Streghe, diavoli e santi nel cuore della Valtellina
Tresìvio,
adagiata in una bella conca, chiusa a nord dal largo dosso che scende
dal versante retico, fra la valle della Rogna, ad ovest, e la valle
di Rhon, ad est, ed a sud dalla rocca del Calvario, che precipita con
alcuni dirupi sul fondo della media Valtellina; Tresivio, antichissimo
insediamento, con tracce che risalgono all’epoca della colonizzazione
etrusca, centro di primaria importanza in epoca medievale, sede, durante
la dominazione dei Visconti e degli Sforza, fra il 1385 ed il 1500,
del governatore che rappresentava il Duca di Milano e del Tribunale
supremo della valle; Tresivio, cuore della Valtellina, dove, per diversi
secoli, il Vescovo di Como dovette risiedere per almeno tre mesi l’anno;
Tresivio, dunque, che rivaleggia con Teglio nella considerazione di
baricentro della Valtellina, è paese denso di misteri, così
come lo è di storia e tradizioni.
Diverse sono le leggende che lo riguardano. Raccontiamo le più
note, che ne interessano il centro ed il versante montano. Partiamo
da quella del “risc del bau” (riportata da alunni di Castello dell'Acqua nella bella raccolta ciclostilata "Leggende delle nostre valli", curata dalla scuola elementare di Piateda, 1976), che ci porta all’alpe
Rogneda, ampia e solare distesa di pascoli e gande, stesa ai piedi di
quella corona di cime che scendono, verso ovest, dalla sovrana vetta
di Rhon. La luminosità dell’alpe contrasta, però,
con l’evocazione sinistra contenuta nel nome, che risuona ancor
più esplicitamente in quello del torrente e della valle sottostante,
denominati Rogna. Rogna, cioè dissidio, lite. L’antica
storia dell’alpeggio è, infatti, segnata da una lite memorabile.
E laddove vi è discordia, lì non può mancare il
principe della contesa, il Diavolo, denominato, dialettalmente “bau”
(termine che si estende a tutti gli esseri paurosi ed orripilanti).
Ma andiamo con ordine.
Vi fu un tempo in cui i pascoli dell’alpe non erano divisi né
segnati da confini, ma necessità ed avidità fecero nascere
una grande contesa per il loro possesso. Si fronteggiavano le due frazioni
storiche di Tresivio (comuni distinti, fino all’unificazione nel
1857), Acqua e Tresivio basso, cioè le parti rispettivamente
a monte ed a valle dell’attuale municipio. Si trovò, allora,
questa soluzione per dirimere la contesa: l’esito di una gara
avrebbe deciso a quale frazione sarebbero spettati gli ambiti pascoli.
Una gara singolare: si trattava di ricoprire con un fondo di ciottoli
(risc) la strada che da Boirolo sale a Rogneda; vincitrice sarebbe risultata
la frazione che per prima avesse raggiunto, con la sua striscia, il
ponticello sul torrente Rogna, nella parte bassa dell’alpe.
Iniziarono, febbrili, i lavori per lastricare la strada, con sassi più
piccoli, secondo la strategia della frazione Acqua, o di maggiori dimensioni,
secondo quella di Tresivio basso. L’esito fu incerto, fino alla
fine. E nelle concitate battute finali della gara, entrò in gioco
il Diavolo: fu il capo della frazione Acqua ad invocarne l’aiuto,
temendo di essere superato proprio sul filo di lana dai rivali, che
usavano sassi più grandi. L’intervento demoniaco risultò
decisivo per la vittoria della frazione Acqua, ma non fu privo di conseguenze: il
nome dell’acciottolato che, ancora oggi, è ben visibile
sul fondo della strada, nel tratto che dalla chiesetta di S. Stefano
sale al limite inferiore dell’alpe, rimase legato al Diavolo,
e si chiamò, appunto, “risc del bau”. Alla contesa
fu, da allora, legato anche il nome della valle che scende dall’alpe,
la valle della Rogna.
