Fino alla metà circa del secolo scorso i numerosi paesi orobici di medio-alta quota, che nei secoli passati erano stati densamente popolati ed erano vissuti di intensi rapporti e commerci con il versante bergamasco delle Orobie, risultavano ancora abitati permanentemente. Poi vennero gli anni difficili della ricostruzione post-bellica e quelli euforici del boom economico: per gran parte di questi paesi fu l’inizio della fine, cioè del progressivo spopolamento che li rese sede di villeggiature estive e muti testimoni di una civiltà tramontata nel resto dell’anno. Ma non accadde ovunque così. Nelle grandi valli delle Orobie Occidentali diversi paesi hanno conservato, soprattutto per la facile accessibilità dal fondovalle, una discreta popolazione che vi risiede permanentemente. Una singolare e suggestiva traversata di 4 giorni, con partenza da Forcola ed arrivo a Morbegno, ci permette di toccarli tutti, passando per sentieri noti e meno noti, attraversando luoghi visitati e quasi ignoti. Questa traversata dei paesi orobici è dunque un’occasione per scovare scenari fuori mano, ma anche un tributo alla volontà umana di restare in montagna, per viverla, per conservarla.


Valburga

4. DA BEMA A GEROLA ALTA

Punti di partenza ed arrivo
Tempo necessario
Dislivello in altezza
in m.
Difficoltà (T=turistica, E=escursionistica, EE=per escursionisti esperti)
Bema-Taida-Valburga-Nasoncio-Gerola
5 h
700
EE
SINTESI. Dalla chiesa di S. Sebastiano a Bema (m. 798) ci incamminiamo in direzione del limite di sud-ovest del paese (verso destra, per chi volge la faccia al sagrato della chiesa), fino alla cappella di San Rocco (m. 819). Qui troviamo il cartello del sentiero 131 e proseguiamo sulla mulattiera segnalata (attenzione al percorso: i segnavia sono discontinui), che taglia il lungo fianco occidentale del dosso di Bema. Dopo un vallone scendiamo alle stalle Fumasi (m. 888). Superata una fascia di prati ed un secondo vallone, siamo ai fienili Vardacolo (m. 964), dove troviamo la scritta “Via XX settembre Bema per Gerola”. Oltrepassato poi la selvaggia valle degli Sprissori, con tratti scavati nella roccia, passiamo per due baite isolate ed ignoriamo due deviazioni, alla nostra sinistra (a salire) ed alla nostra destra (a scendere). Il sentiero si fa meno chiaro, qualche segnavia ci aiuta: dopo una sequenza di 7 coppie di tornantini, ci affacciamo ai prati di Taida (m. 956), dove il sentiero attraversa, su un ponticello, la conduttura forzata che precipita verso il fondovalle del Bitto. Passiamo alti sopra le baite e riprendiamo a salire nel bosco, uscendone ai prati della Brusada (m. 1166). Oltrepassata una fontana in cemento per la raccolta dell’acqua, superiamo un nuovo valloncello ed un baitello; ad un successivo bivio, non andiamo diritti, ma pieghiamo a sinistra e, dopo aver risalito, con diversi tornantini, un dosso boscoso, ci affacciamo alle baite della Valburga (m. 1198), nella sua parte media. Passiamo a destra di un baitone, poi saliamo in diagonale a sinistra fino al limite alto dei prati (cartello di divieto di caccia), rientrando nel bosco. Superato un vallone, a due successivi bivi prendiamo a destra e, nella cornice di una faggeta, ci portiamo al solco principale della Valburga (m. 1250), superando il torrentello su un ponticello in legno. Il sentiero sale ora, ripido, a monte di un bosco di abeti alti e diritti. Superiamo un vallone secondario e dopo saliscendi siamo ad un impressionante vallone, che la mulattiera supera con tratti scavati nella roccia. Scendiamo per breve tratto, risaliamo al filo di un dosso, attraversiamo un nuovo vallone e siamo ad un bivio segnalato da tre cartelli. Qui ignoriamo la deviazione a sinistra (sentiero che sale all'alpe Dosso Cavallo) e proseguiamo diritti, superando su un ponte il torrente Bomino e confluendo nella pista sterrata Nasoncio-Val Bomino. Prendiamo ora a destra, scendendo lungo la pista fino a Nasoncio e proseguendo di qui su carozzabile fino a Gerola Alta.


