L'orso in Valtellina, è ufficiale, ha rimesso piede. Vezzeggiato, collarizzato, filmato, seguito, temuto, discusso: è già una star inconsapevole. Non così in passato, quando la sua figura era legata a timori radicati e non sempre infondati.
Prima che iniziasse, con l'introduzione delle armi da fuoco, la caccia sistematica che ne determinò l'estinzione per un buon secolo e mezzo, fino alla metà dell'ottocento non era esperienza rara imbattersi in esemplari d'orso, che venivano abbattuti solo quando si avventuravano nei pressi dei centri abitati o insidiavano armenti e greggi. Tutto sommato, non era animale particolarmente temuto, perché, come scrive Bruno Credaro, "...l'orso che vive di topi e uova di formiche... solo in circostanze eccezionali cede alla tentazione di mangiarsi una pecora o una capra. Se qualche volta un orso ha dato una zampata a qualche montanaro, l'ha fatto sempre per legittima difesa, messo alle strette da forche o da archibugi."


Bormio

A riprova di ciò, narra un episodio di gustosa incomprensione fra orso e uomo: "Un giorno, sul finire del secolo, un signore sondriese era salito da Bormio al vallone di Morsaglia a caccia di galli; girava un dosso per un sentiero appena tracciato, quando, alla svolta di un costone, quasi urtò contro un orso che veniva tranquillamente per lo stesso viottolo. La bestia si voltò e tornò sui suoi passi; ma il cacciatore non potè vedere la manovra e apprezzare la delicatezza d'animo dell'orso, perché si voltò molto più in fretta e si voltò a precipizio giù per il monte, buttando il fucile per poter correre di più" (Citato in "Gli ultimi orsi della Valtellina e della Valchiavenna", di Paride Dioli, nella rivista "Provincia ieri e oggi").
Non c’è, però, da biasimare troppo la pavidità del nostro anti-eroe. Forse conosceva la storia dell’orso giustiziere della vicina Valfurva (una storia vera, mica una leggenda qualunque), l’orso che uccise per punire la colpa di un giovane forbasco. Dobbiamo retrocedere di diversi secoli e leggere la cronaca  del curato don Bernardino Manzotto, che ci racconta, appunto, di un orso che uccise un giovane di S. Antonio in Valfurva, reo di comportamento moralmente discutibile. Eccone il testo. “Correva l’anno del Signore 1578 nel giorno 2 febbraio, quando Nicolò figlio di G. D. de Alberti, della suddetta contrada di San Gottardo (famiglia del tutto estinta in tempo della pestilenza  dell’anno 1634) sedotto da cattivi compagni aveva incominciato a darsi interamente agli amoreggiamenti, e bazzicava d’intorno ad una giovane che l’allettava con vezzi e lusinghe; sul principio non fu corretto dai suoi genitori, che credevano fusse cosa da nulla e perché troppo da essi amato, ma la cosa andò tant’oltre, che divenne abituato che vi andava quasi ogni sera anche a dispetto e per spregio dei suoi genitori. Nella festa della Purificazione di Maria alla sera fu pregato dalla madre a trattenersi in casa per amore di Maria ma non fu mai possibile di piegare quel cuore già troppo indurato, e già adescato dalle seduzioni di quella giovine. Nel partir da casa la madre arrabbiata disse: “Giacché per amor di tua Madre e di Maria SS.ma non vuoi ubbidire, sii lacerato da lupi o da orsi e così imparerai a vivere da tuo capriccio.” Dio esaudì la voce addolorata della Madre che troppo tardi lo corresse e punì con pubblico castigo l’insolenza e temerità del figlio mal educato. Appena difatti dipartito dalla casa nel campo oggidì perciò detto dell’orso venne assalito da un orso il quale lo lacerò ed uccise e nella mattina seguente furono trovare alcune parti di quel corpo estinto, che l’orso disfamato aveva lasciate.”


La Val Tartano (clicca qui per ingrandire l'immagine)

Non sempre, però, gli orsi assassini erano anche giustizieri. Anzi, il più delle volte le vittime non dovevano espiare alcuna colpa. Particolarmente pericoloso era imbattersi in un'orsa con i piccoli: il suo istinto materno la rendeva particolarmente aggressiva e pericolosa. Ebbe modo di sperimentarlo tragicamente una povera donna delle Teggie, località della Val Lunga (Val Tartano), nel 1650: camminava, di buon'ora, sul sentierino che taglia il ripido versante di prati che dal fondovalle sale ai primi boschi, quando, ad una svolta, si trovò quasi faccia a faccia con un'orsa, che aveva con sé i piccoli. Non ebbe la presenza di spirito di gettarsi verso il basso, sfuggendo all'enorme bestia che non avrebbe lasciato soli i piccoli per inseguirla. Esitò, perse l'attimo: la bestia si fece avanti e le assestò una zampata in pieno volto, facendola ruzzolare diverse decine di metri più in basso, poi sparì nel bosco. La donna fu trovata agonizzante poco dopo, con il volto sfigurato: ricevette l'assoluzione dal prete, ma non potè comunicarsi, per le gravi ferite; quantomeno morì in grazia di Dio.
Non sappiamo se ebbe la medesima sorte l'uomo divorato da un orso nel 1738 nel bosco di Fora, in alta Valmalenco (quello oggi attraversato dalla carozzabile che da San Giuseppe sale a Chiareggio).