Ma anche la valle sul versante opposto, cioè ad est, la valle
di Rhon, ha una fama sinistra. Qui i contorni delle vicende immaginarie
sono più sfumati, e non si legano ad episodi eclatanti. Però…
Però si racconta che questa valle celasse, nel suo cuore selvaggio,
oscure manifestazioni del male. Anche la parte bassa della valle, attraversata
da coloro che transitavano da Tresivio a Ponte in Valtellina, poteva
riservare incontri spiacevoli. Capitò una volta, in particolare,
che un contadino, che tornava, a sera fatta, a Tresivio, dopo aver utilizzato
le acque del torrente Rhon per irrigare i suoi prati, si trovò
sulla strada una volpe dagli occhi che sembravano sprizzare scintille,
tanto erano luminosi. A nulla valsero i suoi tentativi di spaventare
la volpe con il badile: questa lo seguì, sinistra, sempre mantenendo
una certa distanza, fino all’ingresso del paese, sparendo poi,
all’improvviso, come inghiottita dal nulla. L’episodio suscitò
in lui un’impressione enorme. Forse per questo o, forse, per qualche
più oscuro motivo, cadde subito dopo in una profonda malattia,
dalla quale non si riebbe. La sua morte rimase, quindi, avvolta nel
mistero legato alla valle oscura.
Scendiamo
ora al paese, per raccontare una terza storia misteriosa, quella legata
ad inspiegabili furti di latte che cominciarono a verificarsi in una
baita nella quale diversi pastori solevano raccoglierlo in grandi conche.
Nella povera economia di quei tempi, furti di quel genere pesavano parecchio,
e non potevano essere tollerati, cosicché i pastori decisero
di appostarsi a guardia della baita, per scoprirne il responsabile.
Gli appostamenti non servirono a nulla: videro, sì, qualche ombra,
a qualcuno parve che si trattasse di una vecchia, ma l’inseguimento
non diede alcun esito. Finché, una notte, un tal Gilberto, che
era di turno a montare la guardia, vide dapprima un’ombra, poi,
non poteva sbagliare, la figura di una vecchia che si avvicinava furtiva
alla baita, per poi entrarvi. Non esitò: con uno scatto fulmineo,
le chiuse la porta alle spalle, serrando il catenaccio, per poi correre
a chiamare gli altri pastori. Accorsero tutti, ansiosi di poter vedere
finalmente in faccia il ladro o, come si vociferava, la ladra.
Si raccolsero davanti alla porta, e qualcuno la aprì: il responsabile
non poteva certo più scappare! Rimasero, però con un palmo
di naso quando videro che dentro non c’era nessuno. O meglio,
c’era solo un gatto nero, che emetteva quel verso sinistro dei
gatti pronti ad attaccare, e che, non appena vide il varco aperto, schizzò
fuori con una rapidità incredibile, dileguandosi. Nessuno, però,
gli prestò attenzione più di tanto: gli occhi di tutti
erano intenti a frugare l’interno della baita, per scorgere se
la misteriosa vecchia si fosse nascosta in qualche angolo. Niente.
Allo stupore, sui visi assonnati, si sostituì allora il disappunto,
unito ad un accenno di rimprovero per il povero Gilberto, che, sicuro
di essere sobrio, non sapeva capacitarsi dell’errore. Fatto sta
che i furti continuarono. Non si parlava d’altro, a Piedo (questa
era la frazione dei pastori vittime del ladro misterioso), e molti raccontavano
di aver avuto l’impressione di aver visto, durante le notti in
cui i furti avvenivano, la figura di una vecchia entrare nella baita,
dalla quale, poi, usciva sempre un gatto nero, che scompariva rapidamente.
Come spiegare tutto ciò?
Forse non ne sarebbero mai venuti a capo, se il ladro misterioso non
si fosse fatto più audace e non avesse iniziato a rubare il latte
anche di giorno. Alla luce del giorno le cose si vedono più chiaramente,
e fu sempre Gilberto a vedere, una volta, proprio il gatto nero intento
a bere, con incredibile voracità, il latte dalle conche. Senza
pensarci due volte, gli si avventò contro e lo colpì con
un coltello, uccidendolo. Accorsero di nuovi gli altri pastori, e questa
volta Gilberto poté mostrare loro di aver risolto l’enigma.
O forse non del tutto, perché la figura del gatto esanime fece
un’impressione così sinistra ai pastori, che decisero di
portarlo via, lontano. Così fecero: lo avvolsero in uno straccio,
lo misero in una gerla e lo portarono sul ciglio di un burrone, scaraventandolo
poi fra le aspre rocce. Misteriosamente, da quel giorno non si vide
più, fra le strade del paese, una vecchia solitaria e taciturna.
