Il tempo, nel suo scorrere, cancella non solo le realtà che vi dimorano, ma anche qualcosa di sé. Qualcosa di importante. Nella storia, infatti, osserviamo il tramonto dell’antica concezione sacrale del tempo, un tramonto non ancora compiuto, forse non irrevocabile, ma certo un tramonto. Nei secoli del Medio Evo, ma anche nell’età moderna, assai vivo era il sentimento della signoria divina sul tempo. Tempus est donum Dei, unde non venitur, il tempo è dono di Dio, quindi non può essere venduto, si ammoniva nel Medio Evo. Di qui la proibizione del prestito ad interesse, attività indegna di un Cristiano. Di più: il tempo è di Dio. Di qui la consuetudine di intitolare a Dio ciascun anno: in anno Domini, nell’anno del Signore… Nel tempo di Dio e dono di Dio l’uomo trova lo spazio per la propria dedizione al mondano, ma deve rispettare lo spazio sacro che il Signore riserva interamente a sé, la dies domenica, il giorno del Signore, la domenica, appunto. Giorno nel quale lavorare è affronto alla signoria divina sul tempo. Affronto, quindi, grave. Più di una leggenda mette a tema questa gravità, e funge da monito per coloro che, troppo immersi negli interessi mondani, lavorano nel giorno del Signore.
Ne troviamo una prima, legata alla genesi del toponimo  di “uàl de la fémma” nel bel volume di Dante Sosio e Cecilia Paganoni “Albosaggia – Appunti di storia e di arte – Vita Contadina – Tradizioni e leggende”, (1987).
“Si racconta che una volta ad Albosaggia viveva una donna che tutte le sere, meno la domenica si recava su nel maggengo di «Ca' di Moi» in una casa di sua proprietà a filare la lana. Un sabato sera aveva portato con sé anche il suo bambino appena nato dentro la culla. Poiché la domenica, secondo l'usanza del paese non si poteva filare, lei rimase alzata fin dopo la mezzanotte per finire il lavoro. La Magada, che aveva il suo rifugio in una caverna lì vicino vide la luce filtrare dalla finestra, capì che la donna stava ancora lavorando nonostante fosse già domenica. Pronunciò allora la sua terribile maledizione: Fila filòta, fila filòta, fila filòta fila gió chè la pòca stòpa.. La donna senti la maledizione ma presa dal suo lavoro pensò che si trattasse di uno scherzo e replicò: Aah, ho ca püra, sii otre de Ca' di Romeri! (Aah, non ho paura, siete voi di Casa Romeri). Dopo un momento però incominciò ad avere paura perché nessuno bussava alla porta, il tempo passava ma nessuno bussava, c'era un silenzio pauroso.

Fattasi coraggio prese la culla e s'incamminò verso casa. Proprio nell'istante che la donna doveva attraversare la valletta la Magada che l'aveva seguita passo passo aspettando il momento opportuno per mettere in atto la sua maledizione si scagliò contro e la scaraventò nel uaigèll per punirla di aver lavorato didomenica. Da quel giorno quel uaigèll è chiamato La uàl de la fémma!”