Val Lunga

Non c'è dunque da stupirsi della presenza di un modo di dire diffuso un po' in tutta la Valtellina: “mangiàt da l'urs”. Lo si dice di individui con deformità particolari nel viso, ma non è solo una metafora, perché il riferimento è ad episodi di aggressione e di gravi lesioni di cui la memoria popolare ha conservato a lungo il ricordo. Il più recente è probabilmente quello che ha avuto come scenario la Val Malgina orobica, che si apre alle spalle di Castello dell'Acqua, in media Valtellina.
Come racconta Luigi de Bernardi (citato in “Le valli orobiche telline” di Gianluigi Garbellini, nel volume “Alpi Orobie Valtellinesi montagne da conoscere”, ed. Fondazione Luigi Bombardieri, Sondrio, 2011), correva l'anno 1868 quando Piero Pietro di Castello dell'Acqua ebbe la sfortuna di imbattersi, in Val Malgina, con un'orsa che sorvegliava i suoi due piccoli, intenti a divorare la carcassa di una capretta. Situazione molto pericolosa, ed infatti lo sfortunato venne aggredito dall'orsa, senza riuscire a darsi alla fuga (e del resto l'orso è assai più veloce dell'uomo). Due cose lo salvarono: la prontezza di spirito e la scure che aveva con sé. La bestia gli fu addosso e lo ferì gravemente al viso. Lo avrebbe probabilmente ucciso, se l'uomo, con la forza della disperazione, non fosse riuscito ad infilarle una mano in bocca, afferrarle la lingua e bloccarla fra due file di denti, in modo che non potesse richiudere le fauci. Con l'altra mano le assestò alcuni decisi colpi di scure. L'orsa accusò i colpi e smorzò l'impeto aggressivo, quel tanto che gli permise di scappar via senza essere inseguito. Gli rimasero però, nonostante le cure del dottor Cesare Menatti di Chiuro, i segni deturpanti delle gravi ferite al volto, e gli rimase il soprannome di “Mangiàt de l'urs”. Rimase, infine, la memoria dell'evento, ravvivata ai giorni nostri dal “Malora”, che abitava in frazione Tizzone di Castello dell'Acqua.


La Val Malgina orobica

Ci portiamo ora all'imbocco della Val Caronella, poco distante dalla Val Malgina: ecco due storia di orsi a Carona.
Siamo agli inizi dell'Ottocento, quando questo microcosmo alpino trovava il suo equilibrio economico grazie alle attività d'alpeggio. Viveva allora un tal Branchi, che aveva alcune mucche, affidate d'estate ai caricatori dell'alpe Caronella. Un'estate le bestie tardarono a scendere, perché il tempo giocava bene e c'era ancora alpeggio disponibile per il pascolo. La stalla del Branchi, dunque, era ancora vuota, mentre il fienile soprastante era stato già riempito del fieno essenziale per sostentare le mucche d'inverno. Il Branchi lo sapeva, mentre non lo sapeva un orso solitario che una bella mattina di inizio settembre si presentò in paese, deciso a trovare qualche bestia da predare. Un orso non troppo grande che però non sembrava affatto intimorito dalla presenza umana. Volle il caso che la stalla del Branchi avesse la porta aperta, e l'orso ci si infilò, pronto al lauto pranzo.
Ma le cose andarono per altro verso: l'orso non solo dovette scoprire con disappunto che non c'era niente di cui cibarsi, ma, avendo urtato la porta, si ritrovò anche chiuso dentro, perché questa si chiuse alle sue spalle facendo scattare la serratura. L'animale assestò alcune poderose zampate alla porta, ma ciò non valse a nulla. Lo stesso quando se la prese con le pareti della stalla. Acciecato dal furore, comincò allora a sbattere la testa contro un tronco che, disposto verticalmente nel mezzo della stalle, sorreggeva il ripiano del fienile. Il tronco cedette e, con lui, il soffitto della stalla, nella quale si riversarono 50 quintali di fieno, che schiacciarono l'orso. Fu questa la sua fine in quella bella mattina di settembre. Poco dopo tornò il Branchi, che vide il disastro e, sulle prime, non capì cosa fosse successo. Solo dopo aver trovato l'orso morto sotto il fieno comprese come dovevano essere andate le cose.