Di lei, letteralmente, non si seppe più nulla. Non
ci volle molto a fare due più due: la vecchia doveva essere quella
figura misteriosa vista da molti nelle notti di appostamento, una strega
capace di trasformarsi in gatto nero. Da allora il burrone che aveva
inghiottito il gatto venne chiamato “Crap de la vegia”.
Il luogo, però, che condensa in sé i più fitti misteri di Tresivio si trova poco a monte della frazione di S. Antonio (l’ultima che si incontra, a 900 metri circa, sulla strada per Prasomaso, prima della serie di tornanti nella pecceta), verso est. Si tratta della zona della Móta: così viene chiamata, con voce locale, la fascia di boschi a nord-est di san’Antonio, che salgono fino al “Dòs di Móta”, boschi attraversati dalla vecchia mulattiera che congiungeva Sant’Antonio con il maggengo di Desì. Di qui, si racconta, vennero, molto, molto tempo fa, due serissime minacce alla pace ed all’integrità, materiale e spirituale, di Tresivio. La prima ha uno sfondo storico. La disgregazione dell’Impero Romano d’occidente portò alle invasioni delle popolazioni germaniche e probabilmente la Valtellina fu inglobata, dopo il 489, nel regno ostrogoto di Teodorico.
Racconta una leggenda che i Goti, o almeno una delle loro orde, varcato il versante retico, scesero in Valtellina dal monte di Rogneda, passando proprio per questa mulattiera. Ma il loro capo fu colto da morte proprio nella discesa verso Tresivio, in corrispondenza del “Dòs di Móta”, che, per questo, prese il nome di “Dòs del Cavalié”: infatti i suoi guerrieri stesero il suo cadavere sul terreno e lo coprirono di massi, fino a formate una collinetta che fungeva da tumulo. Ancora oggi, in effetti, sul luogo si può vedere il dosso parzialmente ricoperto da un muro di contenimento.
La seconda minaccia, assai più insidiosa e subdola, venne agli abitanti di Sant’Antonio e Tresivio da quello che nella Bibbia è chiamato l’avversario per eccellenza, il diavolo. Questi aveva preso ad insidiare i contadini della frazione, scendendo sempre dalla mulattiera per Desì, finché i suoi abitanti, stanchi di vivere nella paura per il proprio corpo e la propria anima (si sa che il diavolo può far del male all’uno ed all’altra), invocarono, con preghiere ferventi, l’intervento della Madonna. La Madre celeste non mancò di rispondere alla supplica dei suoi figli e, scesa in un punto poco sopra la partenza della mulattiera, volse in fuga il demonio, che non si fece più vedere da quelle parti. Nel luogo dell’intervento miracoloso fu poi eretta una cappelletta (Capitèl de la Móta) in onore della Madonna, sulla quale era consuetudine, come segno di devozione o anche solo di scaramanzia, apporre la propria firma quando si passava di lì. Presso la cappelletta si vede ancora una pietra piatta che affiora dal terreno, di circa mezzo metro quadrato e di colore verde-grigiastro, con un incavo sulla sua superficie: si tratta dell’impronta che il diavolo lasciò quando venne cacciato dalla Madonna, forse perché la paura nei contadini di Sant’Antonio rimanesse sempre viva. Ma questi, per tutta risposta, costruirono la cappelletta che simboleggia l’eterna vittoria del bene sul male.
C'è però un'altra leggenda che spiega la presenza del misterioso masso con l'impronta. Raccontano, in quel di Sant'Antonio, che una volta, quando si saliva ai maggenghi per la mulattiera S. Antonio-Desì, i genitori, passando per quel punto, dicevano ai bambini: "Guardate, questa è l'impronta di S. Stefano. Mettete anche voi il piede nell'impronta che ha lasciato il santo". Cosa c'entra Santo Stefano con questi luoghi? La storia è un po' lunga, e va presa dall'inizio.
