Nel
dialetto della costiera dei Cech “ghèt” significa
“gatto. In quel di Cerido (scerìi, dall'etrusco
"cer", costruire, o da cerro), picco nucleo di baite a monte
del dosso del Visconte (dos del viscùunt), dove si trova
la chiesa di San Nazzaro e dove un tempo sorgeva il castello
dei San Nazzaro, era ancora vivo, almeno fino a qualche anno
fa, il ricordo di una leggenda legata ad un animale fantastico,
chiamato “ghetùn ghèt”, cioè
“gattone gatto”. Ce la racconta, nella sua bella
raccolta intitolata “Gh’era na volta”, il
morbegnese Renzo Passerini.
A monte di Cerido si trova una grande parete rocciosa di granito,
sulla quale sono state rinvenute anche incisioni rupestri. Vi
si poteva e si può ancora osservare una stretta spaccatura
che, narra la leggenda, era la tana di questo fantastico animale.
La gente diceva che fosse un folletto, alto un’ottantina
di centimetri, con le orecchie appuntite e pelose, le lunghe
braccia, le dita dotate di unghie affilate e gli occhi giallastri
e fosforescenti, che brillavano, sinistri e diabolici, sul far
della sera e nel cuore della notte. Gli si attribuiva una natura
malvagia, e si
pensava
a lui quando, di tanto in tanto, venivano trovati qualche capra
o qualche capriolo uccisi, con il cranio squarciato e svuotato
del cervello, di cui, evidentemente, andava ghiotto.
Non si registrarono mai altri misfatti attribuibili al ghetùn,
non furono mai aggrediti animali più grandi o esseri
umani, ma questi bastavano per suscitare nei contadini timore
e raccapriccio. I bambini, in particolare, ne avevano un vero
e proprio terrore, e le madri non mancavano di approfittarne
quando le facevano disperare con la loro vivacità: “Guarda
che ti do al ghetùn ghèt, quando viene!”
era la minaccia sempre efficace. Di solito veniva segnalato
di notte, soprattutto nelle notti estive, quando la breva che
spira dal lago di Como offriva un po’ di refrigerio nella
calura estiva: allora lo si poteva vedere, addossato al roccione,
incidere con le sue unghie misteriose figure di animali, che,
difatti, si possono ancora vedere, seminascoste dal muschio.
Che significato celavano quelle figure? Quale intelligenza diabolica
si celava dietro le spoglie di quell’animale? Perché
di semplice bestia non si poteva trattare: le bestie non scrivono,
non disegnano, non tracciano segni. Domande senza risposte,
che aumentavano l’inquietudine.
Talora
veniva avvistato anche di giorno, fra le vigne ed i castagneti,
oppure fra i rami dei castagni, sui quali, evidentemente, si
arrampicava con facilità, ma se ne scorgeva solo il muso,
con quei grandi occhi che parevano diabolici e fissavano, immobili,
il malcapitato di turno. Lo si vedeva e lo si udiva: emetteva
un suono molto simile al miagolìo di un gatto, ed anche
il caratteristico soffio dei gatti irritati (per questo lo avevano
chiamato ghetùn ghèt). Quando lo si sentiva soffiare,
non era buon segno, ed era prudente darsela a gambe levate.
Non lo si sentiva, però, mai quando si spostava: il suo
passo era silenziosissimo. Non se ne sapeva di più. Qualcuno
sospettava che avesse un’indole più giocherellona
e curiosa, che cattiva, ma a nessuno era mai venuto in mente
di cercare di familiarizzare, o di appostarsi davanti alla sua
tana nella roccia per scoprire qualcosa di più sui suoi
costumi.
Il mistero non è mai stato risolto, perché del
ghetùn, con gli anni, si sono perse le tracce. Chi ne
parlava
non riportava esperienze dirette, ma quel che aveva sentito
dire dai nonni, i quali, a loro volta, avevano ascoltato queste
storie dai loro nonni. Storie che probabilmente non sono prive
di fondamento. La descrizione dell’animale richiama quella
della lince, presente in numerosi esemplari
nei boschi della
Valtellina ancora agli inizi dell’Ottocento. Questo animale,
infatti, amava rintanarsi nelle strette spelonche della roccia
e si cibava anche del cervello delle sue vittime, fra le quali
vi erano, appunto, capre e caprioli. La sua presenza è
attestata sul versante retico ed orobico almeno fino ai primi
decenni dell’Ottocento; poi, probabilmente, si estinse,
poco prima del lupo.