Carona

Nel giugno del 1845 toccò ad un tal Giacomo di Carona di aver a che fare con orsi. Percorrendo un sentiero in una selva vicino al paese, scorse un orsacchiotto che si arrampicava su un castagno. Gli piacque l'idea di allevarlo in cattività, anche per la sensazione che una cosa del genere avrebbe senza dubbio suscitato in paese. Così fu lesto ad afferrarlo ed a portarselo in paese. Il tempo di chiuderlo nella stalla, dove aveva invitato alcuni conoscenti per mostrare il trofeo, che dalla selva sbucò, correndo furiosamente, mamma orsa, decisa a riprendersi il piccolo. Giacomo sprangò e puntellò la porta della stalla, ma l'orsa vi si avventò con poderosi colpi di spalla, emettendo spaventevoli ruglii. La porta resistette, per cui l'orsa cominciò a percorrere il periplo della stalla, per trovare il varco più agevole. E di nuovo si diede a picchiare contro le sue pareti, con tale veemenza che gli uomini rinchiusi temettero per la loro incolumità e decisero di aprire la porta e di lasciare libero l'orsacchiotto. All'improvviso, però, l'orsa si allontanò. Spiando da un pertugio della stalla, Giacomo vide che dal limite della selva un altro orsacchiotto chiamava la madre, che aveva risposto al richiamo. Fu così che Giacomo potè tenersi l'orsacchiotto catturato. Le cronache non raccontano se l'orsa sia mai tornata.

La presenza dell'orso fra in Valtellina e Valchiavenna è, dunque, ben attestata nei secoli passati. Giuseppe Romegialli, ne "Storia della Valtellina e delle già contee di Bormio e Chiavenna" (Sondrio, 1834), scrive: "Fra i quadrupedi selvatici, contasi quantità di lepri, volpi, tassi, camozzi e sgraziatamente molti orsi e lupi, infesti bene spesso agli uomini non meno che agli animali domestici. I primi esercitano la loro voracità sui monti, in tempo de l'alpeggio de' bestiami... Fra i quadrupedi più rari, conta la provincia l'orso piccolo biondo conosciuto dagli abitanti sotto il nome d'orso formigarolo, Ursus minor, (der Bar). Trovasi negli alti monti, ed è molto feroce più del grande ordinario. Questo quadrupede è poco conosciuto nella storia naturale".
Poi, nella seconda metà del secolo, la svolta: venne introdotta una ricompensa per ogni orso ucciso, il che aprì una vera e propria caccia al plantigrado, braccato e scovato nei suoi reconditi rifugi dai cacciatori di taglie. Cacciato metodicamente e spietatamente fra ottocento e primi del novecento, fino all’estinzione (difficile dire quando scomparve l’ultimo esemplare su questa montagne: le ultime segnalazioni riportate dalle cronache risalgono al quinquennio 1900-1905, anche se probabilmente l'estinzione effettiva avvenne agli inizi degli anni venti del novecento, diversi anni dopo l’ultimo abbattimento segnalato), oggi viene rimpianto, e da più parti (ma non da tutte le parti) se ne auspica la reintroduzione, sperando che qualche esemplare torni a stabilirsi qui dalla Svizzera o dalla più lontana Slovenia. Come andranno le cose, non sapremmo dire. Come siano andate, lo sappiamo dalle cronache.
Gli orsi era temuti, in passato, perché non disdegnavano di inserire nella loro dieta capre e pecore, e potevano, in qualche caso (piuttosto raro, per la verità), diventare pericolosi per l’uomo stesso, soprattutto quando ci si imbatteva in una femmina con i cuccioli. E si venne alla resa dei conti, appunto, fra la seconda metà dell’ottocento ed i primi del novecento, quando per ogni orso abbattuto il cacciatore poteva ritirare un premio.
Dell’orso, oggi, rimane solo il ricordo, legato a qualche toponimo (come la Foppa dell’Orso, sopra Colorina, il "crap de l'urs", roccia presso il maggengo di Mantegù, sopra Albosaggia, i Bagni dell’Orso, maggengo sul versante orobico sopra Regoledo), ad usanze ancora vive (come quella che vuole che i bambini vadano, gli ultimi giorni di gennaio, a bussare alla porta della gente, esclamando, rivolti a chi si affaccia all'uscio: "L'è fö l'urs de la tana!", cioè "è uscito l'orso dalla tana!") e a molteplici modi di dire ("sei un orso" significa "sei burbero e solitario"; avere il male dell'orso significa essere affetti da un prurito insistente).