Apri qui una fotomappa dell'alta Val Gerola orientale

La traversata da Bema a Gerola, quarta tappa della traversata dei paesi orobici, rappresenta un’escursione poco nota, ma davvero suggestiva, interessante, che non comporta un particolare impegno fisico, anche se richiede un po’ di esperienza escursionistica e di attenzione Il percorso si snoda in gran parte sul versante occidentale del lungo dosso di Bema, assai diverso da quello orientale. Mentre quest’ultimo, infatti, ospita ampi e luminosi alpeggi, che si aprono fra verdissime peccete, il primo è immerso in un’atmosfera chiaroscurale da fiaba, dove ogni ombra si anima di una vita inquietante ed i raggi di sole trapassano mormorii arcani di rami e fronde. Una larga mulattiera attraversa a mezza costa l’intero versante, scavalcando valloni che hanno ancora il potere di destare paura e toccando prati che attendono ancora, malinconici, l’impossibile ritorno delle mani operose dell’uomo.
Dalla chiesa di San Sebastiamo a Bema (m. 798) ci portiamo alla Via Panoramica e proseguiamo verso il limite di sud-ovest del paese, al punto in cui dalla strada si stacca, sulla sinistra, la mulattiera, segnalata, da un cartello, come sentiero 131. Il cartello dà la località Taida a 50 minuti, Valburga ad un’ora e mezza e l’alpe Dosso Cavallo a 2 ore e 50 minuti. Il percorso è segnalato da segnavia bianco-rossi (poco numerosi, per la verità, ma, almeno nel primo tratto, il rischio di perdere il sentiero è davvero inesistente).
Appena prima dell’inizio della mulattiera troviamo l’oratorio di S. Rocco (m. 819), di origine quattrocentesca: un dipinto sulla sua facciata raffigura il santo protettore degli appestati, la cui devozione è sempre stata assai viva in Valtellina, probabilmente perché i tremendi scempi operati nei secoli dal morbo rimasero sempre ben presenti nella memoria delle genti contadine. Dopo essere passata a valle di un grande casolare solitario, la mulattiera prosegue nella salita verso sud. Alla nostra sinistra, il selvaggio e tormentato versante che scende verso nord-ovest dal pizzo Berro (termine che deriva da “bel-ver”, belvedere, oppure da “berr”, montone); alla nostra destra un ottimo scorcio panoramico sul versante occidentale della Val Gerola, che propone, da sinistra, il turrito pizzo di Trona ("piz di vèspui"), il Piazzo, il pizzo Mellasc, il monte Colombana e la cima di Rosetta ("scima de la rusèta"). Alle nostre spalle, infine, a destra della Costiera dei Cech si distingue un bello scorcio delle cime del Masino, che propone, da sinistra, la cima di Zocca, la cima di Castello, la punta Rasica ed i pizzi Torrone.
Oltrepassato un cartello che segnala il pericolo di frane, ignoriamo un sentierino che si stacca sulla sinistra dalla mulattiera. Superata una piccola porta nella roccia, dove troviamo anche il primo segnavia bianco-rosso, ci immergiamo nella parte ombrosa di un dosso, mentre, sul lato opposto della Valle del Bitto di Gerola, Rasurasorride accarezzata dal sole. In alcuni tratti la mulattiera, sempre larga, è esposta sulla nostra destra, per cui non è davvero il caso di distrarsi. Poi, dopo una breve discesa, una risalita ed una seconda porta nella roccia, ci affacciamo al primo impressionante vallone, nel quale la mulattiera si tuffa senza timore alcuno. Sarà bene, invece, che noi qualche timore lo conserviamo: il vallone, infatti, è soggetto a scariche di massi, per cui dobbiamo stare all’erta.
Raggiunti luoghi più tranquilli, ci attende una breve discesa, che ci porta a due baite, rispettivamente a monte ed a valle della mulattiera: si tratta delle Stalle di Fumasi (m. 888), presso le quali giganteggia un castagno di dimensioni davvero ragguardevoli. Superata a monte una fascia di prati con alcune baite diroccate, raggiungiamo un secondo vallone, dominato, a monte, da un impressionante corno roccioso: si tratta del vallone che scende direttamente verso nord-ovest dal pizzo Berro.
