ESCURSIONI IN VAL TARTANO; GOOGLE MAP

Di storie e leggende, in una comunità tanto viva e ricca di storia e tradizioni, qual è quella della Val di Tartano, se ne raccontano davvero tante. All’insegna del sorriso e della paura. Il sorriso, innanzitutto. Merita di venir scelto, fra molti, un aneddoto che ha molto da insegnare sulla mentalità e gli orizzonti della gente di Val Tartano.
Non bisogna credere, infatti, che abitare nella stessa valle significhi condividere gli stessi orizzonti o avere una sola e monolitica identità. Anzi. Gli abitanti di Campo Tartano sono sempre stati divisi da una fiera rivalità da quelli di Tartano. Rivalità che ebbe, nel 1896, il suo momento culminante: in quell'anno, infatti, per iniziativa dell'onorevole Marcora gli uffici del municipio furono spostati da Campo, precedente centro amministrativo, a Tartano. La notte prima del trasloco, però, ignoti, mai scoperti, forzarono il municipio di Campo, bruciando in un prato vicino i documenti anagrafici e di altra natura.
Gli abitanti di Tartano, comunque, da allora si considerarono ancor più i signori della valle, posti come sono nel suo cuore, e con più gusto si rivolsero a quelli di Campo talora anche con toni di scherno, motteggiandoli con la litania "Camparèi, màia pulénta e ravèi", cioè "Camparelli, mangia polenta e rape", con riferimento alla rapa, che a Campo veniva coltivata in molti fondi. I Camparèi non ci stavano a fare da subalterni, e sostenevano che la loro maggiore vicinanza al fondovalle valtellinese li aveva sempre resi più aperti e svegli. Per questo hanno tenacemente alimentato il luogo comune che vuole i Tartanöö, cioè gli abitanti di Tartano, piuttosto sciocchi, primitivi ed ingenui.
Ed a chi non vuole saperne di luoghi comuni, raccontano ancora l’episodio, verissimo, di quel tale Tartanöl che non aveva mai visto altro, in tutta la sua vita, se non Tartano e le sue contrade vicine. Gli capitò, un giorno, di doversi recare a Campo. Quando giunse al borgo rivale, gli si aprì innanzi agli occhi quel superbo panorama per il quale Campo è giustamente famosa: la bassa Valtellina, con i suoi paesi ben più grandi di Tartano, e poi quel bel lago, laggiù sul fondo, e, ancora, tutte quelle montagne, sullo sfondo, di cui non si riusciva neppure a vedere la fine. Rimase a bocca aperta per un bel po’, poi, sotto gli occhi divertiti del Camparèi, cui questo scenario era ben più familiare, si cavò dal capo il cappello, e lo scagliò, con tutta la forza che aveva, lontano,esclamando: “Fèrmet, capèl, che de munt tu n’èe vedüü asée”, cioè: “Fermati, cappello, che di mondo ne hai visto a sufficienza!”. Come dire: dopo aver visto un mondo così grande, che ci si può aspettare di più? Lui, che era da sempre abituato alla vista di un altro “munt”, cioè del monte, del paese natìo, dell’alpeggio, di fronte a quel vasto ed inaspettato “munt”, il mondo, era rimasto stupefatto ed appagato, quasi che la bassa Valtellina fosse un mondo così grande da soddisfare la più grande curiosità possibile. E i Camparèi ridono ancora della sua ingenuità. Perché loro sono arguti.
Ed il più arguto ed, insieme, bonario di tutti è quel personaggio davvero unico che risponde al nome del signor Pacifico. Di nome e di fatto. Un signore che aveva una filosofia tutta sua della vita, pur non avendo mai studiato filosofia. Lo mostrò bene a tutti quel giorno che, stanco della cima della Zocca, che gli nascondeva per tante ore la luce del sole, si armò di pala e piccone e cominciò a salire il monte per spianarla. Lo videro partire in molti, quella mattina, e dissero: “Il signor Pacifico va in guerra, va in guerra contro la montagna”. E rimasero ad attendere il suo ritorno, curiosi. Il nostro eroe, passo dopo passo, si inerpicava su per quel sentiero che porta all’alpe d’Assola e poi alla cime del monte.