Giuseppe Romegialli, ne "Storia della Valtellina e delle già contee di Bormio e Chiavenna" (Sondrio, 1834), scrive: "La lince o lupo cerviero, detto comunemente lupo-gatto, Felis Lynx, (der Luchs) abita le tane degli alti boschi, e ne è rara la specie. Quello esposto nel museo di Pavia fu dato dal cavaliere Giovanni Battista Paribelli di Sondrio, e preso nelle alpi d'Albosaggia".
Ma il tutto è avvolto nel mistero, perché era
senza dubbio, per la taglia ridotta e per le abitudini schive
ed appartate, il più difficile da avvistare fra i predatori.
Anche per questo è pressoché assente dall’immaginario
legato alle bestie feroci che turbavano il sonno dei bambini
nei secoli scorsi. Quando se ne parlava, veniva spesso confuso
con una sottospecie meno temibile del lupo, e chiamato
“lupo cerviero” o “lupo gatto”. Colpivano,
di lui, soprattutto gli occhi, ed ancora oggi è viva
l’espressione “occhi di lince”, per designare
una vista eccezionalmente acuta. Due soli esemplari di lince
furono abbattuti in Valtellina nell’Ottocento: uno, già
conservato nella collezione Sertoli, è andato perduto,
il secondo, invece, come abbiamo visto nella citazione dal Romegialli, ucciso nei boschi sopra Albosaggia, è
ancora osservabile nel Museo dell’Università di
Pavia.
E' interessante notare che negli Statuti di Bormio la lince, chiamata "lupus cerverius", è menzionata fra le fiere dalle quali l'intera comunità è chiamata a difendersi per la loro pericolosità; allo stesso animale viene dato anche il nome "lonza", che, a Piatta, viene usato pure come soprannome apposto
a talune donne. I cultori di Dante ricorderanno che la lonza, insieme al leone ed alla lupa, è una delle tre fiere che sbarrano la strada al poeta che tenta di uscire dalla selva oscura: era tradizionalmente considerato simbolo della lussuria, in quanto si riteneva che si accoppiasse in tutte le stagioni. Nel dialetto di Teglio, infine, l'animale veniva chiamato "lüf gat", cioè "lupo gatto".
È pressoché certo, dunque, che la spaccatura nel
granito sopra Cerido non ospiti più alcun animale, o,
quantomeno, linci. Almeno per ora. Chissà che in futuro
alcuni tentativi di reintroduzione dell’animale nell’arco
alpino lo riportino anche in Valtellina. Nel Parco Nazionale
Svizzero dell’Engadina, per esempio, è stata recentemente
liberata una coppia di linci, di cui però si sono interamente
perse le tracce. Ad ogni buon conto, si può sempre salire
a controllare a Cerido, se si nutre qualche dubbio al riguardo.
Se vogliamo arrivarci con l'automobile, lasciamo la statale
38 al primo semaforo d'ingresso a Morbegno (murbègn),
per chi viene da Colico, deviando a sinistra (indicazioni per
Traona e per la Costiera dei Cech).
Superiamo così un ponte sulla ferrovia ed un semaforo;
oltrepassato un secondo ponte, sull'Adda, prendiamo a destra,
percorrendo la strada che sale a Dazio (dasc). Dopo un tornante
sinistrorso ed un secondo destrorso, ci attende un lungo tratto
in salita verso nord-est. Dopo circa due chilometri e mezzo
e prima che la strada cominci a piegare a sinistra per avvicinarsi
al solco della val Toate, prestiamo attenzione sul lato sinistro:
vedremo un cartello che segnala la partenza di una stradina
che sale verso Cerido, dove termina. Vale però la pena
spendere tre quarti d'ora per salire a
piedi, partendo da Campovico
(camvìich).
Per raggiungere il paese, imbocchiamo la strada che sale a Dazio
ma, al primo tornante sinistrorso, invece di proseguire in salita,
abbandoniamola sulla destra, scendendo al ponte di Ganda e proseguendo,
lasciato il ponte alla nostra destra, fino a Campovico (m. 235).
Saliamo verso la ben visibile chiesa e lasciamo l'automobile
nel comodo parcheggio presso il cimitero sottostante. Raggiunto
il sagrato della chiesa,
vedremo una stradina, nel primo tratto asfaltata, che sale con
diversi tornanti sul fianco montuoso, fino al bel borgo di Cermeledo
(scèrmelée, termine che deriva anch’esso,
forse, da cerro, m. 461). Da qui saliamo alla strada asfaltata
che si dirige a Dazio e scendiamo per un tratto, verso sinistra,
fino ad incontrare, sulla nostra destra, la deviazione già
citata per Cerido.