Oltrepassato il vallone, siamo ai Fienili Vardàcolo (m. 964), dove troviamo la scritta “Via XX settembre Bema per Gerola”: non stiamo, dunque, percorrendo un sentiero anonimo, ma una vera e propria via, con tanto di denominazione ufficiale! Poi la mulattiera scende nel cuore di un nuovo vallone, con un tratto sorretto da uno splendido muretto a secco: qui troviamo anche una porta ed un cartello che così recita: “Per favore chiudere la porta, rispettare la natura e non farsi rincorrere dalle capre”. Ora, sui due primi inviti siamo senza dubbio d’accordo, ma quanto al terzo, è difficile immaginare escursionisti che si mettano a fare le boccacce alle capre per poi fuggire divertiti. Sono piuttosto questi enigmatici animali a puntare, talvolta, con insistenza qualche malcapitato madido di sudore, che lascia dietro di sé una scia salina per loro irresistibile.
Ci attende, ora, il punto forse più orrido della traversata, vale a dire il superamento della selvaggia valle degli Sprissori, il cui versante settentrionale è costituito da un’imponente muraglia rocciosa. La mulattiera, però, non si arresta, ma si dipana sul versante roccioso con un paio di tornantini, che ci portano in fondo al vallone. Sopra di noi, una cascatella che scende da un salto roccioso e che giustifica, forse, la denominazione della valle, la quale rimanda allo sgorgare dell’acqua dalla roccia. Oltre il vallone, volgiamoci ad ammirare i grandi muretti a secco che sostengono il tratto della mulattiera che abbiamo appena percorso, un piccolo capolavoro di ingegneria alpina. Consoliamoci con il pensiero che questa mulattiera non subirà il destino di molte altre, semicancellate da piste carozzabili: per di qua non passerà alcuna strada. O no?
Il dubbio si fa strada, inquietante, mentre affrontiamo una leggera discesa, che ci porta ad una nuova fascia di prati ed a due baite. Incontriamo, più avanti, dopo due brevi tornantini, un sentiero secondario che ci lascia sulla sinistra, salendo lungo un dosso boscoso; ignorata la deviazione, ne troviamo una seconda, questa volta a destra, ed ignoriamo anche questa. Inizia ora un tratto impegnativo, nel senso che dobbiamo prestare attenzione per non perdere la traccia (i segnavia bianco-rossi diventano, qui, essenziali). Il sentiero comincia a guadagnare rapidamente quota con una serie di sette tornanti a destra (attenzione a non riprendere il l’andamento in piano prima dell’ultimo tornante, anche se una sorta di falsa traccia di sentiero ci può indurre a farlo: se restiamo ad una quota troppo bassa, rischiamo di trovarci sull’orlo di un grande corpo franoso). 
Ci affacciamo, infine, ai prati di Taida (m. 956): se torniamo per la medesima via dell’andata, cerchiamo di memorizzare il punto di ripartenza del sentiero dai prati. Il sentiero attraversa, quindi, su un ponticello la conduttura forzata che precipita verso il fondovalle del Bitto. Seguendo il sentiero, rimaniamo alti rispetto alle baite che sono poste nella parte medio-bassa dei prati; più avanti, superato un valloncello, intercettiamo il sentiero che sale dal limite di questo gruppo di baite, alla nostra destra. La mulattiera sale decisa per un buon tratto, al termine del quale troviamo alla nostra sinistra un cartello con l’indicazione “Bema” (ad indicare la direzione dalla quale proveniamo), ed alla nostra destra un segnavia rosso-bianco-rosso su un masso. La salita prosegue in un rado bosco, e la mulattiera è qui larga e ben visibile.