Man mano che lui saliva, però, aumentava anche la fatica. E poi vedeva che la montagna era più grande di quanto avesse immaginato a guardarla da Campo. Dopo aver cavato quattro o cinque volte il fazzoletto dalla tasca per tergersi la fronte dal sudore, pensò: “Non ce la farò mai a spianare la montagna: me la devo tenere così com’è”. Eì se ne tornò indietro. Gli chiesero, i suoi amici: “Oh Pacifico, com’è che la montagna è ancora là?” “Là montagna è sempre stata là, e là resta”. Così espresse la sua filosofia su quella montagna, ed agli occhi di tutti i Camparèi non fece la figura di sciocco, ma di saggio.
Un’altra volta se ne stava tornando a Campo, per la mulattiera della Val Fabiolo, dopo essere sceso alla Sirta, ed incontrò due belle signorine, due maestre che scendevano dopo aver fatto scuola a Campo. Erano l’inizio di ottobre, il mese che porta i primi giorni di scuola e le prime spruzzate di neve. Il nostro eroe era già brizzolato, ed una delle due maestre, con aria di sufficienza un po’ canzonatoria, al vederlo, esclamò: “Eh, ce n’è già di neve sui monti!”, alludendo ai suoi molti capelli bianchi. E quello, pronto: “Certo che c’è neve: le vacche stan già scendendo al piano”. Così rispose il signor Pacifico, e, da allora, nessuno osò più prenderlo in giro.
Meno arguto, ma non meno divertente è il protagonista di un aneddoto davvero...gustoso. Fra i cibi più gustosi della cucina contadina vanno annoverati i "buci", cioè le pallottole di polenta con del formaggio in mezzo, che venivano abbrustolite fino a far fondere il formaggio. Ebbene, si racconta che un emigrante, che doveva affrontare un lungo e costoso viaggio in nave per raggiungere l'America, decise di risparmiare sulle spese portandosi con sé una cospicua scorta di "buci". Rifiutava, quindi, il cibo servito sulla nave, e si mangiava una "bùcia" al giorno. Ma alla fine, ebbe l'amara sorpresa, che condensò in una frase passata alla storia: "E màia buci, e màia buci, àla fìi hoo pagàa cumè i otre" ("E mangia palline, e mangia palline, alla fine ho pagato come gli altri").
Dal sorriso alla paura, o meglio, ai pagüri, le storie di paura che si raccontavano la sera, quando ci si trovava nella stalla tutti insieme, dopo aver recitato il Rosario. Anche qui c’è solo l’imbarazzo della scelta.

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Dietro ogni storia c’era un insegnamento da meditare e conservare. Quando, per esempio, di un tipo si dice che “El ghe ciàs i scusài”, cioè gli piace far la corte alle donne, non gli si fa un complimento, perché da questo vizio non possono venire che guai, ed un detto ammonisce: “Vàrdet dai scusài”. Questa storia lo dimostra (la troviamo in "Streghe in Valtellina", di Pio Rajna - Palermo, Torino, Clausen, 1899, pp. 526-528 - e in "Le leggende del diavolo", di Vittorio Di Giacomo - Cappelli Editore, 1957). Correva l’anno 1897, quando un tale signor Mainetti, che viveva solo, a Tartano, una sera, di primavera, mentre si scaldava davanti al focolare, si vide di fronte, apparsa non si sa come, una donna che nessuno aveva mai visto. Una gran bella donna, gli parve, tanto che, superato il primo attimo di stupore, cominciò a chiacchierare con lei, con grande familiarità, come se la conoscesse da sempre. Passò, così la serata, e, ad una cert’ora, la donna, misteriosamente, com’era comparsa, sparì. Il signor Mainetti rimase un po’ male, ma alla fine se ne fece una ragione, e non ci pensò più.