Una seconda leggenda, tratta dal medesimo volume, e raccontata da Giulia Paganoni, anni 91, a Michela Toccalli, rappresenta una variazione sul medesimo tema. Eccola.
"Nella contrada Barbagli viveva una donna che passava le giornate filando la lana fino a tarda sera, per tutte le famiglie del Torchione. Una sera mentre stava ancora filando al lume di candela, una vecchietta bussò alla porta e le offri il suo aiuto per filare la lana. La buona donna accettò con piacere, non si era accorta purtroppo che si trattava della terribile Magada. Questa pronunciò sotto voce, per non farsi sentire alcune parole magiche, poi fece alcuni gesti rapidi e in quattro e quattrotto la lana finì. Allora la buona donna tutta contenta andò in camera da letto a prenderne dell'altra. Il marito che era già coricato vedendola ancora alzata le chiese cosa stesse facendo. La buona donna rispose che prendeva altra lana perché una buona vecchina era venuta ad aiutarla. Il marito capì subito che la buona vecchina altro non era che la Pelarola, la Magada che si nutriva di pelle umana.
Per chi fosse interessato ricordiamo che in Albosaggia c'erano altre due Magade, una si nutriva di ossa e l'altra di carne umana. Tornando alla nostra storia, l'uomo impaurito, nascose sua moglie sotto il letto chiuse a chiave la porta sprangò la finestra e attesero che la Pelarola stanca di aspettare se ne andasse. Dopo una lunga attesa la sentirono allontanarsi urlando: Pée pée, quant ca ho penàat e chel pòrco al t'ha ensegnaat (quanto ho penato per avere la tua pelle e quel porco ti ha liberato)
."
Questa storia, a lieto fine, richiama quella di Margherita, riportata da Giuseppe Fornonzini nella raccolta di leggende “Domina il Bernina – Conti in Rezia” (Sondrio. Mevio Washington, 1930).
Costei conduceva a Serenvilla, in Valmalenco, una vita modesta e laboriosa: passava ore ed ore a cucire, per mantenersi dignitosamente, ed anche per l’orgoglio di tener viva la buona reputazione che aveva di buona ed abile lavoratrice. Mentre la mano operava. Sicura ed alacre, la mente andava a tanti ricordi, cose case e cose tristi, anche queste, in fondo care. E così volava il pensiero e volavano le ore. Dal lunedì al sabato, giornate e serate trascorrevano tutte eguali; solo qualche diversivo, di tanto intanto, qualche visita, qualche chiacchierata. E così le settimane si sgranavano, tutte eguali, in una vita dove l’orizzonte protettivo della consuetudine avvolgeva ogni emozione ed ogni attenzione. Finché un sabato qualcosa spezzò il filo di questa consuetudine. Qualcosa che nessuno saprà mai dire. La serata del sabato sprofondava, come sempre, lenta ed eguale nel cuore della notte. Si annunciava l’inverno, nelle prime gelate, nelle foglie avvizzite, nelle ultime vampe fiammeggianti di colore, nella bruma densa delle pigre mattine del novembre inoltrato. Sul far della sera il focolare ardeva già, diffondendo un tepore gradevole. Forse fu quel primo tepore di fuoco a trarla in inganno: fatto sta che un sabato si attardò a cucire oltre il limite sacro della mezzanotte.

La domenica la sorprese ancora curva sul suo lavoro, sola, nel silenzio della stanza. Poi, e fu un attimo, non era più sola. Le fiamme inquiete, che parevano ormai languire nella generosa brace, disegnavano, sul fondo della piccola cucina, un’enorme ombra mobile. Alzò, allora, gli occhi, Margherita, con stupore, spavento. Un distinto signore sedeva presso il focolare. Teneva aperto sulle ginocchia un grande libro nero, orlato di rosso, sul quale scriveva, con gesto lento e quasi solenne. A Margherita parve, chissà come, che scrivesse un nome. Poi l’occhio cadde ai suoi piedi, perché non osava guardarlo in faccia: piedi forcuti, che nessuna calzatura nascondeva. E tutto parve fermarsi, in lei: il pensiero, il sangue stesso nelle vene. Solo il tempo non si fermava, ma procedeva inesorabile disegnando la trama di quel nuovo giorno del Signore. Un giorno che l’aveva sorpresa a fare ciò che non si deve fare, lo sapeva bene, glie l’avevano insegnato fin da piccola. Ecco, quando si riebbe dallo sgomento, le parve di sentire la voce della madre, morta da molti anni, quando, da bambina, le ricordava cosa sia il precetto della Domenica, e come onorarlo. Poi si scosse, cacciò un urlo, lasciò cadere a terra il lavoro e corse nella camera da letta, chiudendosi dentro. Il resto della notte lo passò con il cuore in gola: aveva capito tutto, sapeva bene chi fosse quel signore, il terrore di essere portata via la faceva tremare da capo a piedi. Cercava conforto nell’immagine della madre, la invocava, invocava i Santi, la Madonna, Gesù, perché avessero pietà di lei. Se aveva peccato, lo aveva fatto non per cattiva volontà, ma per disattenzione.
E, quando Dio volle, il cammino del tempo giunse al termine della notte e si fece, timidamente, giorno. Timidamente Margherita mise il naso fuori dalla porta, stette in ascolto, annusò, perfino, quasi a voler percepire una qualche traccia di quel nauseante puzzo di zolfo che era convinta, ora, di aver sentito sul far della mezzanotte. Nulla. Avanzò, allora, attenta a non far rumore, fino alla soglia della cucina. Nulla. Silenzio. Il focolare era spento, forse un poco di brace viveva ancora la sua agonia sotto i resti inceneriti della legna. Rassettò, allora, i capelli ed i pensieri. Il diavolo non l’aveva portata via!  Ringraziò, insieme, la madre e la Madonna. Poi, quando il ritmo del polso fu tornato ad essere quello i sempre, riprese possesso della sua cucina. Fu allora che, guardando con attenzione di donna, si accorse subito di una cardana annerita, in parte carbonizzata. E, sul pavimento, vide impronte scure, impronte di piedi forcuti. Cosa volevano dire? Aveva confidato troppo presto nel perdono.
Tornò, desolata, nella sua stanza, si accasciò sul letto e pianse, pianse, finalmente, un lungo pianto, che valeva più di ogni preghiera, sciolto dal terrore, alimentato di profonda amarezza. Quando si rialzò per tornare in cucina qualche scampolo di sole vi si stava già intrufolando. Niente più impronte sul pavimento. Anche la cardana aveva ripreso il suo bel colore di legno stagionato. Gustò, finalmente, la gioia del perdono. Il cammino del tempo percorse per intero anche quella domenica, che a tutti parve una domenica come tante altre. Per Margherita, invece, fu la prima di tutte le domeniche, perché quel giorno si sentì di nuovo riaccolta nel grembo del tempo e riportata a quel giorno, chissà quale, chissà quando, nel quale per la prima volta aveva ascoltato e capito dalla voce ferma della madre cosa vuol dire domenica.