L'inizio è l'antichissima rivalità fra versante retico ed orobico, che troviamo diffusa un po' in tutta la media e bassa Valtellina. Nel nostro caso si fronteggiavano, è proprio il caso di dirlo, soprattutto Castello dell'Acqua e Chiuro (Castello, fino al 1858, dipendeva amministrativamente da Chiuro, pur mordendo, come si suol dire, il freno per avere piena autonomia). Ma la rivalità, evidentemente, si è estesa anche a Tresivio. Motivo della contesa era l'esistenza di due chiesette, sugli opposti versanti, ed a quota singolarmente analoga (poco sopra i 1700 metri) entrambe dedicate a Santo Stefano.
Evidentemente non potevano che avere una comune origine, e, nella fantasia popolare, l'origine fu la presenza del santo, sì, proprio di Santo Stefano in carne ed ossa. Ma, e qui nasce il problema, come e perché il santo passò da un versante all'altro?
In quel di Castello dell'Acqua la raccontano così (nella
raccolta “Storie e leggende dei nostri paesi”, curata, nel
1976, dalla classe IV B della scuola elementare di Chiuro sotto la guida
dell’insegnante Armida Bombardieri). Santo Stefano, come si sa, fu il primo martire; ma, prima di andare incontro al martirio per lapidazione in Terra Santa,
capitò in quel di Valtellina, per predicare il Vangelo. Non ebbe,
però, buona accoglienza nei paesi di fronte a Castello, sul versante
retico. Nessuno mise mano alle pietre, non era ancora la sua ora, ma,
insomma, venne più o meno cortesemente invitato a cambiare aria.
Raggiunse, allora, l’opposto versante, quello orobico, passando
per Castello dell’Acqua e proseguendo nella salita ai monti sopra
il centro del paese, dove poté finalmente trovare rifugio. Ma
i santi sono sempre in cammino, e lui li attraversò, quei monti,
sostando in diversi luoghi per riposare e per rifocillarsi, usando un
piccolo attrezzo, il “cazzett”, con il quale quagliava il
latte che il buon cuore dei contadini gli offriva. Operò
anche molti miracoli, nel periodo nel quale rimase, come eremita, in
quei luoghi ritirati: molti salirono fino a lui, ottenendo, come premio
per la loro fede, la guarigione dalle menomazioni che avevano loro imposto
grucce e stampelle. Ma la sua meta era la cime del monte sul lato opposto
della valle d’Arigna, il monte che ancora oggi reca il suo nome.
Per questo, un giorno, spiccò letteralmente il volo, raggiungendo
la media costa in località Briotti. Ma prima di spiccare il prodigioso
balzo verso il lato opposto della valle, il santo si fermò a
riposare su un sasso, imprimendovi il segno dei suoi piedi e del cazzett.
Era nei pressi dei prati di Pòrtola. Il santo lasciò i
luoghi, mentre il masso rimase, e con esso rimase anche la profezia
inquietante, che rivaleggia con quelle più famose di Nostradamus:
quando il terreno l’avrà ricoperto, il mondo terminerà.
In quel di Tresivio, invece, la raccontano a rovescio: Santo Stefano fu prima sul versante orobico, dal quale, evidentemente per la poca devozione della gente, spiccò un prodigioso balzo che lo fece atterrare proprio sul masso in questione, dove lasciò l'impronta del suo piede. Il masso gli servì solo come appoggio per spiccare un secondo prodigioso balzo, che lo portò direttamente alla pianetta dove ora si trova la chiesa di Santo Stefano, sulla mulattiera che sale da Boirolo all'alpe Rogneda. Qui rimase per qualche tempo, venerato dalla gente di Tresivio, prima di andare incontro al suo destino di martirio: "Meglio farsi tirare le pietre che fardi tirare la tunica da parti opposte in una contesa fra devoti e campanili", avrà pensato (ma forse questa è solo una malignità).
Ora, chi avrà ragione? Difficile dirlo. Così come è difficile dire dove sia esattamente il masso in questione. Percorrendo la mulattiera, poco sopra il "capitèl", là dove questa comincia a piegare a sinistra, si nota, sul suo limite di destra, un masso che reca sul dorso l'evidente segno di un incavo a forma di piede. E' l'unico, sulla mulattiera, a presentare tale segno.