Qualche tempo dopo gli avvenne di dover scendere al fondovalle, per recarsi ad Ardenno. Prese, allora, la mulattiera che porta a Campo, ed poi quella che, passando per la Val Fabiolo, scende alla Sirta. Una mulattiera tanto larga e comoda che non ci si può sbagliare, neanche di notte. Ed era pieno giorno. Però lui, quel giorno, non era lui, si sentiva strano. E si trovò, senza sapere come, fuori strada, su un sentiero che non conosceva. Le sorprese non finivano qui: all’improvviso, ecco, di nuovo, quella donna, più bella che mai. E di nuovo si rivolse a lui, questa volta, però, con un atteggiamento sfacciato, con certi ammiccamenti che non sono degni di una donna perbene. E lui, che pure non era insensibile al fascino delle sottane, ne rimase infastidito, e preferì tirare diritto. Ma non fece molti passi, che una nuova scena inattesa lo sorprese: tre cani selvatici, neri come la pece, si fronteggiavano, ringhiando, proprio davanti a lui, sul sentiero. Poi balzarono l’uno addosso all’altro, azzannandosi furiosamente. Fece un balzo all’indietro, per la paura, si volse di scatto e cominciò a correre in direzione contraria, ma, nella fretta di scappare, inciampò nella radice di un albero, e cadde pesantemente a terra. Si rialzò, dopo qualche istante, mezzo stordito e tutto dolorante.
Ma la caduta era stata provvidenziale, perché lo aveva liberato da quell’innaturale torpore che si era impadronito di lui e che lo aveva portato fuori strada. La mente era di nuovo lucida, e comprese quello che era accaduto: la donna scostumata che aveva incontrato due volte era, in realtà, una strega, che, con un qualche maleficio, lo aveva stregato. Si pentì, allora, di non averla subito cacciata di casa, la prima volta, e, mentre, ritrovata la retta via, scendeva verso la Sirta, si ripromise di guardarsi, per il futuro, dal fascino delle donne.
C’è chi incontra le streghe e c’è chi , ancora più sfortunato, incontra il loro oscuro signore, il diavolo. È quel che capitò ad un bambino disubbidiente di Campo, che non voleva mai dire le preghiere, e neppure fare il segno della croce, nonostante la madre lo ammonisse ricordandogli che i bambini come lui se li portava via il diavolo. Un giorno la minaccia diventò realtà: mentre la madre, infatti, era intenta a mungere le mucche, udì il grido del figlio, che la supplicava di accorrere, perché il diavolo lo stava prendendo. Allora lasciò tutto, uscì dalla stalla e corse verso l’uscio di casa, proprio mentre stava uscendo il diavolo, che si era preso il bambino e se lo stava portando via. Non si perse, però, d’animo: sapeva bene, perché l’aveva sentito tante volte, fin da bambina, al catechismo, che il segno della croce può mettere in fuga il diavolo, ed allora gridò al figlio: “Fai il segno della croce, fai il segno della croce!”. Questa volta il bambino non si fece pregare, portò la mano alla fronte e si fece il segno della croce. Il diavolo lo lasciò immediatamente, e scomparve in un istante, così come era apparso. La madre potè, quindi, riabbracciarlo, e dal quel giorno non ebbe più motivo di lamentarsi di lui, perché non dimenticò più di dire le preghiere, come ogni buon bambino deve fare.