Dalla Valmalenco portiamoci, ora, in Val Tartano, dove il trittico di leggende edificanti si completa, con la storia della “pelaröla”, orrenda strega o demone di cui è vittima un’anziana e di cui ci racconta Giulio Spini. Riportiamo la leggenda trascrivendone il riassunto dall’interessantissimo articolo di Ivan Fassin sul numero 61 (2008) del Bollettino della Società Storica Valtellinese (“Credenze e leggende dell’area orobica valtellinese: un esperimento di interpretazione”).
Una anziana donna era dedita in modo quasi ossessivo alla filatura della lana. Questo la portava a lavorare a lungo nella sera, in cucina al lume di candela, talora anche oltre la mezzanotte. Del resto non c'erano orologi. I familiari, che andavano a letto prima, dalla stanza al piano superiore, la sentivano cantilenare "e fili e fili e mèti i ftis i(n) la cavagna". [cioè: "filo, filo e poi metto i fusi nel canestro].
A volte si svegliavano nella notte, e sempre sentivano la solita cantilena. Ma una notte si svegliarono all'improvviso con una strana sensazione, avendo udito dei rumori strani venire dalla cucina. Allora chiamarono la donna, ma in risposta udirono una voce alterata e sinistra, che diceva "e peli e peli e meti i òs i(n) la cavagna" [come dire: "pelo e pelo e metto le ossa nel canestro"]. Allora si resero conto dell'accaduto: l'anziana filatrice aveva superato la mezzanotte del sabato, e lavorando di domenica era caduta in peccato. Così il diavolo in persona era venuto a prenderla [...].”
Davvero intrigante ed inquietante la storia; per i curiosi che volessero saperne di più su questo essere infernale, aggiungiamo quanto scrive, nella bella "Storia di Tartano" (Tecnostampa, Montagna in Valtellina, 1985), Camillo Gusmeroli: "La PELAROLA: spirito femminile insembiante, ma ciarliero, piluccava le donne a filamenti di carne, particolarmente le filatrici notturne solitarie lasciandovi le ossa spolpate, ben sistemate nella cavagna al posto dei fusi."
Per chiudere, ecco una nuova storia che ricalca lo schema delle precedenti; la trascriviamo da un contributo della Scuola Media Ligari di Sondrio alla raccolta “C'era un volta, Vecchie storie e leggende di Valtellina e Valchiavenna” (ed. a cura del Comune di Prata Camportaccio, Sondrio, Bonazzi Grafica, dicembre 1994):
"C'era una volta una donna anziana che aveva l'abitudine di lavorare nei giorni di festa. Una domenica, mentre filava la lana, ricevette la visita di un uomo. Mentre parlava con lo sconosciuto, ad un certo momento le cadde il fuso per terra. Si chinò per raccoglierlo e si accorse che l'uomo al posto dei piedi aveva zoccoli di capra. La donna si spaventò e, facendo finta di aver finito la lana da filare, corse in camera e si nascose nel letto con i suoi bambini. L'uomo la seguì, entrò e le disse: - Sei fortunata perché sei in mezzo all'innocenza, altrimenti ti avrei condotta con me- Quell'uomo era il demonio.
Morale: la domenica non bisogna lavorare perché è giorno di riposo
."

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