Su YouTube: DOSSO LE PONE - GALLERIA DI IMMAGINI - CARTA DEL PERCORSO - ESCURSIONI IN VALDISOTTO


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Punti di partenza ed arrivo
Tempo necessario
Dislivello in altezza
in m.
Difficoltà (T=turistica, E=escursionistica, EE=per escursionisti esperti)
Parcheggio Forte Venini-Dosso le Pone
2 h e 45 min.
810
E
All’uscita dell’ultima galleria della ss. 38 dello Stelvio, prima di Bormio, ignoriamo il primo svincolo, sulla destra, per Valdisotto, mentre al secondo, sulla sinistra, per S. Lucia,, la lasciamo, portandoci alle case della frazione. La strada guadagna quota, con qualche tornante, salendo verso Oga. Dopo un traverso a destra, al tornante sx se ne stacca, sulla destra, una strada (indicazioni per Livigno) che passando per Le Motte scende a Pian del Vino e ad Isolaccia. Noi restiamo, invece, sulla strada per Oga, passiamo per il paese e proseguiamo salendo sulla carozzabile fino al suo termine, nei pressi dell'ex-forte Venini di Oga. Parcheggiata l’automobile nei pressi di un ristorante-bar e del punto d’inizio degli impianti di risalita (m. 1750 circa), ci incamminiamo su una pista sterrata che sale con alcune svolte in pineta. Ignotare alcune deviazioni, passiamo per la località Sposina ed usciamo dal bosco salendo al Ristoro della Malga di S. Colombano (m. 2235). Prendiamo ora a destra, trovando ben presto una nuova pista che aggira una gobba erbosa e passa a sinistra di un altro ristoro, proseguendo in leggera salita e tagliando l’ampia conca che si spegne ai piedi del versante erboso sotto il passo di San Colombano, sul quale è visibile la chiesetta omonima. La pista, passando a sinistra degli impianti della Sciovia Dosso Le Pone, supera il torrente che scende, da sinistra, dalla valle di San Colombano. Quasi a ridosso del versante sotto il passo, piega leggermente a sinistra e poi a destra (nord-ovest), per effettuare l’ultimo lungo traverso che porta alla sella. Passiamo, così, vicino alla sorgente dell’Acqua di San Carlo.L’ultimo tratto di salita, abbastanza ripido, ci porta all’ampia sella del passo di San Colombano ed alla chiesetta omonima (m. 2484). Proseguendo su traccia di pista verso ovest-nord-ovest, con un quarto d’ora di cammino aggiuntivo raggiungiamo la cima del Dosso le Pone (m. 2556), dove termina l’impianto di risalito della sciovia delle Pone.


Apri qui una fotomappa dell'escursione al passo di San Colombano ed al Dosso Le Pone

La figura di San Colombano è una pietra miliare del monachesimo occidentale. Nacque intorno al 540 nella cittadina di Navan nel Leister. Peregrinò per buona parte dell’Europa, fondando monasteri e xenodochi, e forse venne anche in Valtellina, con un pugno di monaci che lo seguivano, dopo aver visitato alcune valli dell’attuale Svizzera.
Per giungere, come giunse, in Pianura Padana dovette passare per il passo dello Spluga o per quello del Bernina, nel 612. L'ipotesi di un passaggio del santo dal passo del Bernina è fondata sulla diffusione del suo culto in Valtellina. Si trovano, infatti, chiesette a lui dedicate a Campo di Novate Mezzola, Mantello, Traona, Postalesio, Ravoledo di Grosio ed Oga.


Apri qui una panoramica dalla chiesetta di San Colombano sopra Oga

Venne accolto con favore dalla corte longobarda, dove la regina Teodolinda era cattolica. Siccome una tradizione fa del castello di Domofole, fra Traona e Mello, la residenza estiva della regina (per questo viene chiamato anche Castello della Regina), la stessa tradizione vuole che Colombano abbia soggiornato per qualche tempo nei pressi di Traona, nel cuore della Costiera dei Cech, prima di tornare in Pianura Padana e fondare il celebre monastero di Bobbio, nel 614. Ma la devozione al santo non è viva solo a Traona, dove si trova una chiesetta a lui dedicata.
E' però anche possibile che tale culto sia stati introdotto nella valle da Amalrico, che fu contemporaneamente Vescovo di Como ed abate della famosa abbazia di Bobbio, fondata proprio da S. Colombano.