Sempre a Campo Tartano viveva un altro bambino, di nome Stefano, neppure lui campione di obbedienza. I suoi genitori gli avevano detto più volte di non andare con gli estranei, ma, come accade qualche volta, queste parole gli erano entrate da un orecchio ed uscite dall’altro. Una sera la madre gli chiese di andare a prendere il sale in paese, raccomandandogli di fare presto. Abitavano nel bosco vicino al paese, e si stava facendo notte. Il bambino partì subito, ed incontrò, strada facendo, un signore, mai visto, che gli chiese, gentilmente, dove fosse diretto. “Vado in paese a prendere il sale”, rispose Stefano, al che l’uomo, sempre molto gentile, lo invitò a seguirlo a casa sua, promettendo che gli avrebbe dato lui il sale. Il bambino, incurante degli ammonimenti dei genitori, lo seguì, ma, appena giunto alla casa, scoprì che non si trattava di un gentile signore, bensì di un malvagio, che lo rinchiuse nel porcile, insieme ai maiali.
Stefano pianse, gridò, strepitò, ma nessuno poteva udirlo. Resosi conto che si doveva arrangiare da solo, cominciò a pensare a come fuggire, perché aveva capito che avrebbe rischiato, altrimenti, di fare la fine dei maiali. Scorse, allora, in un angolo, un chiodo, e, lì vicino, un sasso. Usando il sasso per battere il chiodo, cominciò, con pazienza, a scalfire la parete di legno del porcile, aprendovi, alla fine, un varco sufficiente per sgusciar fuori e fuggire. Fu fortunato, perché riuscì a ritrovare la strada di casa. Quanto vi giunse, trovò i suoi genitori angosciati, che lo riabbracciarono piangendo di gioia. Udito il suo racconto, la madre riuscì a dire, fra i singhiozzi: “Hai visto quel che capita a non dar retta ai genitori ed a seguire gli sconosciuti?”
Non tutti i diavoli, però, erano così minacciosi e malvagi da voler rapire bambini. Esisteva anche una categoria di diavoli burloni. Il diavoletto burlone veniva chiamato "buìi russ", "buìi alégru"o "diavulìi russ": a lui venivano attribuiti i dispetti più disparati, come far sparire i panni del bucato, disperdere pecore e capre o legare la testa di due mucche ad una medesima catena.

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Campo sembra essere un paesino particolarmente ricco di storie di paura. Forse per la duplice vicinanza di due luoghi che stimolano la fantasia nei suoi voli sulle orme degli inquietanti simboli del male. La paurosa forra del Tartano, innanzitutto, è là, poco a monte, rispetto al paese, pronta a vomitare i suoi oscuri abitatori. Si racconta, per esempio (cfr. Aurelio Garobbio, "Montagne e valli incantate", Ed. Cappelli di Rocca S. Casciano, 1963, pg. 145), che dalla forra, di tanto in tanto, venga fuori un cavaliere nero, senza volto, che lancia il suo cavallo nero, dagli occhi che sprigionano scintille, in una corsa selvaggia, seguito dai latrati orrendi di una muta di cani nerissimi e feroci. E allora quelli che si trovano sulla strada del nero cavaliere debbono essere pronti a scansarsi, altrimenti vengono sbranati dai cani o trascinati via da quell’essere demoniaco, nei recessi più oscuri della forra del Tartano.
Nella forra del Tartano scompaiono anche nove misteriosi fantasmi che, con le vesti da frate, si mostrano, come si racconta, nelle sere serene e gelide del giorno dei morti, al rintocco dell’Ave Maria, quando già le ombre si sono impadronite della valle. Dicono (lo leggiamo nel volume di Giambattista Marchesi "In Valtellina - Costumi, leggende, tradizioni", Clausen, Palermo, 1898, pg. 424) che scendano dal monte, si fermino sulle acque del torrente e poi sprofondino non si sa bene dove.
Era un fantasma anche quell’anima malvagia che infestava il ponte di Trona, che un tempo era gettato fra le rocce dell’una e dell’altra sponda del Tartano. Un fantasma, però, che non faceva davvero del male ai viandanti, ma, sul far della sera, si limitava a dar loro fastidio, con certe urla strane e sinistre; quando si faceva vedere, si lanciava in piroette, buffonerie, frizzi e lazzi, che infastidivano non poco i viandanti che portavano, spesso pesi gravosi sulle spalle.