Pecceta a monte dei Campelli

Ma quel che interessa, qui, sono le molteplici storie, spesso impalpabilmente sospese fra realtà e leggenda, che vedono gli orsi come protagonisti. Ne proponiamo alcune, fra le tante.
Cominciamo con quelle raccontate da Bruno Galli Valerio (cfr. "Punte e passi", a cura di A. Boscacci e L. Angelici, Sondrio, 1998), alpinista e naturalista che molto amò e frequentò queste montagne fra l’ultimo decennio dell’ottocento ed il primo del novecento. Questi, che chiama affettuosamente gli orsi di cui racconta le vicende, propone innanzitutto la storia dell’orso dei Campelli, maggengo sopra Albosaggia (territorio assai frequentato dagli orsi, tanto che l’albergo Saffratti di San Salvatore proponeva ancora, ai primi del Novecento, fra i piatti più ricercati, il prosciutto d’orso):
Ed io, io continuai e li condussi sull'alpe dei Campelli, verso un'altro grande rifugio di orsi. Una sera, il Domenico aveva udito una delle sue capre gridare disperatamente. Si sentì trafiggere il cuore e non poté più rimanere nella baita. Prese una scure e andò a vedere. Un orso aveva buttato per terra una capra e la stava divorando. Il Domenico afferrò una gamba della capra e tentò di strapparla all'orso. L'orso teneva ben saldo e l'altro continuava a tirare. Al fine Martino trovò la farsa un po' troppo lunga: con un colpo di zampa, fece rotolare per terra il Domenico, la schiena squarciata, e se ne andò colla sua capra. Il Domenico porta ancora il segno della carezza dell'orso, ma da buon filosofo, dice: - Se avesse voluto, avrebbe potuto mangiarmi come ha mangiato la mia capra -. E poiché Martino non lo fece, il Domenico ha conservato un ottimo ricordo degli orsi.”  
Ed ancora, ecco, sempre sul versante orobico, ma più ad est, la storia dell’ultimo orso di Scais: “E là allora, gli altri raccontarono dell'enorme orso che vagava nel bosco del Mottolone terrorizzando l'alpe di Scais e di Caronno, dove di quando in quando appariva per impossessarsi di una capra. Ecco là, sì, era un orso! Un giorno l'avevano visto entrare sotto un enorme blocco che formava come una specie di caverna. Si apprestarono a cercare su tutti gli alpeggi dei fucili, e li sistemarono intorno all'ingresso della caverna con un sistema di funicelle e di leve che dovevano uccidere l'animale con una scarica formidabile. Ma Martino, coi sui piccoli occhi, li guardava fare dal fondo del suo nascondiglio e sorrideva. E tutti all'alpe di Caronno, là nella notte, tendevano le orecchie. Si aspettavano ad ogni istante la scarica dei fucili. Ma all'improvviso si udirono i gridi spaventosi di una capra che veniva sgozzata.
- Corso! tutti esclamarono rannicchiandosi nella piccola baita.



Testata della Val Caronno

- Giunta l'alba, andarono a vedere. Era scomparsa una capra. Salirono alla grotta: tutti i fucili erano ancora al loro posto e i colpi non erano partiti. Girando intorno al masso si accorsero che sotto i cespugli, quell'orso aveva un buco che comunicava con la grotta: Martino se ne era uscito tranquillo da lì lasciandovi solo qualche pelo e aveva ricominciato le sue scorribande. E un giorno, infine, G. Bonomi andò a cercarlo nel bosco del Mottolone. I due giocarono per qualche momento a nascondino. Poi si incontrarono faccia a faccia e il Bonomi con un sol colpo di fucile lo uccise. Quello fu l'ultimo orso di Scais.”
Con un repentino balzo agli estremi lembi occidentali della catena orobica, ecco cosa ci racconta degli orsi del monte Legnone:
Ma laggiù, là sul versante del Legnone, gli orsi erano feroci o mattacchioni. Tutti ne hanno sentito parlare! Per molto tempo, Legnone e orsi sono stati una sola cosa. Mi pare ancora di vedere l'enorme bestia dalla pelliccia quasi nera, che si era lanciata contro due cacciatori ferendo gravemente l'uno, prima di cadere sotto le palle di fucile dell'altro. Un altro orso vagava un giorno tranquillo lungo un sentiero della Val della Lesina, quando incontrò un toro. Il sentiero era talmente stretto che i due animali si fermarono e si guardarono ben bene negli occhi. Poi l'orso si leccò i baffi: Da molto tempo, non gli era capitato sotto gli artigli un così buon boccone! Si drizzò grugnendo sulle zampe posteriori e si gettò sul toro, ma quest'ultimo, più agile, abbassò la testa e con un abile colpo di corna, inchiodò l'avversario contro la roccia aprendogli il ventre. E il povero Martino lasciò cadere la sua grossa testa sul petto gli occhi chiusi, ma restò dritto, perché il toro, per la paura che fosse ancora vivo, lo teneva inchiodato con le corna. Qualcuno dice che il toro è rimasto nella stessa posizione fino a morir di fame, ma altri assicurano che i pastori lo liberarono tre o quattro giorni dopo guadagnandoci la pelle dell'orso.