San Colombano in un ex-voto per la grazia ricevuta dei figli nella chiesetta di San Colombano

Sia come sia, numerose sono le leggende legate al santo in Valtellina. In quel di Traona, per esempio, si racconta che il santo di fermò in bassa valle per volontà della Regina Teodolinda, e mantenne uno stile di vita improntato alla più austera ascesi: scelse come dimora una grotta sui monti fra Traona e Mello, vivendo in solitudine, nella mortificazione e nella preghiera. La sera i falò che si accendevano sui monti segnalavano l’ora della preghiera per lui e per i monaci suoi compagni, sparsi in diverse celle o grotte. Si racconta anche che egli fu attento e solerte promotore della bonifica, del dissodamento, del terrazzamento e della messa a coltura delle terre che gli vennero assegnate dalla regina Teodolinda. In questo suo disegno, che recuperò tanta parte delle terre nella piana di Traona, si avvalse dell’opera dei monaci che lo seguivano.


Dipinto nella chiesetta di San Colombano sopra Oga

Dipinto nella chiesetta di San Colombano sopra Oga

Ex-voto nella chiesetta di San Colombano sopra Oga

Panca nella chiesetta di San Colombano sopra Oga

La fama della sua santità, con suo grande disappunto, non tardò a diffondersi, come non tardarono a diffondersi i racconti degli eventi prodigiosi legati alla sua figura. Si raccontava di una fonte che avrebbe fatto sgorgare miracolosamente da un grosso macigno, di uccelli che gli volavano sulle spalle, di scoiattoli che giocavano ai suoi piedi, di lupi ammansiti dal suo sguardo mite e fermo, e perfino di orsi che condividevano il riposo nella sua grotta.
La tradizione dunque vuole che Colombano abbia soggiornato per qualche tempo nei pressi di Traona, nel cuore della Costiera dei Cech, prima di tornare in Pianura Padana e fondare il celebre monastero di Bobbio, nel 614. Ma la devozione al santo non è viva solo a Traona, dove si trova una chiesetta a lui dedicata. Anche in alta Valtellina venne edificata una chiesetta dedicata a San Colombano, ed ha la particolarità, posta com’è a 2484 metri, al passo di San Colombano, di essere la più alta nel territorio della provincia di Sondrio. In realtà la prima chiesa dedicata al santo, già attestata nel Trecento, venne costruita più in basso; l’attuale risale al 1616, e fu, per secoli, meta di pellegrinaggio da parte soprattutto di donne che salivano ad essa da tutti i paesi della Contea di Bormio, per invocare la grazia di poter avere dei figli. I numerosi ex-voto che si vedono ancora al suo interno testimoniano di quanto fosse preziosa questa grazia.
La salita al passo ed alla chiesa di San Colombano è dunque un’escursione che si fa apprezzare per il fascino storico e spirituale di questi luoghi, oltre che per la panoramicità, la tranquillità, la luminosità.
Punto di partenza è il parcheggio che si trova nei pressi della struttura dell’ex-forte Venini di Oga. All’uscita dell’ultima galleria della ss. 38 dello Stelvio, prima di Bormio, ignoriamo il primo svincolo, sulla destra, per Valdisotto, mentre al secondo, sulla sinistra, per S. Lucia (santa luzìa), la lasciamo, portandoci alle case della frazione. La strada guadagna quota, con qualche tornante, salendo verso Oga. Dopo un traverso a destra, al tornante sx se ne stacca, sulla destra, una strada (indicazioni per Livigno) che passando per Le Motte scende a Pian del Vino e ad Isolaccia. Noi restiamo, invece, sulla strada per Oga, ed incontriamo quasi subito, sulla destra, la bella e solitaria chiesa della Madonna di Caravaggio, più conosciuta come Madonna di Oga.