Ma la valle degli spiriti per eccellenza è la Val Fabiolo, l’ombrosa valle la cui sommità si affaccia alla piana di Campo, proprio laddove una cappelletta sembra essere stata collocata per sbarrare la strada ai fantasmi che ne volessero venir fuori. Diverse storie si raccontano su questi spiriti. La più conosciuta ha come involontario protagonista un tal Gaspare, di Somvalle (il gruppo di case che, ancora in comune di
Forcola
, è posto a ridosso di Campo Tàrtano, alla sommità, appunto, della val Fabiòlo), che tornava a casa dopo essersi recato a Biòlo. Imboccata sul far della sera, a Sirta, la mulattiera, e superata la gola terminale della valle, giunse al suo primo ponticello (detto “d’inem la val”, cioè all’inizio della valle), dove dalla mulattiera si stacca, sulla sinistra, un sentiero che, inerpicandosi sul fianco dirupato della valle, conduce a Lavisòlo (gruppo di case posto sul bel poggio che sovrasta la Caurga, in una posizione panoramica che guarda alla piana di Ardenno e della Selvetta).
Lì si accorse che, proprio dal sentiero per Lavisòlo, giungeva una processione inquietante di figure incappucciate, che procedevano silenziose, reggendo una candela. Fu tanto lo spavento, che non riuscì neppure a muoversi, cosicché la processione lo raggiunse ed uno degli incappucciati, senza mostrare il suo volto, gli chiese di reggere anche lui una candela e di seguirlo. Gaspare, sempre in preda al terrore, si incamminò al seguito di quel sinistro corteo, su su, per la val Fabiòlo, fino al Gisöl dul zapel de val, cioè alla cappelletta posta sul limite della sella erbosa posta alla sua sommità, dove la processione si diresse verso destra, in direzione della chiesa di Campo, che si trova oltre il cimitero. Giunto alla chiesa, si accorse non si sa bene come, che la processione non c’era più: era rimasto lui solo, con la candela in mano. Corse, quindi, a bussare alla porta del parroco, per raccontargli l’accaduto, e fu allora che si avvide, con raccapriccio, che ciò che reggeva non era una candela, ma una tibia.

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All'appello degli esseri che popolano l'immaginario della paura manca un protagonista, la strega. Ed allora torniamo in Val di Tartano, e domandiamoci: ce n'erano di streghe in questa valle? Certo, un po’ come dappertutto. Le più note sono due. La “strìa déla Fopa”, cioè la strega della Foppa, era un fantasma che si aggirava, nelle notti più cupe, il località Foppa. Strega da viva, questa donna lo era rimasta anche da morta, e si divertiva a combinare gli scherzi più vari e bizzarri ai malcapitati che si trovassero a passare per la Foppa dopo il suono dell’Ave Maria della sera (i due rintocchi dell’Ave Maria, quello della sera, alle sei, e quello della mattina, alla medesima ora, segnavano i confini temporali entro i quali doveva restringersi l’azione delle forze del male), ma soprattutto intorno alla mezzanotte, l’ora più pericolosa. In realtà non si trattava di una strega delle peggiori. Si era acquisita la nomea di strega (non sappiamo se le fu data anche regolare patente) non tanto per azioni malvagie ai danni di campi, bestie ed uomini (questo facevano le streghe più cattive), ma per la sua sorprendente capacità di predire il futuro che, unita alla bizzarria del carattere, ne faceva un tipo singolare, inquietante, decisamente fuori dalle righe.