Raggiunte le case di Cerido, vedremo facilmente un cartello
che ci indirizza al Torchio di Cerido. Nei giorni di giovedì
e domenica, dalle 14.30
alle 17.00, potremo visitare questo
piccolo museo della civiltà contadina, un torchio vinario e di un frantoio oleario del
secolo XVII (funzionanti fino agli anni '40 del secolo scorso),
cui si sono aggiunti altri interessanti oggetti della vita contadina
nei secoli passati (gerli, tini e tinozze, stadere, irroratori,
mazze, stai, ceste, pentole, lampade, borracce, cappelli, e
così via). La gentile signora Amelia Margnelli si renderà,
poi, disponibile a fornire notizie interessanti su questi strumenti
che rappresentavano, nell'economia contadina, risorse essenziali
in una zona nella quale la viticoltura si è sempre avvalsa
di un'ottima esposizione al sole. Nel caso in cui la visita
sia in comitiva è bene telefonare allo 0342611342.
Visitato il torchio, ci rimettiamo in cammino sulle tracce del
ghetùn, salendo ancora, lungo la mulattiera che sale
alla parte alta del nucleo e, piegando a sinistra, raggiunge
la baita più alta. Nei suoi pressi si trova un enorme
roccione, attrezzato anche per l'arrampicata, sotto il quale
sono stati ricavati
dei baitelli. Sul lato orientale si vede una cavità,
il cui bordo è riempito di terra. Forse
in passato esso
era aperto ed una fessura si insinuava nel corpo del roccione.
Forse era questa la tana. Ma pare troppo vicina alle case per
essere credibile: la lince è animale schivo, che non
ama rintanarsi vicino alle dimore degli uomini.
Proviamo, allora, a cercarla nel bosco. In corrispondenza del
roccione la mulattiera volge a destra e si immerge in uno splendido
bosco di castagni. Dopo un paio di tornanti, ci porta ad una
cappelletta, dove troviamo un bivio: sulla destra di trova la
deviazione per Ca' Brunai, alle porte di Dazio; se, invece,
proseguiamo sulla mulattiera principale, raggiungeremo, infine,
una bella fascia di prati, salendo ad intercettare la strada
asfaltata che congiunge Vallate, sopra Dazio, a Serone. ma di
roccioni neppure l'ombra.
Riportiamoci, allora, al orcicone a monte di Cerido: qui parte,
sullasinistra, un largo sentiero, un po' sporco, che sale nel
bosco. Dopo il primo breve tratto, sulla sinistra, un po' più
in basso, vedremo un
roccione più piccolo. Andiamo ancora avanti, fino ad
un casello dell'acqua. Qui lasciamo il sentiero principale e
volgiamo a destra, su un sentierino, che passa qualche decina
di metri sotto un terzo grande roccione. Per raggiungerlo, dobbiamo
passare sotto la sua verticale, lasciare il sentierino su debole
traccia che volge a sinistra ed aggirarlo a monte. Appena
sopra
il roccione si trova un bel masso erratico, più piccolo.
Scendiamo, ora, alla base del roccione, con cautela: vedremo
una fessura che si insinua fra il suo corpo e le rocce scoperte
che gli fanno da base. Che sia questa la tana del ghetùn?
Se d'inverno volgiamo lo sguardo al monte che sovrasta Cerido vedremo, però, leggermente spostato sulla destra ed appena sotto il limite del gradino che si affaccia sulla piana di Vallate, un grande masso che emerge dagli alberi spogli. E' il più grande nella zona, ma non è facilissimo raggiungerlo. Se vogliamo farlo, incamminiamoci sulla mulattiera che da Cerido sale alla piana di Vallate e che parte dalla baita più alta, piegando subito a destra. Dopo pochi tornanti, incontriamo una bella cappelletta, alla quale si stacca, sulla destra, un sentiero che scende a Ca' Brunai (Dazio). Noi restiamo sulla mulattiera, che qui piega a sinistra. Poco sopra, appena prima rispetto al punto in cui la mulattiera assume un andamento in falsopiano e si dirige ad una seconda cappelletta, vediamo, sulla sinistra, una radura. Portiamoci ad essa e, rimanendo presso il suo limite di destra, su traccia debolissima di sentiero, entriamo in una selva di castagni, procedendo sempre su traccia debole, ed un po' a vista, avendo cura di restare sempre alla medesima quota. In pochi minuti raggiungeremo l'enorme roccione. Che sia, dunque, questa la tana del ghetùn? Impossibile dirlo con sicurezza. Possibile, invece, se ci piace,
crederlo.