Chi si addentra nella conoscenza dei racconti e delle leggende che appartengono alla tradizione popolare vi scopre, non senza sorpresa, forse, una vena orrorifica che non solo può stare alla pari, ma addirittura supera quella dei maestri della cinematografia horror. Del resto, la lotta è impari: la cinematografia non può non giocare sull’esplicitazione, sulla proposizione visiva dell’orrore; la leggenda lascia invece interamente all’immaginario il libero gioco di costruzione dei tratti dell’orrorifico, e questo amplifica il senso di angoscia, perché dall’immagine che ci è data possiamo difenderci, con i diversi processi della razionalizzazione, ma di fronte a quella che ci diamo da noi stessi siamo, per così dire, disarmati.
Una delle figure più fosche e davvero orripilanti nel campionario horror che la tradizione ci consegna è quella della Pelaröla, cioè, letteralmente, di colei che pela, toglie la pelle. Colei, colui, non sappiamo esattamente: a volte la si dice strega, altre volte diavolo, forse non è né quella, né questo, ma rappresenta un grado di intensità tale del male da non avere genere (del resto, come si dice, gli angeli non hanno sesso, e dunque neppure i diavoli, che angeli, per quanto ribelli, sono).
La Pelaröla gira, come tutte le strìe, di notte, nell’arco delle dodici ore cui ci introduce il suono dell’Ave Maria della sera (alle sei di sera) e al quale ci sottrae il simmetrico suono dell’Ave Maria mattutina (sei di mattina). Nelle sue scorribande notturne, questo demone va alla caccia di creature da predare e di cui cibarsi. Il nome le viene dalla raccapricciante modalità del pasto: piatto forte è la pelle della sciagurata vittima, che le viene tolta lembo a lembo per soddisfare il perverso palato del demone. La vittima è scorticata viva (nell’immaginario cristiano questo tipo di supplizio non è sconosciuto, in quanto fu riservato ad uno degli apostoli, San Bartolomeo: la celebre statua nel Duomo di Milano ne rappresenta con puntiglio l’esito). Il demone non si sazia, però, facilmente: dopo la pelle, si pasce della carne, staccata brandello dopo brandello. Alla fine restano solo le ossa, ma in qualche caso pare che la Pelaröla si mangi anche quelle. Nessuno è esente dal rischio di una fine così orrida, ma vi sono alcuni bersagli privilegiati: le donne, in particolare quelle sole, e soprattutto quelle che protraggono il lavoro di filatura a tarda notte, in special modo nelle ore antelucane della domenica, giorno nel quale lavorare significa infrangere la sacralità del giorno del Signore.
Cediamo, per averne conferma, la parola a Camillo Gusmeroli (da "La storia di Tartano" - Tecnostampa, Montagna in Valtellina, 1985):" la PELAROLA: spirito femminile insembiante, ma ciarliero, piluccava le donne a filamenti di carne, particolarmente le filatrici notturne solitarie lasciandovi le ossa spolpate, ben sistemate nella cavagna al posto dei fusi."
Ecco alcune leggende, raccolte nell’arco delle Orobie centro-occidentali. Si commentano da sé.

Ne troviamo una prima, legata alla genesi del toponimo  di “uàl de la fémma” nel bel volume di Dante Sosio e Cecilia Paganoni “Albosaggia – Appunti di storia e di arte – Vita Contadina – Tradizioni e leggende”, (1987).
“Si racconta che una volta ad Albosaggia viveva una donna che tutte le sere, meno la domenica si recava su nel maggengo di «Ca' di Moi» in una casa di sua proprietà a filare la lana. Un sabato sera aveva portato con sé anche il suo bambino appena nato dentro la culla. Poiché la domenica, secondo l'usanza del paese non si poteva filare, lei rimase alzata fin dopo la mezzanotte per finire il lavoro. La Magada, che aveva il suo rifugio in una caverna lì vicino vide la luce filtrare dalla finestra, capì che la donna stava ancora lavorando nonostante fosse già domenica. Pronunciò allora la sua terribile maledizione: Fila filòta, fila filòta, fila filòta fila gió chè la pòca stòpa. La donna senti la maledizione ma presa dal suo lavoro pensò che si trattasse di uno scherzo e replicò: Aah, ho ca püra, sii otre de Ca' di Romeri! (Aah, non ho paura, siete voi di Casa Romeri). Dopo un momento però incominciò ad avere paura perché nessuno bussava alla porta, il tempo passava ma nessuno bussava, c'era un silenzio pauroso.

