Il labirinto dei massi erratici alla Preda di Remenno
Punti di partenza ed arrivo |
Tempo necessario |
Dislivello in altezza in m. |
Difficoltà (T=turistica, E=escursionistica, EE=per escursionisti esperti) |
Primo parcheggio-Tetto del Grande Grigio |
40 min. |
160 m. |
E |
La
Preda di Remenno (o Sasso Remenno; con denominazione locale: "la préda") è uno dei più celebri
monumenti naturali della Val Masino, ed era già assai nota nei
secoli passati, come testimonia il Guler von Weineck, che fu governatore
della Valtellina per le Tre Leghe dal 1587 al 1588, nel suo resoconto
“Rhaetia”, pubblicato a Zurigo nel 1616. Parlando della Val
Masino, infatti, la menziona e ne scrive: “Poco oltre il villaggio
di S. Martino, scendendo dalla valle, si incontra presso la piccola
frazione Remenno un enorme e colossale macigno, lungo trentacinque braccia,
largo dieci ed elevato quindici, che alcuni ritengono piuttosto un monte
(prescindendo dal fatto che esso presenta da ogni parte una struttura
quadrata) che non una pietra isolata: tanto più che non si può
vedere donde esso possa essersi staccato ed arrivato sin laggiù”.
Ne fu impressionato anche John Ball, che, nella guida “central
Alps”, pubblicata nel 1864, ne scrive: “Sembra che a diversi
intervalli enormi massi siano precipitati dalla parete della montagna
del lato occidentale della valle. Alcuni dei più antichi sono
ricoperti di muschio e la gente ha fatto in modo di far crescere piccoli
appezzamenti di patate con terra che è stata portata su e sparsa
sulla sommità di alcuni di questi blocchi. Fra i massi più
recenti, probabilmente caduti negli ultimi due, tre secoli, ci sono
alcuni fra i più prodigiosi macigni che si possano trovare nelle
Alpi. Uno di questi situato a fianco della strada supera di gran lunga
ogni altro che chi scrive ha mai potuto vedere...”
Noi, oggi, possiamo capire bene i rivolgimenti geologici e climatici
che hanno portato questo gigante (che, con i suoi oltre 500.000
metri cubi, è il più grande monolite d’Europa, con
pareti alte dai 20 ai 55 metri) a piantarsi sul lato occidentale della
piana di Zocca, a valle di S. Martino. Tutto cominciò con quel
singolarissimo evento geologico che ha dato origine al Plutone della
Val Masino, l’eruzione di un’enorme massa di materiale magmatico
che non raggiunse, però, la superficie, ma rimase a raffreddare,
molto lentamente, al di sotto di un più antico strato di rocce
metamorfiche. Lo sgretolamento di queste rocce portò, infine,
all’emersione di quell’incredibile isola di granito che
costituisce la Val Masino e che si mostra con ardite e durissime pareti,
in un trionfo di vertiginosa verticalità.
Questa caratteristica verticalità va, però, spiegata tenendo
presente la successiva azione modellatrice dei ghiacci. Tutto iniziò
nell’era quaternaria, cioè nell’ultima era geologica,
cominciata forse 1.800.000 di anni fa. Iniziò con una grande
glaciazione, che coinvolse tutta la catena alpina. Nella zona della
futura Val di Mello il ghiaccio ricopriva ogni cosa, fino ad una quota
superiore ai 2.500 metri (ma, secondo alcuni, l’immane ghiacciaio,
che raggiungeva, a sud, la Brianza, si elevava, nei suoi punti più
alti, alla vertiginosa altezza di 8.000-9.000 metri!). Immaginiamo lo
scenario spettrale: una coltre bianca ed immobile, dalla quale emergevano,
come modesti isolotti, solo le cime più alte della valle, il
monte Disgrazia (m. 3678), i pizzi Torrone, la punta Rasica, la cima
di Castello, la cima di Zocca, i pizzi del Ferro (sciöma dò fèr). L’azione di
questo enorme ghiacciaio, lenta, inesorabile, scandita in ritmi difficilmente
immaginabili, cioè in migliaia di anni, cominciò a modellare
il volto della valle: si deve ad essa la straordinaria conformazione
delle pareti granitiche, verticali, con grandi placche lisce, e la forma
straordinariamente levigata delle numerosissime placche di granito.