Un pannello illustrativo riporta particolari curiosi ed interessanti legati alla sua edificazione. Eccone il testo: “Secondo una tradizione orale, la chiesa della Madonna di Caravaggio è sorta nello stesso luogo in cui si trovava la cappella voluta da Giovannino Guana per ringraziare la Madonna di averlo salvato da un’aggressione di donnole. In passato i mustelidi erano molto temuti. Si credeva infatti che avessero poteri eccezionali e caratteri demoniaci. Il loro morso era considerato velenoso come quello di una vipera: per gli animali poteva rivelarsi addirittura mortale se, con prontezza, non si fosse tracciata una croce con un ferro rovente nel punto preciso in cui erano stati addentati. Anche l’uomo si sentiva minacciato dal carattere permaloso di queste bestione ritenute capaci di vendicarsi dei torti subiti sgozzando galline, razziando uova nei pollai o sporcando latte e formaggi. Certamente l’indole predatoria dei mustelidi poteva comportare danni significativi alla già povera economia contadina dell’epoca. Per questo, temendo che fosse sufficiente ad evocarne la comparsa, nessuno osava pronunciarne il nome. A chi invece si fosse casualmente imbattuto in una donnola o in un ermellino la credenza popolare suggeriva di recitare particolari formule a salvaguardia della propria persona. I lavori di costruzione della chiesa, intitolata alla Beata Vergine di Caravaggio o della Fonte, iniziarono nel 1726 su progetto del capo mastro intelvese Antonio Perini e furono ultimati nel 1742. Il campanile con la cuspide a bulbo, opera del maestro Stefano Luchino, si concluse qualche anno prima. Settecentesche sono anche le ancone lignee collocati sui due altari laterali intitolati a S. Anna e all’angelo custode. Di particolare pregio il gruppo ligneo dell’altare maggiore che, commissionato a Parigi nel 1885, propone la scena dell’apparizione della Madonna avvenuta a Caravaggio il 26 maggio 1432 alla popolana Giannetta Vacchi.
La chiesetta è conosciuta localmente come la “madòna” o la “madonìna”; inoltre dai documenti apprendiamo che Giovannino Guana fu Antonio di Oga fece edificare la cappella votiva per essere scampato da “evidente pericolo di morte”, senza specificare quale fosse; accanto alla tradizione che parla di donnole, ve n’è un'altra che parla di un attacco di vipere.
La posizione rialzata della chiesa rispetto al fondovalle (m. 1416) ne fa anche un ottimo osservatorio panoramico ravvicinato sulla conca e la città di Bormio. Proseguiamo, poi, verso sud, raggiungendo l’abitato di Oga. Ignorata la deviazione sulla sinistra, che porta ai piedi della chiesa parrocchiale, passiamo fra le case, con qualche tornante, uscendo dal paese in direzione nord. Inizia ora la salita al poggio boscoso che nasconde la struttura dell’ex-forte Venini: la strada, dopo un tornante sx, si porta quasi a ridosso del solco della Valle Cadolena (rin de cadoléna), proponendo quindi un tornante dx che introduce all’ultimo traverso prima del parcheggio poco ad ovest di tale poggio.
Siamo nella riserva naturale del Paluaccio di Oga, un’aera caratterizzata dalla presenza di una tipica torbiera, che veniva in passato sfruttata per l’estrazione della torba, utilizzata come combustibile. Dalle necessità della vita civile a quelle della vita militare: non lo vediamo dal parcheggio, ma nascosto fra le piante del poggio, oltre un ponte, sta una delle strutture più tipiche del sistema difensivo allestito nella prima guerra mondiale (localmente detto “al fòrt”), con pezzi d’artiglieria, che servivano a coprire con il fuoco di lunga gittata le azioni dell’esercito italiano sul lungo fronte dallo Stelvio all’Ortles-Cevedale.
Il forte, legato alla memoria del capitano valtellinese Venini, medaglia d'oro al valor militare, fu costruito grazie al lavoro di oltre 400 uomini dal 1908 al 1912, in un periodo nel quale l'Italia era ancora formalmente alleata dell'Impero Austro-Ungarico, il che lascia supporre che già si pensava ad un possibile ribaltamento delle alleanze. Era una struttura poderosa, progettata per essere pressoché inespugnabile. Furono infatti impiegati grossi blocchi di pietra ricoperti da uno spessissimo strato di cemento, oltre ad enormi quantità di ghiaia e sabbia della vicina val Cadolena (venne usata una decauville per trasportare il materiale), per renderne particolarmente robusta la struttura.