Tramonto sul monte Legnone

Ma il Legnone ha avuto l'orso più famoso: l'orso chirurgo. Un gozzuto che passeggiava nella Val della Lesina, vide due orsacchiotti che giocherellavano nel bosco. L'occasione era eccellente per impossessarsene. Si avvicinò, tranquillo tranquillo, ma l'orsa, che era nascosta, si lanciò su di lui, lo gettò a terra e con un colpo di artigli, gli aprì la gola. Ne uscì un secchio d'acqua e il povero diavolo si sentì tutto risollevato, perché respirava meglio. Quando scese al piano, tutti furono strabiliati: - Dove hai lasciato il gozzo? -. E tutti seppero allora che nella Val della Lesina c'era un celebre chirurgo, specialista nell'operazione al gozzo. Non so se altri si sono decisi a farsi operare dall'orso.
La leggenda dell'orso chirurgo divertì molto tutta la compagnia che mi chiedeva altre storie di orsi, ma esse erano terminate con gli orsi che le avevano generate.” (Bruno Galli Valerio, “Punte e passi”, a cura di Luisa Angelici ed Antonio Boscacci, Sondrio, 1998).
Massimo esperto di storie legate al monte Legnone è, però, Ercole Bassi, il quale così scrive, in un articolo su “Le Vie del Bene” negli anni venti del secolo scorso: "L'orso era pericoloso agli armenti che pascolavano all'aperto sugli alpeggi, li avvicinava cauto di notte, assaliva una capra, un vitello da tergo, e con la preda cercava allontanarsi e percorrere lunghe miglia, spesso passando da un versante all'altro di una valle, di un monte. Gli armenti, terrorizzati, fuggivano all'impazzata, accorrevano i pastori, inseguivano l'orso con la preda, e a bastonate l'obbligavano spesso ad abbandonarla. Era più terribile nella primavera, quando si svegliava nel suo sonno letargico, era affamato e non trovava di cibarsi di erbe, allora si abbassava sino ai prati maggenghi. Saliva sui tetti delle stalle ove sentiva si trovavano pecore e capre, rimuoveva con le zampe le lastre di pietra che li ricoprivano e saltava dentro a satollarsi. In generale non era ritenuto feroce, e ben di rado assaliva l'uomo, se lo scorgeva si allontanava per altre direzioni. Ci fu chi si dilettava a raccontare d'averlo incontrato sopra uno stretto e ripido sentiero, di essere stato afferrato, e posto dietro a sé dall'orso che continuò la sua via."


Bassa Valtellina e monte Legnone

Alla storia della sfida dell’orso e del toro in Val Lésina, raccontata dal Galli Valerio ha un corrispettivo quasi identico in una storia che aveva come scenario gli alpeggi della Valle del Livrio. Ecco come ci viene proposta, in termini dialettali e poetici, da Pietro Pizzini, nel numero del settembre 2007 del periodico “I regiùr de Valtellina”, l'epica sfida fra un toro ed un orso: “En tòr l’ha sfidàt a duèl l’ùrs de la Piàza / perché l’infastidìva l’bes’ ciàm de su ràza; / su ‘ndi màlghi de la Piàna, apròf al Publìn / el scurentava vachi, manzèti e bucìn. / E inscì, ‘na nòc che el ghèra la luna tùnda / ‘nde la malga di muràchi a furma rudùnda /  stì dùù besciùn, cunt i (t)zàti a tèra, / i sé scuntràt per fala-fò a la guèra. / Quant che ‘l tòr l’à inviat la ssù vendèta, / su n’ti (t)zàti l’urs el s’è drizzàt per schivà la saèta. / Però minga in prèsa, per mulà ‘na (t)zatàda / e inscì el s’è becàt ‘na tremenda curnàda…/ E a tèra, su ‘nti quatro (t)zati, stìnch l’è crudàt: / cunt el tòr che “urca vaca” l’ha remugàt: / “stu diavulàsc, el me par de capì / l’è ‘n bès’ ciùn de quìì dùr a murì!” / Alùra el tòr per finì-fò la vendèta / l’à ciapàt la rincorsa e ripartìt a saèta. / Ma ‘sta vòlta l’urs su ‘nti quatru (t)zàti / el s’è mìnga rizzàt / e ‘l tòr cùntra na muraca el s’è spetasciàt. / Stà storia el me l’à cuntàda el me af casèr, / ‘ndi geldi sìri de ‘n mès de ginèr. / Lùù e l’èva scultàda da ‘n vèc’ bacùc / che ‘l ghèva la baita su in cò al Muncùch. / Adès, quaidùn cùnt i strasc de fustàgn / en paragùn el farà cunt i rugni de ‘sti agn / per scuprì che nigùt de nòf el gh’è su sta tèra: / la gent la sèguita a rugnà e a fas la guèra. / E inscì fra vingidùu e sucumbènt, / el s’è slungàt la fila di malcuntènt, / propri cume el rugnà fra el tòr e l’urs / che sta storia di nòs vèc’ l’à fac’ cugnùs”.
Non si può tradurre la poesie senza farne scempio: basti una rapida parafrasi. Un toro, stanco di vedere insidiate le bestie della sua razza, sfidò l’orso della Piazza a duello. La sfida ebbe come scenario i prati con muretti di forma rotonda all’alpe Piana, di fronte al Publino, in una notte di luna piena. Il toro, che da tempo meditava vendetta, caricò l’orso, il quale si drizzò sulle zampe posteriori per assestare una zampata. Non fu, però, abbastanza rapido, e si prese una tremenda cornata, che lo fece stramazzare a terra. Il toro, allora, caricò una seconda volta, per finirlo; stavolta, però, l’orso non si rizzò sulle zampe, ma lo schivò, facendolo rovinare contro un mucchio di sassi. La sfida ebbe dunque termine, con entrambi i  contendenti ridotti a malpartito. Questa storia venne raccontata dal nonno casaro del Pizzini, che, a sua volta, l’aveva ascoltata da un vecchio che aveva una baita al Moncucco. Qualcuno potrebbe paragonare questa contesa alle beghe del giorno d’oggi, perché la gente continua a litigare ed a farsi la guerra. L’esito è sempre quello: fra vincitori e vinti, si allunga la fila di quelli che ne escono a malpartito, proprio come è accaduto al toro ed all’orso.


