di questa credenza la troviamo nella località di Vallate, presso Piagno (frazione di Cosio Valtellino, nella bassa Valtellina), cui è legata una leggenda riportata nella "Guida alla Lombardia misteriosa" (Sugar. Milano, 1968, pg. 425).
Qui, alle spalle di una poco elevata ma pronunciata formazione rocciosa sul versante orobico, si apre una splendida conca di prati, che ospitò, nel cuore del Medio Evo, un’abbazia cluniacense, fondata tra il 1075 ed il 1110. Si tratta di San Pietro in Vallate, di cui restano ancora tracce nella semidiroccata chiesetta romanica e in pochi ruderi del corpo delle celle. Un luogo che merita sicuramente di essere visitato, per la sua importanza storica ed il suo forte impatto suggestivo. Per arrivarci, basta staccarsi dalla ss. 38 sulla destra (per chi proviene da Milano) allo svincolo di Piagno (fra Rogolo e Cosio Valtellino), seguendo poi le indicazioni per l’abbazia. Nei secoli successivi alla sua fondazione l’abbazia fu abbandonata, e cominciò ad andare in rovina.
Già a metà del 1300, con tutta probabilità, all’ordinato mormorio della preghiera ed al sommesso canto gregoriano si era di nuovo sostituito, qui, il silenzio. La solitudine di quelle mura cadenti, incorniciate da boschi di castagni, a ridosso di quel breve ma impressionante salto roccioso che precipita sul fondovalle, suscitarono nei contadini del posto l’impressione che quei luoghi fossero legati ad una qualche maledizione, come se le forze oscure del male, in una sorta di controffensiva, se li fossero ripresi, strappandoli alla comunità monastica che vi aveva portato la luce della fede. In particolare, le grida stridule che si udivano nottetempo nelle selve vicine, e soprattutto nella boscaglia che ricopriva in parte il salto roccioso, facevano accapponare la pelle dei viandanti che si trovavano a percorrere il sentiero che da Vallate conduce ai maggenghi più a monte.
Nacque così la credenza che si trattasse di luoghi infestati da streghe e spiriti malvagi, che assumevano le sembianze di civette e barbagianni, luoghi dai quali ci si doveva tener lontani di notte. Il primo maggengo a monte di Vallate assunse, quindi, il nome eloquente di “Malanotte”. Si credeva, in particolare, che coloro che venivano sorpresi dal canto lugubre delle civette incorressero in diverse forme di disgrazie, che colpivano loro o le persone a loro care.

Dalla civetta al gufo: cambia la specie di volatile, ma non cambia la sostanza della credenza. Una divertente storiella, raccontata da Renzo Passerini nel numero di novembre 1994 del Gazetin, può valere per tutte.
Molti anni or sono, quando Morbegno era ancora un borgo contadino, e quando fra il cimitero di S. Martino, posto sul suo limite orientale, e la piazza S. Antonio non c’era alcun edificio, ma solo campagna, la gente cominciò ad avvertire, proprio nel cimitero, strane presenze. Si trattava di luci, simili a piccoli fari tondi, che, sopraggiunto il crepuscolo, comparivano e scomparivano, improvvise, inquietanti. Luci accompagnate da suoni lugubri, raccapriccianti. Tutti erano terrorizzati. Chi turbava la pace di quel luogo di mesto riposo, legato al ricordo dei propri cari? Di quali presenze si trattava? La fantasia si sbizzarriva, ma, gira e rigira, si finiva sempre col pensare che il cimitero fosse abitato da spiriti inquieti, forse dannati, forse confinati, o da spiriti malefici, qualche creatura del diavolo, qualche strega.
L’aspetto più inquietante della cosa era che coloro che udivano quei lugubri suoni e vedevano le luci balenare nella notte finivano poi per incorrere in eventi sfortunati, qualche volta in vere disgrazie, che capitavano a loro o ai loro cari: ai più attenti osservatori questo non sfuggiva, era matematico. Per questo la gente faceva di tutto per evitare la zona del cimitero una volta calato il crepuscolo.