Oggetti della Grande Guerra al Forte Venini

Oggetti della Grande Guerra al Forte Venini

Oggetti della Grande Guerra al Forte Venini

Oggetti della Grande Guerra al Forte Venini

Oggetti della Grande Guerra al Forte Venini

Oggetti della Grande Guerra al Forte Venini

Allo scoppio della Prima Guerra Mondiale i suoi cannoni da 120 millimetri iniziarono a sparare oltre il passo dello Stelvio, in territorio austriaco, su Trafoi e Gomagèi, ma anche sulla prima linea austriaca in cima al monte Scorluzzo e presso il passo dello Stelvio. La loro gittata raggiungeva infatti i 13 chilometri. Il tiro era controllato da vedette sulla cima di Trafoi, che comunicavano con il forte mediante una linea telefonica. Il fuoco di sbarramento fu decisivo per bloccare nel luglio del 1918 una forte offensiva degli Austriaci. Il forte rimase operativo fino al 1958, quando venne chiuso (i cannoni furono venduti come ferraglia).
Oggi viene aperto al pubblico negli orari di visita (cfr. http://www.fortedioga.it/). Una visita interessantissima, che permette non solo di osservarne la struttura, compresa la polveriera dove venivano fabbricati i proiettili, ma anche di visitare un piccolo museo che raccoglie cimeli e reperti della Grande Guerra, con una forte valenza istruttiva e suggestiva.
Ma è tempo di puntare ad una meta più alta e più spirituale.
Parcheggiata, dunque, l’automobile nei pressi di un ristorante-bar e del punto d’inizio degli impianti di risalita (m. 1750 circa), consultiamo subito il cartello escursionistico all’inizio di una pista sterrata chiusa al traffico dei veicoli non autorizzati: esso dà la località di Sposina ad un’ora e 5 minuti e la malga di San Colombano ad un’ora e 55 minuti. A questo cartello se ne accompagna uno più grande e divertente, in legno, con una graziosa mappa animata da personaggi curiosi che ci dà un’efficace idea d’insieme di tutta la zona dalla malga di S. Colombano alla cima Piazzi. Cominciamo a salire sulla pista, all’ombra di un bel bosco di larici, pini mughi ed abeti, incontrando un primo bivio con relativi cartelli illustrativi: proseguendo a sinistra (n. 280) si va alla malga di S. Colombano in 2 ore, al passo di San Colombano in 2 ore e 50 minuti ed al dosso Le Pone in 3 ore e 10 minuti, mentre prendendo la pista di destra (n. 284) si raggiunge Palancana in un’ora e 20 minuti e Isolaccia in 2 ore e 45 minuti.  Dopo una sequenza dx-sx-dx, al successivo sx si stacca sulla destra una pista; un cartello ci conferma però nella direzione della pista principale, e dà Sposina a 5 minuti e la malga di S. Colombano a 55 minuti.
Alla località Sposina troviamo un cartello che la quota 2030 metri; la malga di S. Colombano viene data a 50 minuti. Dopo una serrata serie di tornanti, che ci fanno attraversare la pista di sci, troviamo un nuovo cartello che dà la malga di S. Colombano a 35 minuti. Terminata la salita, segue una leggera discesa; raggiungiamo il punto in cui dalla nostra pista se ne stacca una sulla destra. Proseguendo diritti restiamo sul percorso 280, che porta alla malga di S. Colombano in 30 minuti (la domanda sorge spontanea: ma com’è che al