La mulattiera torna all’aperto, e taglia la parte medio-bassa dei prati della Brusada (m. 1166). Oltrepassata una fontana in cemento per la raccolta dell’acqua, superiamo un nuovo valloncello ed un baitello; ad un successivo bivio, non andiamo diritti, ma pieghiamo a sinistra e, dopo aver risalito, con diversi tornantini, un dosso boscoso, ci affacciamo all’ennesima fascia dei prati, in località Valburga (m. 1198), nella sua parte media. Davanti a noi il lungo dosso del monte Motta, riconoscibile per la croce che lo sormonta. Alla sua sinistra, il solco della Val Bomino ed il dosso che ospita l’alpe Dosso Cavallo e che culmina nella cima omonima. Attraversando i prati, raggiungiamo una grande baita, alla nostra sinistra, mentre alla nostra destra troviamo un curioso baitello.
Siamo nella fascia medio-bassa dei prati, e la modesta traccia di sentiero prosegue fino al limite del bosco. Non dobbiamo, però, seguirla, ma piegare a sinistra e salire in direzione del gruppo di baite più in alto (m. 1240), dove si trova un cartello di divieto di caccia. Qui ritroviamo il sentiero, che entra nel bosco ed attraversa un nuovo vallone, con una cascatella. Oltre il vallone, troviamo, dopo un’assenza che ci ha probabilmente inquietato, un segnavia bianco-rosso. Ad un bivio, prendiamo, poi, a destra, scendendo leggermente (segnavia blu e bianco-rosso). Siamo nel cuore di un bosco di faggi e betulle, sospeso in un’atmosfera fiabesca. Ci stiamo avvicinando al cuore della più importante fra le valli che incidono il versante occidentale del dosso di Bema, la Valburga. Ad un secondo bivio prendiamo di nuovo a destra, proseguendo con andamento pianeggiante: due segnavia blu ed uno bianco-rosso ci confortano sulla correttezza della nostra scelta. Superato un valloncello secondario, proseguiamo tagliando uno sperone roccioso: il sentiero è comunque tranquillo ed elegantemente sostenuto da muretti a secco.
Ci approssimiamo, infine, al solco principale della Valburga (m. 1250), e ne superiamo il torrentello con l’ausilio di un ponticello in legno (ma se è piovuto molto di recente, difficilmente riusciremo a conservare asciutti i piedi): sul lato opposto, la mulattiera riprende a salire, sostenuta da un muretto a secco.
Sostando qualche istante fra le ombre arcane di questa valle, lasciamo correre il pensiero e l’immaginazione. Forse il nome della valle ci farà venire in mente l’omonima santa (Santa Valburga, o Valpurga), il cui ricordo viene celebrato il primo maggio. Ci farà venire in mente anche la notte di Santa Valburga, fra il 30 aprile ed il primo maggio, notte nella quale, secondo antichissime leggende pagane e germaniche, le forze del male si scatenato. Nel Medio-Evo cristiano la credenza popolare immaginò che fossero streghe e diavoli ad abbandonarsi in orribili ridde nei boschi proprio durante questa notte, legata ad una santa che faceva parte del gruppo di monache e monaci che aiutarono S. Bonifacio (680-755) ad evangelizzare  la Germania.
È, dunque, a causa delle ombre che gravano perennemente su questi luoghi e sembrano la dimora eletta di orribili streghe che alla valle è stato dato questo nome? L’ipotesi è suggestiva, ma non coglie nel vero. Il toponimo, infatti, riconduce sì al mondo germanico, ma non alle streghe: Valburga viene da Valle e Burg, borgo, e significa, dunque, la valle (o il torrente) del borgo, del villaggio, anche se non è affatto chiaro a quale villaggio ci si riferisse in antico. Il torrente, infatti, confluisce, poco più in basso rispetto al punto nel quale lo attraversiamo, nel torrente Bomino, e non ci sono villaggi che si affacciano al suo solco.
Di nuovo in cammino, in uno scenario che muta: il sentiero sale, ripido, a monte di un bosco di abeti alti e diritti. Dopo un tornante a sinistra ed uno a destra, un tratto pianeggiante ci porta ad un vallone secondario, che attraversiamo a quota 1300 metri. Più avanti cominciamo a scendere e, superata una piccola porta nella roccia, troviamo un tornante destrorso ed uno successivo sinistrorso. Il sentiero riprende, poi, a salire, quasi incollato alla parete di roccia alla nostra sinistra, e ci porta ad un nuovo vallone, ben più impressionante rispetto al centro della Valburga: si presenta, infatti, davanti ai nostri occhi una scura ed impressionante parete di roccia, sul lato opposto, e la prima impressione è che sia invalicabile. Mai sottovalutare, però, la tenacia delle mulattiere e di chi le tracciò, spesso scavando nella viva roccia: neppure la muraglia scura ed umida ci ferma.