Finché a due giovani toccò in sorte di risolvere l’enigma. Si trattava di due giovanotti che avevano fama di essere oltremodo baldanzosi, ed amavano ostentare un coraggio spavaldo in tutte le circostanze. Così, una sera, al crotto del Getzemani, udito l’ennesimo racconto delle sciagure connesse con gli spiriti del cimitero di S. Martino, se ne uscirono con una sparata da guasconi: ma che spiriti e spiriti, non c’era proprio di che aver paura, loro non avrebbero avuto alcun timore a passare per quei luoghi di notte, si trattava di credenze da donnicciole! Furono presi in parola: provatevi a farlo, se ne avete il coraggio! Certo che l’avrebbero fatto, replicarono, ed erano disposti anche a scommettere qualunque somma.
La scommessa fu subito conclusa e, complice anche una buona dose di vino che aveva elevato lo spirito dei due e notevolmente ridotto la percezione del pericolo, la prova fu subito tentata. Era notte fonda, ormai, una notte senza luna, la notte della prova. I due se ne uscirono dal crotto e si avviarono verso il cimitero, che non era lontano. L’aria fresca della notte temperò l’effetto del vino, inducendoli ad una più attenta considerazione di quel che si accingevano a fare. E con la più attenta considerazione venne anche il timore, che si fece paura: forse erano stati troppo avventati, troppo sciocchi, forse si stavano esponendo temerariamente alla malasorte, e quale malasorte!
Ma ormai non potevano più tornare indietro: che figura ci avrebbero fatto? Meglio una sventura incerta, che una certa figuraccia. Al potere dell’alcol si sostituì, dunque, quello dell’orgoglio, che li guidò fin nei pressi del cimitero. E fu allora che le videro, videro le due luci, incerte, quasi tremolanti, intermittenti, vicino al campanile dell’antichissima chiesetta di San Martino, all’interno delle mura del cimitero. E sentirono anche il verso lugubre, davvero raccapricciante, che fendeva l’aria greve e pesante della notte, colpendo come una scudisciata le orecchie. Esitarono, furono lì lì per darsela a gambe. Ma, e fu pensiero d’entrambi, li colse un moto di orgoglio, la volontà di misurare quale fosse veramente, alla fin fine, la loro forza d’animo. Oltretutto ormai il verso l’avevano sentito, se c’erano da sopportare guai o sciagure, non le potevano più evitare: tanto valeva armarsi di coraggio e proseguire.
Il cimitero, a quell’ora, era chiuso, ma dovevano a tutti i costi entrare per guardare in faccia a quella presenza misteriosa. Scavalcarono, così, il muro di cinta, e non fu cosa difficile per due giovani prestanti come loro. Una volta dentro, si diressero, con cautela e circospezione, per non essere né uditi né visti, verso la chiesetta di S. Martino: le due piccole luci rotonde erano ancora là, presso il campanile. L’oscurità era vinta dalla timida luce dei lumini, mentre il silenzio era assoluto, solo, di tanto in tanto, rotto dai versi striduli che provenivano dal campanile. Scivolarono, quasi, fino al lato settentrionale della chiesetta, dalla quale potevano dominare il lato del campanile sul quale avevano scorto le due luci. Videro, allora, di che cose veramente si trattava: i loro occhi si erano abituati alla semioscurità, e scorsero, contro il cielo, il profilo di un uccello, un gufo reale, raro, a questa quota, più frequente sugli alpeggi. Le sue luci erano gli occhi, che, ad intervalli quasi regolari, chiudeva e riapriva. I versi striduli erano la sua voce, la voce di uno dei signori della notte, che affermava la sua regale presenza sulle altre creature crepuscolari.
Ai due si riaprì il cuore, il sangue ricominciò a fluire, libero e copioso, nelle vene: di un uccello avevano temuto tutti, di un pennuto, un volatile, nient’altro. Un uccello che, non appena si avvide di loro, emise un grido ancora più stridulo e, quasi sprezzante per quella presenza umana, spiccò il volo per non si sa dove. Fu appunto questo che, trionfanti, annunciarono, il giorno dopo, a tutti quelli che capitò loro di incontrare, ed anche a quelli che andarono a cercare per riscuotere la posta della scommessa: altro che fantasmi, altro che streghe, si trattava solo di un uccellaccio notturno. Finì così la paura nei fantasmi e nelle streghe, ma rimase il timore per l’uccello del malaugurio: sì, perché la gente non cessò di pensare che questo lugubre abitatore della notte fosse pur sempre un uccello del malaugurio, una creatura della malasorte, e che il suo verso fosse un sinistro presagio, da cui tenersi accuratamente alla larga.

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