Laghi di Publino

Toro e orso sono i protagonisti anche di una storia che ci porta assai indietro nel tempo, e precisamente al secolo XIV. Simbolo della potenza vitale e generatrice che animava il livignasco era, allora, un toro, chiamato Nino. Sul versante retico opposto stava Davos, che aveva, invece, come simbolo vitale un orso di nome Moro. Divideva le due comunità un’antica rivalità, che sfociò in un furto dal sapore di un vero e proprio sfregio: alcuni Livignaschi rubarono l’orso di Davos, mentre alcuni Tavatini rubarono il toro di Livigno. Consumato il doppio furto, le cose volsero al peggio per entrambi: a Livigno i campi parvero isterilirsi, le mucche sembravano non avere più latte, tutto languiva, come in un’agonia; lo stesso accadeva nel territorio di Davos. Livignaschi e Tavatini compresero, allora, la profonda stoltezza dell’offesa che si erano arrecati vicendevolmente, e restituirono orso e toro rubati. La riconciliazione fu sancita solennemente dalla pace firmata il 18 maggio 1365.
La morale è la medesima, ed è universale, come lo è l’immagine dello scontro fra toro ed orso, entrambi simbolo, per quanto diversi, di potenza e fierezza (scontro che si ritrova anche nei giochi di borsa, con riferimento all’atto del toro che scaglia in alto, con le corna, l’avversario – rialzisti – ed all’atto dell’orso, che scaglia il nemico a terra – ribassisti). Ma, al di là dei simboli e delle metafore, il più temibile nemico per l’orso è sempre stato l’uomo. Fra le più epiche storie di scontri fra orsi e uomini si pone sicuramente quella dell'Urs de la Madòna, raccontata da Renzo Passerini e riportata nel numero dell’ottobre 1994 de “’L Gazetin”.
L’orso in questione era un orso davvero tremendo, che spadroneggiava nei boschi del versante orobico sopra Morbegno, e precisamente sopra il santuario dell’Assunta, su, fino al monte Pitalone (pitalùn), la prima elevazione significativa sul lungo crinale che separa la Valle del Bitto di Albaredo dalla bassa Valtellina. Per questo veniva chiamato "l'Urs de la Madòna". Faceva razzia di capre, uccideva anche vitelli, rubava, ovviamente, il miele, danneggiava gli orti, qualche volta assumeva atteggiamenti aggressivi perfino nei confronti dei contadini: compariva, improvviso, sul limite dei prati e dei maggenghi, rizzandosi sulle zampe posteriori, brandendo minaccioso quelle anteriori, corredate di certi artigli da far paura, ed emettendo, infine, versi a dir poco terrificanti. Se ne andava, poi, avresti detto soddisfatto di aver mostrato che il padrone di quei luoghi era lui. Non temendo gli uomini, si faceva vedere senza problemi anche al piano. In particolare, durante l’autunno scendeva a pescar trote all’Isoletto, presso il cimitero di San Martino, dove, un tempo, passava un ramo dell’Adda. Immergeva le zampacce nell’acqua del fiume, se ne stava immobile per un po’, quindi, fulmineo, artigliava qualcuna delle trote che, risalendo il fiume, gli passavano vicino. Poi veniva l’inverno, con i suoi rigori e la sua neve (sì, perché un tempo di neve ce n’era di più). Era il momento del letargo, ed i contadini tiravano il fiato.