precedente cartello erano 25…?), alla chiesa di S. Colombano in un’ora e mezza ed al dosso le Pone in un’ora e 45 minuti; la pista sulla destra, invece, porta all’alpe Pone in un’ora, a Prei in un’ora e 40 ed a S. Carlo in 3 ore e 30 minuti. Avanti ancora, dunque; dopo aver superato un secondo impianto di risalita ed affrontato una semicurva a destra, cominciamo a vedere l’ampia e luminosa conca della malga di S. Colombano, che si stende placida a destra (nord) della slanciata piramide del corno di S. Colombano (còrn de san colombàn, m. 3022): tutto, qui, sembra, dunque, ispirarsi al grande monaco irlandese.
Procedendo diritti, concludiamo la salita al Ristoro della Malga di S. Colombano (san colombàn, m. 2235). L'alpeggio, di proprietà comunale, un tempo caricava 200 armenti ed 800 capi di bestiame minuto; oggi la sua importanza è molto più legata agli impianti di risalita di Oga.
Ecco il documento del 1605 che ne fa menzione: "L’alpe di S. Colombano, dalla chiesa tagliando dritto sin alle Pone et sin al rin del Albuzan seguitando il mott sin sopra li prati di Rossen et li comunali tutti sopra li prati di Oga sin alla soprascritta valle Cadolena, computati li plan di Masughi, si estima istadiare armenti capi n° 100, bestiame minuto 800."
Presso il ristoro troviamo altri cartelli escursionistici: il sentiero 280, verso destra, portano alla chiesa di S. Colombano in 50 minuti, al Dosso Le Pone in un’ora e 10 minuti ed all’alpe Boron in un’ora e 10 minuti; verso sinistra, invece, è segnalato l’itinerario 208, che porta alla baita Cerdec in un’ora e 15 minuti, all’alpe Zandilla in 3 ore ed all’Alto in 4 ore e 40 minuti. Un cartello verde segnala che stiamo percorrendo l’Alta Via della Magnifica Terra. Prendiamo, dunque, a destra, trovando ben presto una nuova pista che aggira una gobba erbosa e passa a sinistra di un altro ristoro, proseguendo in leggera salita e tagliando l’ampia conca che si spegne ai piedi del versante erboso sotto il passo di San Colombano, sul quale è visibile la chiesetta omonima. Alla nostra destra si eleva la modesta cupola del monte Masucco (masùch, m. 2366, un tempo chiamato mót rós per il suo colore rossiccio), il punto più alto degli impianti di risalita di Isolaccia e di Oga. La pista, passando a sinistra degli impianti della Sciovia Dosso Le Pone, supera il torrente che scende, da sinistra, dalla valle di San Colombano (il già citato rin de cadoléna), valle che si sviluppa brevemente verso sud, fino alle falde settentrionali del Corno di S. Colombano, ed ospita un sistema di graziosi laghetti (può essere un’idea andarli a visitare, integrando l’escursione qui proposta, magari per verificare se è vero quel che dice un’antica voce, secondo la quale sul loro fondo vi sarebbe sabbia frammista ad oro).
Quasi a ridosso del versante sotto il passo, piega leggermente a sinistra e poi a destra, per effettuare l’ultimo lungo traverso che porta alla sella. Passiamo, così, vicino alla sorgente dell’Acqua di San Carlo, una delle sorgenti fatte miracolosamente scaturire in terra di Valtellina dal grande pastore della Controriforma, secondo la tradizione popolare.