Superata una franetta, scendiamo per un tratto e riprendiamo a salire, raggiungendo il filo di un dosso dove dalla mulattiera si stacca, sulla destra, un sentiero che scende, a zig-zag, seguendo proprio il dosso. Noi proseguiamo sulla mulattiera, attraversando, a quota 1280, un nuovo valloncello secondario, per poi raggiungere un bivio: su un sasso troviamo l’indicazione “Casera”, perché il sentiero che ci lascia sulla sinistra sale alla casera di quota 1352, posta in una radura sul medesimo dosso che ospita, più in alto, l’alpe Dosso Cavallo (m. 1606).
Avanzando ancora, giungiamo alla fine del sentiero, sostituito da una pista che giunge fin qui partendo dalle case della frazione Nasoncio di Gerola e staccandosi dalla pista principale per la Val Bomino. Si tratta di una pista forestale che è in corso di realizzazione nella foresta regionale della Val Gerola, a cura dell’ERSAF. Nel primo tratto, troviamo un nuovo sentiero che la lascia sulla sinistra, e sale anch’esso all’alpe Dosso Cavallo. Non ci resta, ora, che seguire fino a Nasoncio. Nel primo tratto passiamo a valle di una splendida pecceta: non possiamo non fermarci ad ammirare il suo fondo interamente coperto da aghi di abete, e la fitta trama degli alberi che sembra nascondere creature arcane e fiabesche. Poi, dopo un tratto in salita, essa ci porta al ponte in legno sul torrente Bomino (m. 1290), oltre il quale, superata una brevissima salita, intercettiamo la pista principale Nasconcio-Val Bomino, dove troviamo un cartello che dà, nella direzione dalla quale proveniamo, l’alpe Dosso Cavallo ad un’ora e 5 minuti e la baita Aguc a 2 ore; un secondo cartello indica che la pista principale della Val Bomino (che però nel tratto più alto diventa sentiero) porta al passo di Verrobbio (“buchéta de Bumìgn”, denominata, sul versante bergamasco, “pàs de Véròbi”) in 2 ore e mezza; un terzo cartello, infine, dà Nasoncio ad un’ora.
È in questa direzione che ci dobbiamo muovere; teniamo, però, presente che d’inverno troveremo sulla pista colate di ghiaccio anche insidiose. Scendiamo, dunque, verso destra, ed in una quarantina di minuti di discesa un po’ monotona (ma la bellezza dei boschi a monte della pista è tutta da ammirare) raggiungiamo Nasoncio, frazione di Gerola, dove giunge la strada asfaltata che parte da Valle, la frazione che precede Gerola Alta. Percorriamo dunque la strada fino a Valle: qui troviamo la seconda automobile, che ci permette di tornare a Bema e recuperare la prima.
L’intera traversata richiede circa 4 ore e mezza di cammino. Il dislivello complessivo è difficilmente calcolabile, dal momento che i saliscendi, soprattutto da Valburga al ponte di Bomino, si susseguono quasi sistematicamente: mettiamo in conto di dover superare approssimativamente un dislivello di 700 metri.
E' venuto il momento di sapere qualcosa di più di questo paese orobico, il più importante fra quanti ancora sono permanentemente abitati. Gerola Alta è uno dei centri orobici più conosciuti e belli. Posta, com’è, fra alta e bassa valle, a 1050 metri, rappresenta il baricentro della Valle del Bitto di Gerola, la più occidentale delle due grandi e celeberrime valli del Bitto (l’altra è quella di Albaredo).