Arzo

Consigliandosi sul da farsi, alcuni decisero, uno di quegli inverni, di approfittare di questo momento di debolezza per dargli la caccia e farla finita con la sua ribalderia. Sicuramente una tana doveva pur avercela, anche se nessuno l’aveva mai scoperta. Rinchiuderlo per sempre nella sua tana e trasformare questa in una tomba, ecco il piano. Ma per farlo bisognava scoprire dove fosse. Furono così organizzate delle vere e proprie battute di caccia fuori stagione. Non fu difficile trovare le sue orme nella neve, e seguirle fin dove sembravano scomparire, in località Campugìn. La tana doveva essere da qualche parte in quella zona, ed alla fine fu scovata. Con molta cautela i contadini ne ostruirono l’ingresso con grandi massi. Alla fine se ne andarono via soddisfatti, a bere un calice di quello buono per festeggiare la definitiva sconfitta dell’orso: dalla tana la bestiaccia non sarebbe più uscita. Così pensavano, almeno.
Passò così il Natale, passò il rigidissimo gennaio, vennero, infine, i primi di febbraio. In Valtellina si suol dire in quei giorni, motteggiando chi viene indotto, con un inganno, ad affacciarsi all’uscio: “L’è fö l’urs de la tana”, cioè è uscito l’orso dalla tana. E, proprio mentre gli allegri monelli, in tutta la valle, si ingegnavano a trovare i più plausibili pretesti per esporre i nasi della gente, sulla soglia di casa, alla morsa del gelo, nel cuore della sua tana il corpaccione dell’orso cominciò a scuotersi, a stirarsi, a riprendere vita. Gli ci volle un po’ prima di riacquistare la piena coscienza della veglia, ed un tempo ancora maggiore prima che si decidesse a tirarsi su, sulle zampe. Il pensiero di una lunga stagione di cacce e scorribande nel suo regno, alla fine, vinse l’ultimo indugio della pigrizia, e lo indusse ad affacciarsi anche lui al suo uscio.
All’inizio non fece caso al buio innaturale che avvolgeva l’intera caverna, ma, quando allungò la zampa per uscire, capì: l’ingresso era stato sbarrato da grandi massi. Cominciò a colpirli, dando sfogo alla sua ira improvvisa ed incontenibile, ed insieme lanciava urla terribili. Poi, passato il primo furore, si diede a spingere, facendo forza sulle zampe, con la poderosa schiena, e spinse, e spinse, finché i massi cominciarono a smuoversi. Raddoppiò, allora, lo sforzo, e con un’ultima spallata fece crollare il muro eretto per imprigionarlo nella sua stessa tana. Era libero! Libero e furente. L’avrebbe fatta pagare cara a quei miseri omuncoli che avevano vigliaccamente approfittato del suo lungo sonno per fargli fare, come si dice, la fine del sorcio.


Morbegno

Quell’anno imperversò, nel suo regno, con particolare furia. Se prima i contadini lo temevano, ora ne erano terrorizzati. Mentre prima si aveva quasi l’impressione che, alla fin fine, ci si divertisse a spaventare la gente con quelle sue apparizioni improvvise e minacciose, ora sembrava incattivito, sembrava volesse davvero far male anche agli umani, e qualche volta veniva addirittura all’uscio delle baite, picchiava forte contro le robuste porte di legno, e forse si tratteneva dallo sfondarle solo perché, a sua volta, temeva di essere preso a fucilate. Non risparmiava, invece, le bestie, e numerosi furono i vitelli dilaniati quell’anno. Per la prima volta uccideva non solo per procurarsi il cibo, ma per il gusto di farlo. Passò, così, anche quella stagione, ed ancora una volta venne l’autunno, e dopo l’autunno l’inverno, con gran sollievo di tutti.
L’orso, sazio di carne e cattiveria, si ritirò nella sua tana, convinto che nessuno avrebbe più osato ripetere lo scherzo dell’anno prima. Ma si ingannava. Ai primi di dicembre i contadini tennero consiglio: un altro anno così non lo si poteva passare. Avevano sbagliato una volta, sottovalutando le forze dell’orso, non avrebbero ripetuto lo sbaglio la seconda volta. Tornarono all’uscio della tana, lo ostruirono di nuovo con grandi massi, ma stavolta li puntellarono con grandi pali saldamente infissi nel terreno. Nessun essere vivente avrebbe mai potuto sfondare quella muraglia.
Così, una bella mattina di inizio febbraio, quando il sole, ancora timido ed incerto, cercava di regalare i primi tepori ad un mondo ancora intirizzito, l’orso si svegliò e, sicuro e baldanzoso, si avviò all’uscio della sua tana. Lo trovò di nuovo chiuso, di nuovo si adirò per l’ardire degli omuncoli, di nuovo chiamò a raccolta tutte le sue forze, sicuro di poter facilmente aver ragione dei massi, come l’anno precedente. Stavolta, però, i massi non si mossero. Spinse ancora ed ancora, con più forza, con tutta la forza che aveva. Nulla.
Allora, per la prima volta nella sua lunga vita di cacciatore e signore dei boschi sotto il Pitalone, si sentì perso. Cacciò fuori dei versi, alti e strani, che qualche animo poetico avrebbe potuto anche interpretare come un pianto. Fu sentito da grande distanza, fino al piano ed ai maggenghi di Grup, Ortesida e Cuulevolt. E continuò così, a lungo. I suoi versi, per la verità sempre più deboli, furono uditi per giorni. Poi, più nulla. Ma nessuno ebbe l’ardire di andare a vedere se fosse veramente morto, quell’anno, nessuno si fidava di quella bestiaccia. Solo la primavera successiva su smantellato il muro davanti alla tana dell’orso. Di quello che ormai era conosciuto da tutti come “l’urs de la Madòna” vennero trovati solo i miseri resti, che nessuno, peraltro, osò rimuovere.