Per andarlo a vedere possiamo regolarci così: salendo sulla strada per Prasomaso e Boirolo, oltrepassate le case della frazione Sant'Antonio (l'ultima che si trova sopra Tresivio) incontriamo una sequenza di tornanti dx-sx-dx-sx. Dopo quest'ultimo tornante, procediamo per breve tratto, fino al punto in cui la strada accenna ad una semicurva a destra: lì, sul lato destro, potremo notare la larga mulattiera, che sale da Sant'Antonio, taglia la strada e prosegue nella salita. Pochi metri oltre, sul lato sinistro, c'è uno slargo al quale possiamo lasciare l'automobile per salire a cercare il masso. La mulattiera sale abbastanza ripida e descrive un'ampia curca a sinistra, delimitata, sul lato sinistro, da un alto muro a secco di contenimento. Dopo la curva, troviamo, sul lato sinistro, la cappelletta e, alle sue spalle, un rudere di baita. In effetti possiamo vedere che le sue pareti sono interamente ricoperte di nomi. Una grata difende dalla mania degli autografomani il dipinto della Madonna con Bambino adorata da due santi, probabilmente San Francesco e Santa Caterina da Siena. In alto si legge: "Dignare me laudare te Virgo Sacrata - Da mihi virtutem contra hostes tuos", cioè "Degnami di lodarti, o Vergine consacrata - Dammi la virtù contro i tuoi nemici".
Alle spalle della cappelletta e del rudere di baita si trova oggi un bosco, ma un tempo c'erano prati coltivati, i prati del già citato Dòs di Móta. Da qualche parte, dunque, l' si trovava (oggi non si vede più) il cumulo di massi che la leggenda, come abbiamo visto, vuole sia stata la sepoltura del capo dell'orda di Goti che scese in valtellina dlal'alpe Rogneda.
Torniamo, ora, per offrire qualche analoga nota a chi volesse visitare i luoghi di queste leggende, al "risc del bau" ed al "Crap de la vegia": le possiamo, innanzitutto, trovare nel bel volume intitolato "Tresivio", edito
nel 1999 a cura dell'Amministrazione Comunale di Tresivio. Della leggenda
della volpe malefica, invece, possiamo leggere nella raccolta "C'era
una volta", edita nel 1994 a cura del Comune di Prata Camportaccio.
Non possiamo concludere, dunque, questo viaggio immaginario nei misteri di Tresivio
senza suggerire qualche spunto per qualche camminata reale. Lasciamo,
quindi, Tresivio, salendo verso Boirolo. Incontreremo ben presto la
frazione di Piedo, legata alla storia del Crap de la vegia: la bella
chiesetta di san Rocco si nota, a fianco della strada, ad un tornante
destrorso. Dopo 3 km dal centro di Tresivio, poi, raggiungiamo S. Abbondio
e, mezzo chilometro oltre, la chiesetta di S. Antonio.
La salita successiva, attraversato un bellissimo bosco di larici, porta
a Prasomaso, ad 8 km. Da Tresivio, dove si può vedere l’edificio
dell’ex sanatorio Umberto I, peraltro piuttosto malridotto. Qui
passa il Sentiero
del Sole, che taglia la strada appena oltre l’ultimo tornante
sinistrorso di Prasomaso. Seguendo i segnavia bianco-rossi, possiamo
effettuare due traversate: verso est (destra) la traversata della valle
di Rhon, fino a S. Maria Perlungo (sopra Montagna in Valtellina) verso
ovest (sinistra), quella della valle della Rogna, fino a Boirolo (sopra
Ponte in Valtellina), verso est (destra). In
entrambi i casi dobbiamo seguire con cura i segnavia, ed incontreremo,
soprattutto nella prima traversata, qualche passaggio che richiede attenzione.
Se, invece, proseguiamo sulla strada, approderemo allo splendido maggengo
di Boirolo, ad 11 km. Da Tresivio. I prati di Boirolo si stendono da
una quota di poco inferiore ai 1400 ad una quota di oltre 1500 metri.
Splendido è, da qui, il colpo d’occhio sulla catena orobica.
Dalla parte alta di Boirolo, dove dobbiamo lasciare l’automobile,
partono due itinerari possibili.
Sulla sinistra (ovest), raggiunte le baite più alte, troveremo
la partenza, segnalata da segnavia rosso-bianco-rossi, del sentiero
che sale ripido per un tratto all’aperto, entra poi in un bel
bosco, raggiunge in breve il cuore della valle della Rogna, ne attraversa
il torrente su un ponticello a quota 1670 metri, prosegue sul lato opposto
fino a raggiungere una pista sterrata che porta all’alpe Mara
(m. 1740), sopra Montagna in Valtellina: si tratta di una bellissima
e tranquilla traversata, effettuabile in un’ora circa.