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Ecco cosa dice, dell’aqua de san carlo, l’Inventario dei Toponimi Valtellinesi e Valchiavennaschi (Valdisotto), curato, da aa.vv.: “Sorgente freschissima posta a O dell'alp de san colombàn appena al di là del torrente omonimo, sul sentiero che conduce alla gesìna de san colombàn. La fonte, secondo la credenza popolare, sarebbe stata fatta scaturire dal santo omonimo. Sappiamo però che San Carlo Borromeo visitò effettivamente la Valtellina il 27 e il 28 Agosto 1580, ma si limitò alla sola Tirano, dove celebrò la messa nella basilica della Madonna, per poi ritornare in Valcamonica. Questa fonte ha tutt'oggi, secondo la credenza popolare, particolari proprietà terapeutiche soprattutto nella cura delle dermatiti... Raccontava infatti un certo Salomoni di Oga, muratore di professione, di aver contratto un'eczema del cemento, diffusasi su tutto il corpo, e che nessuna cura e ricovero ospedaliero erano riusciti a eliminare. Una domenica, trovandosi presso l'àqua de san càrlo, si bagnò e portò a casa alcune bottiglie con le quali si asperse tutto il corpo. L'indomani notò l'iniziale cicatrizzazione delle ferite e in poco tempo guarì. Lo stesso signore ricordava che da piccolo, il giorno che ci si recava in pellegrinaggio alla chiesetta di san Colombano, giunti alla fonte, gli anziani intimavano ai bambini e ai ragazzi di intingere la mano destra nell'acqua e di farsi il segno di croce, prima di affrontare l'ultima salita che porta alla piccola chiesa; un gesto devozionale che riconosceva a quell'acqua proprietà taumaturgiche.”
In realtà il culto dell’acqua di San Carlo è molto probabilmente una cristianizzazione di antichissimi culti pagani delle acque taumaturgiche, ed a tale cristianizzazione non è estranea la decisione di edificare sul passo di San Colombano la chiesetta che stiamo per raggiungere. Intanto diciamo, purtroppo, che la sorgente dell’Acqua di San Carlo è stata captata per servire il ristoro che abbiamo oltrepassato, per cui non possiamo più bagnarci alle sue acque. L’ultimo tratto di salita, abbastanza ripido, mette a dura prova le nostre energia residue, ma finalmente eccoci all’ampia sella del passo di San Colombano ed alla chiesetta omonima (gesìna de san colombàn, m. 2484).
Per saperne di più consultiamo di nuovo il volume sui toponimi di Valdisotto, e precisamente l’introduzione storica di Ilario Silvestri: “A conclusione di questa breve escursione, v'è ancora da ricordare la piccola chiesa di S. Colombano, ricostruita nel 1665 a quasi a 2500 m, non tanto per raffinatezze artistiche quanto per la viva devozione popolare. Si è già detto che la primitiva chiesa intitolata al santo era stata costruita molto più in basso, nella località ora detta Tadé, ma anticamente denominata Rossén. La sua ricostruzione in una fascia assai più in alto è dovuta all'energico processo di cristianizzazione di usi e consuetudini pagane intrapreso dalle istituzioni ecclesiastiche in epoca controriformistica. La leggenda vuole che il tempietto si dovesse ricostruire accanto alla fonte di S. Carlo che sgorga nel pianoro qualche centinaio di metri più in basso rispetto all'odierna collocazione, alla quale le credenze popolari, che affondano la loro origine nella notte dei tempi, attribuivano poteri medicamentosi straordinari. Il santo irlandese avrebbe dovuto far dimenticare le proprietà attribuite dal popolo all'acqua.


San Colombano

La chiesa si costruì poi in cima al dosso che divide la Valdisotto dalla Valdidentro, non tanto perché i buoi aggiogati o i cavalli con la prima pietra si fermarono sul crinale, ma per annullare e sostituire con un culto cristiano non solo la fonte verso Oga, ma anche l'omonima che sgorga sul versante di Valdidentro, sopra il maggengo di Préi. S. Colombano assunse i poteri che le credenze popolari attribuivano all'acqua e divenne un santo dispensatore di fertilità e di rinnovamento.
La sorgente taumaturgica, che il clero nei secoli passati non riuscì del tutto a sostituire con il culto del santo, è stata ora captata per rifornire un ristoro di recente costruzione, cancellando del tutto quella che era pur sempre una nota di poesia. Rimane comunque il toponimo che definisce il pianoro ai piedi del Corno di S. Colombano.”