Gerola Alta

Le origini della comunità di Gerola risalgono probabilmente al secolo XII (la prima attestazione sicura dell’esistenza della comunità di Gerola si trova in un atto rogato a Cosio Valtellino del 1238), e sono legate all’arrivo nell’alta Valle del Bitto di abitanti dal versante orobico bergamasco, cioè dalla Valsassina, e soprattutto da Premana. Per questo motivo il paese è sempre stato un nodo di congiunzione importantissimo fra i due versanti orobici. Come scrive Cirillo Ruffoni, “la tradizione orale vuole che i primi abitanti di Gerola siano venuti dagli opposti versanti della Val Brembana e della Valsassina, per l’estrazione e la lavorazione del ferro e per dedicarsi all’attività dell’allevamento. I legami con i paesi d’origine sarebbero stati saldi per parecchio tempo, tanto che i morti venivano portati là per la sepoltura…va ricordato anzitutto che mentre per noi le montagne dividono, in passato non costituivano una barriera ed era frequente il fiorire di comunità che occupavano i versanti opposti. Nel caso specifico di Gerola…certamente i pascoli d’alta quota hanno costituito da sempre un’invitante risorsa e sono stati frequentati dalle comunità vicine”. (da: Cirillo Ruffoni - a cura di -, Inventario dei toponimi valtellinesi e valchiavennaschi. Territorio comunale di Gerola Alta, Sondrio, Società storica valtellinese, 1986; cfr. anche Cirillo Ruffoni, Gerola. La sua gente, le sue chiese, Monza, Moralese, 1995).


Gerola Alta

La tradizione orale di cui parla il prof. Ruffoni è riportata nella "Storia" del parroco di Gerola Pier Antonio Acquistapace (1829): "Quando precisamente sia incominciata ad abitare non si sa, certo fin prima dell'anno 1307 eranvi gente, e sacerdote. Si dice che siano introdotti in occasione delle miniere del ferro, che tuttora si trovano in Trona, e già anche in Pescegallo e dei forni, di cui veggonsi in più luoghi le vestigia, come alle rasiche di Chigamoscio dove anche sul finite del 1600 era in voga... Inoltre delle parentele, che sono qui, e state, nulla né per la valle del Bitto, e in Valtellina si trovano, però credonsi oriunde da lontano, come da Valsasina, dal Lago di Como ecc. Anzi in Valsasina si portavano anche i morti, e colà per esempio si veggono tanti Acquistapace; quegli di tal cognome, che sono a Morbegno, a Delebio ecc. vennero da qui partiti. Ora si dice Girola o Gerola, e come rilevasi e dal comune dialetto, e da un antico monumento del 1400, anche Giarola. Dicono alcuni che prima si chiamasse Santa Maria dell'Acqua Viva, e dopo de essere stata ingerata dal fiume Bitto, che le trascorre in mezzo, l'abbiano chiamata Giarola da giara, gera o ghiaia. Io però per me non ho però mai trovato niun documento di ciò" (citato da "Gerola - La sua gente, le sue chiese", di Cirillo Ruffoni, Morales editore, Monza, 1995).
Il legame con il versante orobico meridionale era, peraltro, favorito dall’antichissima via del Bitto, fondamentale nodo di transito fra la bassa Valtellina ed il lecchese, attraverso, appunto, la Val Gerola e la Valsassina: di qui, forse, passarono, in epoche molto più antiche, i popoli che, salendo da sud, colonizzarono per primi questo lembo della catena orobica, anche se non in modo permanente. Sembra che i primi siamo stati i Liguri, seguiti dai Celti e dagli Etruschi. Vennero, quindi, i Romani, ai tempi dell’imperatore Augusto. E, dopo di loro, venne la religione cristiana, predicata da S. Ermagora. Dopo la caduta dell’impero romano vennero i Goti, e dopo di loro i Longobardi, sconfitti dai Franchi: tutti passarono dalle valli orobiche, ed il valico della bocchetta di Trona era, fra tutti, il più praticato.