Ben diversa la figura di un’altra strega, la “strìa déla Corna”. La sua storia è stata raccontata da una ragazza di Tartano, che serviva come cameriera nella casa di una distinta signora milanese. La sera del 27 settembre del 1885 la signora, come soleva fare altre volte, dopo essersi fatta servire la cena, le annunciò che si sarebbe ritirata nella sua stanza e che non voleva essere disturbata per nessun motivo. Così disse, con tono perentorio, e si rinchiuse nella stanza. La ragazza si apprestò, quindi, a sbrigare le consuete faccende, sparecchiare la tavola, lavare le stoviglie, pulire la stanza da pranzo. Ma quella sera era particolarmente inquieta. Il tempo era brutto, anzi pessimo. Su Milano l’acqua veniva giù a catinelle, lampi sinistri squarciavano le ombre addensate sulle case della città, seguiti da tuoni che squassavano l’aria e facevano vibrare i vetri delle finestre. Terminate le faccende domestiche, la ragazza, che era troppo inquieta per prendere sonno, si attardò al caminetto. Non si sapeva decidere ad andarsene a letto. Pensava alla sua casa lontana, alla sua famiglia, ed i volti cari che emergevano dal tesoro dei suoi ricordi la confortavano un po’ in quella triste e tetra solitudine. Così immersa nei pensieri e nelle malinconie, non si accorse che l’ora si era fatta davvero tarda: erano ormai le due di notte passate. Si riscosse, guardò il caminetto, dove anche la brace era ormai quasi interamente spenta, e si alzò per coricarsi.
Fu allora che sentì rumori strani provenire dalla camera della sua signora. Rumori non forti, ma chiari ed inspiegabili. Che la signora stesse poco bene? Che qualcuno si fosse introdotto furtivamente nella camera per derubarla? Rimase ferma, trattenendo il fiato: non sapeva che fare. Poi, ad un rumore un po’ più forte, un tonfo sordo, come di un oggetto che cade a terra, si decise: doveva andare a vedere. Salì tremando le scale, si accostò alla porta, esitò di nuovo, stette in ascolto. Per qualche attimo non si sentì più nulla, poi nuovi rumori, come un tramestio. Allora raccolse tutto il coraggio di cui era capace, accostò la mano alla maniglia, la abbassò e, con un colpo deciso, spinse la porta. Questa non era chiusa a chiave e subito si aprì, svelando ai suoi occhi una scena di cui non si sarebbe più dimenticata. Nella stanza non vi era altra persona oltre alla signora. Ma questa non se ne stava coricata nel suo letto, bensì appoggiata alle sue sponde, ansimante, scarmigliata, fradicia, infangata, con un vestitaccio da povera mendicante: cercava, con fatica, di togliersi uno stivalone imbrattato di fango; l’altro giaceva già riverso sul pavimento. Non sembrò neppure sorpresa. Distolse lo sguardo dallo stivale che sembrava incollato al suo piede, lo posò sulla giovane esterrefatta e, con un lampo gelido, sibilò: “Te l’avevo detto di startene fuori da questa camera”. Poi, quasi sogghignando, aggiunse: “Questa notte sono stata proprio dalle tue parti. Ho fatto andar fuori il Tartano.” E riprese ad ingaggiare la sua battaglia con lo stivale riottoso.