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Un pannello illustrativo nei pressi della chiesetta integra queste informazioni: “Sànte Colombane, fate che i nostri passi non siano invane!” Era questa la preghiera che, salendo scalze in processione, le donne recitavano raggiungendo questa chiesetta. Edificata nel 1616, era in passato meta dei “pellegrinaggi della speranza” delle spose che non riuscivano ad avere figli. Venivano quassù (siamo a 2484 metri) da tutto il contado, persino da Trepalle, dopo aver attraversato la Val Verva e la Val Lia. Ore e ore di cammino erano del resto poca cosa rispetto all’umiliazione a cui le donne sterili, in dialetto spregiativamente dette sc’tèrle o paragonate a un ram séch (ramo secco), erano in passato sottoposte. Si racconta di un uomo di Cepina, salito a chiedere la grazia, a cui S. Colombano regalò un figlio dopo l’altro. Al decimo il buon uomo dovette rifare la processione implorando questa volta “Basta! Sànte Colombane!” perché fosse interrotta la catena di nascite. Tanta grazia veniva ripagata con una sincera devozione. Ne sono prova le bamboline e le numerose tavolette ex voto conservate nella chiesa, sulle quali sono rappresentate donne in ginocchio ai piedi di S. Colombano che ascolta e accoglie le richieste a braccia spalancate.
Perché ci si rivolgesse proprio al santo irlandese resta però un fatto in buona parte misterioso. In nessuna altra zona, italiana o straniera, sono documentati a suo favore poteri di guarigione contro la sterilità. Una spiegazione di ciò si può forse trovare nell’ambiente circostante la chiesa. Poco distante da qui sgorga una fonte, intitolata a S. Carlo, a cui i contadini locali attribuivano poteri miracolosi: probabilmente questa credenza è l’eco di un antichissimo culto pagano delle acque che il cristianesimo, nonostante gli sforzi, non riuscì a scalzare; venne perciò assimilato con l’astuto escamotage di attribuire le virtù della fonte al santo.

È possibile però avanzare anche un’altra ipotesi sul nesso fra S. Colombano e la “guarigione” delle donne sterili: si racconta che la madre del santo, in attesa della sua nascita, abbia visto un sole uscire dal suo seno per recare al mondo una grande luce. San Colombano sarebbe dunque il figlio che reca luce per eccellenza: il passaggio da qui al santo che dona la grazia di avere figli, che sono per ogni madre luce degli occhi, forse non è troppo forzato.
Sul medesimo tema, ecco quel che si legge nel bel volume di L. Fumagalli, M. Gasperi e M. Canclini "Valdidentro - Storia, paesi, gente", edito da Alpinia Editrice: "La fecondità era ritenuta una grazia della "provvidenza", mentre al contrario la sterilità era simbolo di punizione. Emblematico il commento maligno della gente del villaggio di Semogo, a proposito di una donna che non dava alla luce dei figli: "Al vòl dir che al Signor al vòl gnènca laghér la raza". Significa che Dio non vuole che di quella famiglia si formi discendenza. In senso spregiativo, una donna che non aveva figli era definita sc'tèrla, ossia sterile, mentre l'uomo era marchiato col termine sc'terluch.


La cima Piazzi si specchia in una pozza appena sotto il passo di San Colombano

L'impossibilità di avere figli veniva combattuta anche con la preghiera e la devozione a san Colombano. Le coppie che avevano difficoltà a procreare si recavano in pellegrinaggio fino alla sperduta chiesetta in cima alla montagna, dedicata al santo monaco irlandese. Si racconta che un abitante di Premadio, per avere figli, si recò pregando a piedi scalzi dal suo villaggio alla soglia di quella chiesa e il suo desiderio fu talmente esaudito che sua moglie in seguito portò alla luce ben sei pargoli. Tra le molte anche una coppia di Isolaccia che non aveva figli si spinse, sempre a piedi scalzi, dal piccolo paesino della Valdidentro fino a San Colombano per chiedere la grazia. Un'altra donna di Isolaccia, dopo essersi recata fino alla chiesa partendo a piedi scalzi da Sughét (frazione tra Premadio e Isolaccia), ricevette la grazia riuscendo a partorire otto figli. Questa diceva scherzosamente in giro che era pronta a ripartire verso la cima della montagna per chiedere una seconda grazia, quella che fosse interrotta la magnanimità di San Colombano."