Poi venne il Medio-Evo, e, con esso, la colonizzazione duratura dei pastori di Val Brembana e Val Varrone, alla ricerca di pascoli e di ferro (nel territorio di Gerola numerosi sono i resti delle miniere di ferro, ai piedi delle cime di Ponteranica e nella zona compresa fra il pizzo di Trona, i laghi di Trona e dell’Inferno e l’alpe Trona Vaga; del resto il toponimo “truna” significa “cavità”, “galleria”). Non furono, costoro, probabilmente gli unici colonizzatori: si unirono a loro fuggiaschi dalla pianura per effetto delle invasioni germaniche e dei disordini e conflitti dei secoli successivi. Un elemento che spiega il potere attrattivo di queste zone d’alta montagna è quello climatico: il clima fu, nel medio Evo e nell’Età Moderna fino al 1600, più caldo rispetto all’attuale, il che favoriva gli insediamenti e le attività a quote relativamente alte.
Bastarono poche generazioni per trasformare un modesto villaggio di pastori in uno dei centri economicamente più vivaci dell’intera Valtellina. Già nel 1368, per la sua importanza, Gerola, che fino ad allora era stata soggetta alla giurisdizione della parrocchia di Cosio Valtellino, se ne staccò. In quel secolo l’estensione dei terreni coltivati era già pressoché corrispondente all’attuale, e già erano abitati gran parte dei nuclei rurali.
La comunità di Gerola, con una popolazione complessiva che poteva aggirarsi intorno ai 400 abitanti, era istituzionalmente organizzata come Comune, al cui interno le famiglie dei Ruffoni e dei Curtoni primeggiavano per l’estensione dei possessi. L’organo principale del comune era l’assemblea dei capi-famiglia che si riuniva di norma una volta all’anno, nel mese di giugno, per discutere e decidere gli affari più im­portanti nella vita della comunità ed eleggere gli amministratori. L’amministrazione comunale era retta da tre consoli, estratti a sorte da una rosa di diciotto persone ritenute idonee dalla comunità. I consoli sbrigavano gli affari correnti, rappresentavano il comune nelle riunioni della squadra di Morbegno, curavano i beni del comune. La gestione dei consoli era controllata da tre consiglieri o ragionatti, che avevano il compito di tenere la contabilità e stilare il bilancio di ogni anno. Gli stimatori, in numero di due, dovevano valutare i beni immobili e tenevano aggiornati i libri dell’estimo; ogni anno venivano nominati anche due campari. Tra i compiti dell’assemblea rientrava quello di ratificare la nomina dei sindaci della chiesa, di fissare le feste e di eleggere il parroco.
L’economia era incardinata nelle attività agricole (allevamento e coltivazione di orzo, miglio, segale e canapa), ma vi svolgeva un ruolo non secondario l’estrazione e la lavorazione del ferro, che poi, nelle fucine di Milano, veniva utilizzato per forgiare spade, picche, alabarde e corazze. Un supporto importante all’economia era offerto anche dal taglio della legna, che alimentava le fornaci e veniva portato anche sul fondovalle, e dalle attività di tessitura, che riguardava i pezzetti, i panni di lana, le tele di canapa e le tele di lino.

Nei due secoli successivi, Quattrocento e Cinquecento, iniziò una significativa corrente migratoria da Gerola verso la Val di Sole e Verona, e più tardi verso Ancona, Livorno e Napoli. Il 1512 è un anno da ricordare: l’inizio della dominazione delle Tre Leghe sulla Valtellina fece di Gerola territorio di confine fra questa signoria e due altre importanti signorie, quella della Repubblica di Venezia, sul versante orobico della bergamasca, e quella del ducato di Milano, che raggiungeva la Val Varrone e la Val Fraina. Ed è proprio un governatore di Valtellina per le Tre Leghe, Giovanni Guler von Weineck (1587-88), a descrivere la felice situazione delle Valli del Bitto, di Albaredo e Gerola nella sua opera “Rhaetia”, pubblicata a Zurigo nel 1616. “Da Morbegno si estende, in direzione di mezzogiorno, fra alti monti, fino alle vette del confine veneto, una lunga vallata, ben disposta e popolosa, la quale dal fiume Bitto che le percorre viene denominata valle del Bitto. Essa è così larga e così lunga che comprende ben sei comuni: la popolazione è bella, robusta, di florido aspetto, coraggiosa e ben costumata. Quivi non prospera la vite; ma tuttavia gli abitanti godono una grande agiatezza, perché traggono grossi guadagni dall’allevamento del bestiame, dalla lavorazione dei panni di lana, nonché da svariati mestieri che essi esercitano in diversi luoghi d’Italia. In questa valle si trova anche una certa pietra rossa e durissima con cui si fanno i mortai ed altri arnesi consimili…”
Di Gerola, in particolare, dice che è costituita da 12 frazioni, Piazza (il nucleo centrale), Ravizza, Castello, Laveggiolo, La Foppa, Teggiola, Case dei Mazzi, La Roia, Nasonchio, La Corna, Cassinelle e Fenile, e che le più antiche ed illustri famiglie sono quelle dei Ruffoni e degli Stella, immigrati da Verona, dei Foppa e dei Curti, detti anche Curtoni, dei Mazzi e dei Re, di origine francese. Molte famiglie illustri per uno dei centri più prosperi della Valtellina. In quegli anni Gerola venne eretta a parrocchia autonoma dal vescovo di Como Gianantonio Volpi (1587).