Fu un’azione che si esercitò in quattro grandi tempi: tante
furono, infatti, le successive glaciazioni (la quarta ebbe inizio 40.000
anni fa), prima dell’ultimo e definitivo ritiro dei ghiacci alle
quote più alte, dove ore di essi resta solo un’esigua traccia.
Il ritiro del ghiacciaio determinò, anche, il crollo di grandi
blocchi di granito, che erano rimasti sospesi su balconate di ghiaccio:
li troviamo, ora, muti testimoni di eventi ciclopici, sul fondovalle,
come vassalli erranti degli incombenti signori della valle, le ardite
costiere che la guardano. Il più impressionante accumulo di questi massi è, appunto,
la zona che ospita il più famoso di essi, la Preda di Remenno. E', però, anche possibile ipotizzare che la "préda" sia caduta dalla vicina val da l'alp in epoca ancora anteriore, preglaciale, come farebbe supporre l'arrotondamento di molti dei massi ciclopici che la circondano. In tal caso sarebbe la muta testimone di un tempo tanto lontano che l'immaginazione si sente smarrita al solo evocarlo.
Andiamo a visitare, dunque, questa eccezionale fascia di massi erratici. La raggiungiamo facilmente, dopo aver oltrepassato, risalendo la Val
Masino sulla ex ss. 404, ora strada provinciale, Cataeggio (cata(i)öc’) e Filorera (felorèra): ci immettiamo subito nel
piano di Zocca, sul cui fondo si trova, a sinistra della strada, al km 11,5, il
ben riconoscibile agglomerato di massi ciclopici, fra i quali la Preda
di Remenno (m. 843) spicca nettamente. Si tratta di massi di durissimo
ghiandone, delle più diverse forme e dimensioni, caduti dalla
Valle di Preda (o Valle della Pietra; "val da l'alp", "val da préda" o, anche, con nome più antico, "val mèrla"), sul fianco occidentale di questo
segmento della Val Masino, che precede immediatamente S. Martino. Due
comodi parcheggi consentono l’accesso alla zona, molto frequentata
dai cultori del bouldering e dell’arrampicata.
Di recente è stato anche ripristinato un bel percorso ad anello
che consente un’interessante passeggiata nel cuore di questi giganti
di granito: si tratta del Sentiero dei Ciclopi, che suggerisce l’idea
di un luogo legato alla mitica presenza di antichissimi
giganteschi individui, che avrebbero ammassato qui, per chissà
qual motivo, tutti questi massi. È solo una suggestione, ovviamente:
nessuna leggenda, a quanto pare, è fiorita intorno a questi massi.
Una suggestione potente, però, accresciuta da un’incursione
nel regno della mitologia greca, dal quale la denominazione è
tratta: i Ciclopi erano noti, nell’antichità, non solo
per le enormi dimensioni e per l’unico occhio tondeggiante richiamato
dal nome (Ciclope=Occhio Rotondo), ma anche per il loro costume di vita
decisamente solitario e selvaggio. In effetti, questi giganti di pietra
sembrano chiusi, nonostante la prossimità fisica, ciascuno nella
solitudine di una storia unica, incomunicabile.
Per verificare la validità di questa suggestione, dobbiamo percorrere
il sentiero, portandoci con l’automobile al primo dei due parcheggi
menzionati, sulla sinistra della strada, circa duecento metri prima
rispetto a quello che serve la Preda di Remenno, ad una quota approssimativa
di 835 metri. Qui troviamo un cartello illustrativo del sentiero, realizzato
nel contesto del progetto Life Reticnet dell’Ersaf, con una bella
mappa che rappresenta il percorso ed i personaggi di granito che ci
avverrà di incontrare; il cartello suggerisce di affrontarlo
in condizioni ideali di roccia asciutta (non presenta, infatti, difficoltà
tecniche – se non in una variante che potremo accuratamente evitare
-, ma l’insidia dello scivolone è sempre… sotto la
suola).
A sinistra del cartello (nella medesima direzione indicata da un precedente
cartello che segnala il sasso “La Torcia” e “Lo Scivolo”)
parte il sentiero, ben visibile, che, dopo un brevissimo tratto in salita
fra alcuni alberi di noce, ci porta al primo gruppo di giganti. Ci troviamo
proprio sotto un grande masso affilato, l’Aperacheio, alla nostra
destra, che si appoggia ad un altro masso, a sinistra, denominato l’Orologio
del Tempo. Le fantasiose denominazioni di questi severi personaggi aggiungono
suggestione a suggestione, e lasciano correre la mente alle più
immaginifiche associazioni. Ora sembra che il sentiero, appena iniziato,
già si concluda: dove si passa? Fra l’Orologio del Tempo,
a destra, e l’enorme blocco della Torcia, a sinistra, c’è
solo una fessura, decisamente troppo stretta per pensare di passarci
in mezzo. Invece si passa, ma non a mezza altezza, come suggerisce la
prima ingannevole impressione, bensì in basso, rasoterra, per
uno stretto spiraglio che ci costringe quasi a strisciare, per proseguire
nel percorso del sentiero.