San Colombano

Intanto a noi spetta un altro passaggio: dopo aver ammirato il panorama, già bellissimo da qui (siamo sospesi fra due mondi: saliti dal versante retico della Valdisotto, ci affacciamo alla Val Lia - o Val Elia -, che si apre ai piedi della parete nord della cima Piazzi, in Valdidentro), con un quarto d’ora di cammino aggiuntivo portiamoci sul vicino dosso le Pone (li Póna, m. 2556), vertice nord-occidentale del comune di Valdisotto e punto panoramico eccezionale (qui termina, fra l’altro, l’impianto di risalito della sciovia delle Pone).
Partiamo da sud: dietro il modesto pizzo Borron (al pichìn), vediamo a sinistra il Corno di San Colombano ed a destra il versante nord della cima Piazzi, con il caratteristico ghiacciaio. Procedendo in senso orario, riconosciamo il pizzo ed il corno di Dosdè, in Val Grosina ed in Val Viola Bormina; seguono un breve spicchio del gruppo del Bernina e le cime del versante settentrionale della Val Viola Formina.


Valfurva vista dal Dosso Le Pone

A nord, poi, il passo del Foscagno e le montagne del Livignasco; a nord-est in primo piano la grande dorsale che nasconte la Valle di Fraele, con il monte Pettini, la cima di Doscopa e le cime di Plator, seguita dalla cima di Schumbraida e dal monte Braulio, davanti alle quali si riconoscono le due cime del Monte delle Scale; poi il massiccio versante della Reit, che guarda alla conca di Bormio, ed alla sua destra le cime del gruppo Ortles-Zebrù-Adamello. Segue la Valfurva, con il monte Confinale, il pizzo Tresero e dei Tre Signori; infine il monte Vallecetta, prima che il Corno di San Colombano chiuda la visuale a sud. Una splendida carrellata di cime che ripaga ampiamente le circa due ore e mezzo impiegate per salire fin qui (il dislivello approssimativo è di 800 metri).
Attenzione: qualcuno (come il sottoscritto) potrebbe pensare, ricordando di aver incontrato poco sotto la malga di San Colombano la deviazione a destra per l’alpe Pone, data ad un’ora, che vi sia una pista che consente di scendere sul versante della Val Lia, fino alle baite di Prei (che vediamo già dal passo) per poi effettuare una bella traversata tornando per altra via alla pista che scende all’ex-forte Venini. Così non è. O meglio: scesi alle baite dei Prei, troviamo una pista, percorrendo interamente la quale ci ritroviamo ad Isolaccia. Alla località Ciuk, però, vi è un bivio: il ramo che prende a destra, salendo, porta alla fine ad un bivio (nessuna segnalazione), proponendo due rami che terminano entrambi ad alcune baite. Si tratta dell’alpe delle Pone. Il sentiero che attraversa la Val Bucciana, in direzione del versante sopra il forte Venini, parte sul limite alto dei prati raggiunti dal breve ramo di destra. Ma se non lo si sa, difficilmente lo si trova, per cui si finisce, come nel mio caso, per scendere sconsolatamente verso Isolaccia implorando al primo fuoristrada di passaggio un… passaggio per il forte Venini.


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CARTA DEL PERCORSO sulla base della Swisstopo, che ne detiene il Copyright. Ho aggiunto alla carta alcuni toponimi ed una traccia rossa continua (carrozzabili, piste) o puntinata (mulattiere, sentieri). Apri qui la carta on-line

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