Sulla destra della parte alta di Boirolo, invece, parte una pista che
sale all’alpe Rogneda, passando per la chiesetta di S. Stefano
(m. 1806), di origine medievale. Nei pressi della chiesetta si trova
anche il rifugio degli Alpini
di S. Stefano, in un bel poggio erboso, estremamente panoramico.
Il tratto successivo è quello legato alla leggenda del “risc
del bau”. Salendola,
incontreremo un crocifisso, che sembra esorcizzare l’eco luciferina
dei luoghi (estremamente luminosi, peraltro: ma Lucifero non significa
forse “portatore di luce”?), prima di raggiungere, dopo
qualche tratto ripido, la parte bassa dell’alpe, dove troviamo
un primo baitone (m. 2120). Proseguendo ancora per un tratto, raggiungiamo
il torrente Rogna. Abbiamo ora tre possibilità escursionistiche
di grande fascino.
Possiamo proseguire verso nord ovest, salendo alla casera alta dell’alpe
(m. 2244) ed alla bocchetta di Mara (m. 2342), ben visibile, sul lato
alto di sinistra dell’alpe. Dalla bocchetta, poi, possiamo scendere
verso l’alpe Mara, sopra Montagna in Valtellina. Scendendo a vista,
o su traccia di sentiero, intercetteremo, circa duecento metri più
in basso, una pista sterrata che porta al rifugio
Gugiatti-Sertorelli; seguendola in discesa, troveremo, un po’
più in basso, una seconda pista, che si stacca, sulla sinistra,
da quella principale, per salire ad un’evidente e facile sella
erbosa compresa fra il Dosso Liscio, a sinistra, ed il più modesto
Dosso Bruciato, a destra. Seguiamola ed imbocchiamo, oltre la sella,
il largo sentiero che taglia il fianco meridionale del Dosso Liscio
e che ci riporta alla parte bassa dell’alpe Rogneda: potremo,
così, chiudere uno splendido anello, tornando a Boirolo dopo
circa 4 ore e mezza di cammino (il dislivello in salita è di
circa 750 metri).
Dalla
sella possiamo anche, se abbiamo più tempo ed energie, salire
sul crinale del Dosso Liscio, godendo di un panorama davvero superbo.
Pochi minuti di cammino saranno, invece, sufficienti per salire alla
cima del Dosso Bruciato, anch’esso molto panoramico.
Torniamo alla parte bassa dell’alpe Rogneda, e precisamente al
primo baitone dell’alpe (m. 2120): da qui si può anche
salire verso nord est (destra), seguendo un sentiero che punta verso
il crinale che separa l’alpe Rogneda dalla valle di Rhon. Nella
salita si possono ammirare la Corna Nera, la Corna Brutana e la vetta
di Rhon. L’alpe Rogneda appare, poi, in tutta la sua ampiezza.
Il sentiero (o la salita a vista, non difficile) conduce ad una piccola
sella, sul limite della quale (verso sud, sinistra) si trova un modesto
manufatto, dal nome però davvero suggestivo: è la malridotta
Croce della Fine (m. 2390), segnalata dalle carte, che segna il limite
meridionale dello splendido dosso. Dalla sella particolarmente ampia
è la visuale sulle Orobie orientali.
Possiamo, quindi, salire per un buon tratto il crinale, fino alla bocchetta
di Rogneda meridionale (m. 2365), dalla quale si può agevolmente
scendere, sulla destra, in valle di Rhon. Se
scendiamo, invece, sulla sinistra, tornando all’alpe Rogneda,
e seguiamo per un tratto il piede del dosso, in salita, possiamo raggiungere
il laghetto di Rogneda (m. 2313), nascosto in una fascia di grandi massi. Possiamo, poii, scendere verso il centro dell’alpe (cioè
verso sud-ovest), puntando al baitone di quota 2244, dal quale torniamo,
facilmente, al baitone dal quale siamo partiti e, di qui a Boirolo,
dopo circa 4 ore di cammino, necessarie per superare un dislivello di
circa 800 metri. Si tratta di escursioni davvero splendide, soprattutto
nel periodo autunnale o tardo primaverile.
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