Ci ritroviamo, così, sul lato opposto della Torcia, che sembra
incurvarsi minacciosa sopra la nostra testa, a sinistra. Seguendo la
traccia di sentiero, passiamo a sinistra del Murex Pecten ed a destra
di una baracca di lamiera, con un curioso cartello di pericolo: “Fate
attenzione, ci sono le api agli arresti domiciliari”. Lungi da
noi l’intento di liberarle! Appena oltre, ci intercetta una traccia
che sale da sinistra (parte dalla strada asfaltata, più a valle
rispetto al parcheggio dove abbiamo lasciato l’automobile). Pieghiamo
poi destra, passando a destra del Masso delle Crepe e dello Scivolo.
Quest’ultimo masso, in particolare, colpisce per l’impressionante
regolarità della parete liscia che guarda al sentiero: si fatica
a pensare che siano state le forze della natura, e non la mano dell’uomo,
a levigare quella parete. Vicino al masso troviamo anche un cartello-segnavia
in legno, con due bande rosse verticali intervallate da una banda senza
colore: altri cartelli come questo ci accompagneranno lungo il sentiero.
Superato il masso, vediamo davanti a noi cinque altri personaggi di
questo luogo mitico: il loro nome è, da sinistra, Il Grande Strapiombo,
Yahozna, Il Cuneo, Pianengo Stone (più in alto) e Clitorex (appena
sotto). Dopo una svolta a sinistra ed una successiva
a destra, attraversiamo la stretta porta formata dai massi del Cuneo
e di Clitorex, piegando, poi, a destra: passiamo, così, sotto
il minaccioso tetto del Pianengo Stone e troviamo una corda fissa che
ci aiuta a superare una breve placca, peraltro piuttosto facile. Oltre
la placca, proseguiamo per un tratto a destra, per poi volgere a sinistra,
seguendo una freccia rossa (troviamo sul sentiero anche questo tipo
di indicazioni) ed impegnare una serie di tornantini. La traccia, in
questo tratto, è buona, e passa a sinistra dell’elegante
e slanciato profilo della Torre.
Seguendo alcuni bolli rossi attraversiamo, poi, una seconda porta, uscendo
ad una pianetta dove le indicazioni non ci aiutano: l’impressione
è che si debba salire con una certa fatica ad un corridoio superiore
piegando poi a sinistra; in realtà dobbiamo proseguire diritti,
verso destra, senza salire, e sfruttare, poi, uno stretto corridoio,
delimitato, a sinistra, da una grande placca, raggiungendo uno strappetto
finale che ci porta ad un bivio, segnalato da due cartelli su un ramo
che si biforca.
Il sentiero di destra, che scende, verrà utilizzato per il ritorno;
per ora prendiamo a sinistra, salendo ed attraversando una nuova e più
ampia porta fra due enormi massi, che appartengono al complesso denominato
Sassi delle Capre. Superata la porta, ci ritroviamo in una sorta di
largo corridoio, sul quale la traccia sale, verso sinistra, raggiungendo
subito il piede di un’enorme e liscia parete grigia, denominata
(questa volta senza eccessiva fantasia) il Grande Grigio: la si individua
già bene dal parcheggio. Il sentiero, svoltando a destra, ne
segue il piede e poi, piegando a sinistra, lo aggira sulla destra, portandoci
immediatamente a monte della parete, ad una sorta di modesto pianoro
sommatale.
È questo il punto più alto del sentiero. Avanzando di
qualche passo sul pianoro (ma facendo attenzione a non sporgersi sullo
strapiombo!) possiamo godere di un bel colpo d’occhio su buona
parte del percorso. In particolare la Preda di Remenno, vista da qui,
mostra le sue dimensioni decisamente maggiori rispetto a tutti gli altri
massi. Ottimo è il colpo d’occhio anche sull’intera
piana, dalla Zocca a S. Martino. A monte di S. Martino, infine, si impone
quello che è forse lo scenario più caratteristico dell’intera
Val Masino, una sorta di compendio della sua verticalità, la
cima di Cavalcorto e, alla sua destra, i pizzi del Ferro (sciöma dò fèr). La quota è,
approssimativamente, di 1000 metri (abbiamo superato poco più
di 160 metri di dislivello in circa 35-40 minuti di cammino).