Fattasi coraggio prese la culla e s'incamminò verso casa. Proprio nell'istante che la donna doveva attraversare la valletta la Magada che l'aveva seguita passo passo aspettando il momento opportuno per mettere in atto la sua maledizione si scagliò contro e la scaraventò nel uaigèll per punirla di aver lavorato didomenica. Da quel giorno quel uaigèll è chiamato 'La uàl de la fémma'!”

Una seconda leggenda, tratta dal medesimo volume, e raccontata da Giulia Paganoni, anni 91, a Michela Toccalli, rappresenta una variazione sul medesimo tema. Eccola.
"Nella contrada Barbagli viveva una donna che passava le giornate filando la lana fino a tarda sera, per tutte le famiglie del Torchione. Una sera mentre stava ancora filando al lume di candela, una vecchietta bussò alla porta e le offri il suo aiuto per filare la lana. La buona donna accettò con piacere, non si era accorta purtroppo che si trattava della terribile Magada. Questa pronunciò sotto voce, per non farsi sentire alcune parole magiche, poi fece alcuni gesti rapidi e in quattro e quattrotto la lana finì. Allora la buona donna tutta contenta andò in camera da letto a prenderne dell'altra. Il marito che era già coricato vedendola ancora alzata le chiese cosa stesse facendo. La buona donna rispose che prendeva altra lana perché una buona vecchina era venuta ad aiutarla. Il marito capì subito che la buona vecchina altro non era che la Pelarola, la Magada che si nutriva di pelle umana.
Per chi fosse interessato ricordiamo che in Albosaggia c'erano altre due Magade, una si nutriva di ossa e l'altra di carne umana. Tornando alla nostra storia, l'uomo impaurito, nascose sua moglie sotto il letto chiuse a chiave la porta sprangò la finestra e attesero che la Pelarola stanca di aspettare se ne andasse. Dopo una lunga attesa la sentirono allontanarsi urlando: Pée pée, quant ca ho penàat e chel pòrco al t'ha ensegnaat (quanto ho penato per avere la tua pelle e quel porco ti ha liberato)
."
Trasvolando da Albosaggia alla Val di Tartano, troviamo quest'ultima storia, raccontata da Giulio Spini. La riportiamo trascrivendone il riassunto dall’interessantissimo articolo di Ivan Fassin sul numero 61 (2008) del Bollettino della Società Storica Valtellinese (“Credenze e leggende dell’area orobica valtellinese: un esperimento di interpretazione”).
Una anziana donna era dedita in modo quasi ossessivo alla filatura della lana. Questo la portava a lavorare a lungo nella sera, in cucina al lume di candela, talora anche oltre la mezzanotte. Del resto non c'erano orologi. I familiari, che andavano a letto prima, dalla stanza al piano superiore, la sentivano cantilenare "e fili e fili e mèti i ftis i(n) la cavagna". [cioè: "filo, filo e poi metto i fusi nel canestro].
A volte si svegliavano nella notte, e sempre sentivano la solita cantilena. Ma una notte si svegliarono all'improvviso con una strana sensazione, avendo udito dei rumori strani venire dalla cucina. Allora chiamarono la donna, ma in risposta udirono una voce alterata e sinistra, che diceva "e peli e peli e meti i òs i(n) la cavagna" [come dire: "pelo e pelo e metto le ossa nel canestro"]. Allora si resero conto dell'accaduto: l'anziana filatrice aveva superato la mezzanotte del sabato, e lavorando di domenica era caduta in peccato. Così il diavolo in persona era venuto a prenderla [...].”

Non si pensi però che il versante orobico abbia l'esclusiva di questo essere infernale: anche in quello retico si segnala la sua presenza, in particolar modo in quel di Buglio, dove la sua presenza è stata segnalata nel solco della bassa Valle Primaverta, attraversata dalla carozzabile che dal piano sale al centro del paese.

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