Una seconda testimonianza illustre è quella che ci è giunta dalla relazione che il vescovo di Como, di origine morbegnese, Feliciano Ninguarda, fece della sua visita pastorale in Valtellina del 1589. Di Gerola scrive di avervi trovato 140 famiglie, tutte cattoliche (il che corrisponde ad un totale di circa 700 abitanti).


Gerola Alta

Ecco quanto scrive: "Infine risalendo altre due miglia (sc. oltre Pedesina) c'è Gerola con 140 famiglie tutte cattoliche. La chiesa parrocchiale è dedicata a S. Bartolomeo Apostolo, la presiede il sac. Luigi de Micheli da Osio nella Marca Anconetana. Qui finisce la valle del Bitto; dopo non c'è che un alto monte che divide questa valle da un'altra, che si trova al di là e appartiene ai Bergamaschi" (trad. dal latino a cura di don Lino Varischetti e Nando Cecini, pubblicata nel 1963 dal Credito Valtellinese).
Vennero poi tempi assai più foschi, quando la Guerra dei Trent’Anni fece della Valtellina un campo di battaglia di importanza strategica sullo scacchiere europeo, portandovi eserciti spesso avidi di saccheggio e, soprattutto, la terribile peste del 1629-31, che ridusse la popolazione valtellinese a poco più di un quarto e non risparmiò la Val Gerola: ci volle quasi un secolo per tornare a livelli di popolazione vicini a quelli precedenti (gli abitanti di Gerola erano, nel 1690, 618).
Un quadro sintetico di Gerola nella prima metà del Seicento è offerto dal prezioso manoscritto di don Giovanni Tuana (1589-1636, grosottino, parroco di Sernio e di Mazzo), intitolato “De rebus Vallistellinae” (Delle cose di Valtellina), databile probabilmente alla prima metà degli anni trenta del Seicento (edito nel 1998, per la Società Storica Valtellinese, a cura di Tarcisio Salice, con traduzione delle parti in latino di don Abramo Levi). Vi leggiamo: “La Valle del Bitto, così chiamata dal fiume qual passa per quella, è molto longa, più di 15 miglia, dov'è strada commodissima per andare nel stato de Venetiani, tanto a piedi quanto a cavallo. Ha sette parocchie, duoi nel fianco diritto, quatro nel fianco sinistro, et una in un monticello che si leva tra l'un e l'altro fianco… Nel fianco sinistro la più lontana da Morbegno si chiama Gerolo, contrata assai grande con queste contrate, cioè Piazza, Ravizza, Castello, Lavezolo, Foppa, Tegiolo, Naso Onchio, Rogia, Fenile, Casinello; fanno 200 fameglie. Ha la chiesa parochiale libera di S. Bartolomeo apostolo. Nel monte Trona et Tronella vi sono le minere del ferro.”
Solo nel settecento la comunità di Gerola Alta iniziò una lenta ripresa economica e demografica. Oggi Gerola è uno dei centri turistici più conosciuti ed apprezzati della bassa Valtellina, meta ideale di chi ama villeggiature tranquille e nello stesso tempo scenari ideali per la pratica dello sci e dell'escursionismo. Molteplici e variegate le iniziative estive, che contribuiscono a tener viva l'immagine di una comunità vivace e saldamente ancorata alle proprie radici.


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