Val Painale

Passarono gli anni, e quella che era stata la tana de l’urs divenne, nel racconto dei nonni, la tana delle streghe, del diavolo, dell’orco, e di quanti spauracchi si possono tirare in ballo per far paura ai bambini.
Non sempre, però, l’uccisione dell’orso assume tinte così epiche. Qualche volta è un evento semplicemente patetico. Lasciamo, di nuovo, la parola al Galli Valerio, che così racconta l’uccisione dell’ultimo orso della Val di Togno: “Da dove era venuto quell’orsacchiotto? Nessuno lo saprà mai. A memoria d’uomo, non si erano mai visti orsi nella Val di Togno e quello apparve tutto d’un tratto, miserabile vagabondo, in mezzo alle gande. Il brav’uomo l’aveva visto ed era corso a cercare un forcone. L’orsacchiotto, terrorizzato, si era nascosto sotto ad un sasso. L’orso grugniva a tal punto, diceva il povero diavolo, che il sasso tremava! Aspetta aspetta, l’orso si decise ad uscire ed allora il nostro uomo con una grossa pietra lo uccise. La povera bestia era talmente grossa che quando il nostro cacciatore la portò alla prefettura per ritirare il premio, non volevano darglielo perché dicevano che era Ursus formicarius. La grave questione ebbe fine quando un macellaio lo giudicò essere un vero orso, ma un orso giovane". (op. cit.). In realtà pare che l’ultimo orso sia stato ucciso nella località denominata Buco dell’Orso (böc de l’urs), nei pressi di Ca’ Baldìn (dove c’è il rifugio Val di Togno): qui, nel 1880, il plantigrado venne finito a colpi di triénza (tridente) da alcuni contadini. Fine ingloriosa e lacrimevole.
Un'ultima storia propone una teoria inedita e non priva d'interesse che spiegherebbe il vero motivo della scomparsa degli orsi in provincia di Sondrio. La trascriviamo dalla bella raccolta “C'era un volta, Vecchie storie e leggende di Valtellina e Valchiavenna” (ed. a cura del Comune di Prata Camportaccio, Sondrio, Bonazzi Grafica, dicembre 1994, con contributi di diverse scuole elementari e medie della Provincia di Sondrio), così come proposta dalla scuola elementare di Madesimo:
"Molto tempo fa, sulle montagne sovrastanti Verceia, viveva un orso che divorava le greggi. Quest'orso, però, aveva ultimamente dei problemi di stomaco, infatti appena mangiava una preda, esso cominciava a fargli male. Un giorno andò dal dottore che, finita la visita, gli disse: - Lo stomaco fa male perché mangiate la carne cruda. Provate ad arrostirla. -
L'orso se ne tornò a casa sua con una gran fame, così prese una pecora e l'ammazzò. Poi si chiese: - Adesso come faccio ad arrostirla? -E uscì a pensare quando vide, al di là del lago, un gran falò. - Ecco cosa mi ci vuole! ‑ Detto fatto prese la pecora, la portò fuori e la voltò verso il lontano fuoco. Trascorsero le ore fino a quando l'orso si stufò e divorò la preda, ma subito il suo stomaco prese a fargli male.
Tornò dal dottore che gli disse: - Oh bestia! Cosa pretendi? Il fuoco era troppo lontano e la carne che hai mangiato era cruda! ‑
Fu così che, non sapendo accendere il fuoco, l'orso morì di fame."

Oggi l'orso è tornato uffucialmente a percorrere le nostre valli. Per benevolenza umana o forse per decreto della divina giustizia. Sì, perché, secondo una radicata convinzione del Bormiese, gli orsi che vagano nei boschi, con aria inquieta, apparentemente senza meta, sono in realtà anime di confinati che abitano sembianze d'orso, e che sono condannati a vagare, senza fine, con eterno tormento, in quei medesimi luoghi nei quali trascorsero la loro malvagia esistenza.

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