La traccia sembra proseguire sul lato opposto del Grande Grigio, scendendo
in diagonale (il primo tratto è abbastanza marcato, poi si fa
meno evidente, per tornare visibile ancora più in basso): ed
in effetti si tratta di un sentiero che scende in diagonale, supera
una fascia di massi ed un valloncello e termina alla strada asfaltata,
appena sopra il punto di atterraggio degli elicotteri (riconoscibile
per la grande “H”). Noi non torniamo, però, per questa
via, ma ridiscendiamo al bivio appena sotto i Sassi delle Capre, al
quale prendiamo a sinistra, proseguendo nella discesa. La traccia, ben
marcata, scende per un tratto a sinistra, propone un paio di tornantini
e riprende a scendere a sinistra, passando fra la Tartaruga, a sinistra,
e il Sasso del Ranocchio, a destra.
Poi
un cartello ci segnala una decisa svolta a destra, che porta a passare
sotto la parete strapiombante del Sasso del Ranocchio, alla nostra destra.
Scendendo sempre verso destra, raggiungiamo un cartello con la scritta
“Lucciole”: ci troviamo, infatti, ai piedi dell’Albero
delle Lucciole. Un breve tratto a destra ci porta ad una sorta di balconcino
erboso, dal quale scendiamo piegando a sinistra e passando fra il Sasso
della polenta, a sinistra, e l’Angolo Spettrale, a destra, prima
di intercettare il sentiero che sale da sinistra, seguendo il perimetro
della Preda di Remenno.
Eccoci, finalmente, al vero re di questa zona, che si innalza di fronte
al nostro sguardo in tutta la sua imponenza. Seguendo per un breve tratto
il sentiero verso sinistra, ci ritroviamo alla pianetta adagiata ai
piedi della sua parete occidentale, la più facile via d’accesso
alla sommità della Preda. Qui possiamo osservare una serie di
salinature, che vennero praticate fin da tempi remoti per consentire
ai valligiani di raggiungere la sommità del monolite. Non per
sport, tuttavia, ma per necessità, la severa necessità
che imponeva di sfruttare ogni metro quadro possibile di terreno da
sfalcio, in quella durissima economia di sussistenza che caratterizzò
per secoli la vita della gente di Val Masino. I valligiani salivano,
cioè, sulla sommità per falciarne il prato. Una salita
non certo semplice: l’escursionista privo di pratica di arrampicata
la troverà semplicemente insormontabile!
Torniamo, ora, sui nostri passi e scendiamo per il sentiero principale
fino ai prati che si stendono sotto la parete meridionale,
dove spesso potremo osservare gli amanti dell’arrampicata tutti
concentrati nel compito di scovare appigli per guadagnare metro su metro.
Attraversato un rusceletto, lasciamo a sinistra una cappelletta e proseguiamo
nella discesa verso destra, su una ben marcata mulattiera lastricata.
Si tratta della cosiddetta Via Asburgica, ampliata durante la dominazione
della Casa d’Austria nell’Ottocento, sulla base di una precedente
via di origine probabilmente medievale. Sulla medesima via, a ridosso della Preda, nel punto di stretta fra la préda medesima ed il masso denominato préda penéna, vediamo la cappelletta denominata "ciancèt da préda da la fò", costruita da un antenato della famiglia Cotta di San Martino. La discesa ci fa passare a destra
di un ultimo gigante, la cui mole si apprezza soprattutto dal parcheggio
nel quale abbiamo lasciato l’automobile, e che forse non ha ricevuto
adeguata giustizia dal poco poetico nome di Ano (a meno che esso si
riferisca all’avverbio greco che significa “sopra”).
In breve ci ritroviamo, quindi, al punto di partenza, dopo aver percorso
il sentiero in circa un’ora, o qualcosa in più. Portiamoci, infine, per completare la conoscenza della préda, sul suo lato settentrionale, dove vedremo quel poco che resta di una seconda cappelletta, il ciancèt da prèda da la inch o ciancèt di dè la tór, fatta costruire, appunto, dalla famiglia Della Torre (si è salvato solo parte del dipinto, che sfrutta la parete stessa della préda).
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