Corse via, precipitosamente, la ragazza. Lasciò quella casa la notte stessa, tornò in Val Tartano, e qui capì. La notte fra il 27 ed il 28 settembre del 1885 la valle era stata sconvolta da una terribile alluvione. Nella contrada di Valle, all’imbocco della Val Lunga, i contadini, osservando terrorizzati il versante che dall’alpe Gavet scende al torrente, avevano visto un’orribile strega scendere a capofitto a cavalcioni di un enorme masso. Per fortuna non era riuscita a scagliarlo contro le case, come, con tutta probabilità, avrebbe voluto fare, perché il masso si era piantato nel pantano che il versante montuoso aveva scaricato a valle. E lì è rimasto. Lo si può vedere ancora, dalle case di Valle, sul lato opposto, in mezzo ai prati di Gavedo, semisommerso, vicino ad un piccolo manufatto in cemento: viene ancora oggi chiamato “corna déla strìa”. La ragazza raccontò quanto era successo, ed i valligiani fecero due più due e compresero: l’insospettabile signora milanese era la maliarda che cavalcava furiosamente il grande masso. Da successive indagini si seppe che la strega di Milano era venuta in Valtellina per partecipare ad un convegno di streghe, nel quale queste malefiche avevano deciso di scatenare gli elementi contro la Val di Tartano. Questo accadeva nell’anno di grazia 1885. Purtroppo quell'alluvione non fu priva di vittime: una cascina in contrada Pila venne travolta dal Tartano, che si portò via le cinque donne che lì vivevano. Iniziò, inoltre, proprio con quella alluvione la devastazione del conoide del Tartano, ad est di Talamona, ancora oggi ben visibile a chi percorra la ss. 38 da Morbegno verso Sondrio.

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Fra gli incontri notturni indesiderati in Val di Tartano non ci sono, però, solamente diavoli e streghe. Se vi capita di essere sorpresi dalle tenebre in Val dei Lupi, potete aspettarvi di udire suoni sinistri, come di un battere monotono e disperato di mazza contro un masso. E qui di massi ve ne sono molti: sono i resti degli scavi di una vena di siderite (ferro) che venne sfruttata nei secoli scorsi, fino alla fine del 1700, quando venne abbandonata perché ormai non era più redditizia, anche perché la legna per i forni, a causa del progressivo disboscamento, ormai scarseggiava. Di massi, dunque, ce ne sono tanti. E gli osservatori più attenti dicono che, tornando a distanza di tempo, si può notare come i più grandi tendano a farsi più piccoli, come se qualcuno si fosse messo d’impegno a ridurli in pezzi. Torniamo ai nostri vagabondaggi notturni: il battere notturno di una mazza si ode solo nelle notti più cupe, quando il buio è pesto e la mezzanotte incombe con le sue segrete paure su ogni vivente. Di cosa si tratta? Per saperlo dobbiamo fare un passo indietro di qualche secolo.
Abitava, fra Cinquecento e Seicento, a Fusine un uomo noto per la sua probità e chiamato Rigadìn. Si vantava di non aver mai detto una bugia in vita sua e di non aver mai frodato nessuno. Oltre che per la sua probità, era noto per l’ottima conoscenza del territorio della Valmadre. Essendo sorti dissidi fra le comunità delle Fusine e di Colorina circa l’esatta ubicazione dei confini fra i due territori, si decise di eleggerlo come arbitro, certi che non avrebbe fatto parzialità. Così, con una serie di sopralluoghi, indicò i punti di riferimento dei confini, perché venissero segnati con nettezza. Le sue indicazioni parvero troppo favorevoli alle rivendicazioni della comunità delle Fusine, ma, di fronte alle sue parole perentorie, “Giuro che i miei piedi poggiano su terra della comunità delle Fusine”, nessuno osò porle in dubbio. Alla fine i confini vennero tracciati e trascritti nei documenti.
Ma, prima di morire, sembra che il Rigadìn abbia sentito il bisogno di sgravarsi di un peso sulla coscienza, confessandolo a non sappiamo bene chi. Fu così che si seppe della sua astuzia fraudolenta: prima dei sopralluoghi, infatti, aveva messo all’interno delle sue scarpe una bella manciata di terra di Fusine, e così, a rigor di termini, aveva sempre detto il vero, perché i suoi piedi posavano sulla terra delle Fusine, anche se le scarpe calpestavano il territorio di Colorina. Le conseguenze di questa astuzia fraudolenta non toccarono i confini comunali, che, tracciati com’erano, non furono più modificati, ma la sorte del Rigadìn. Dopo la morte, ebbe un bel protestare che lui di bugie non ne aveva mai dette: il Signore non lo volle in Paradiso, e neppure in Purgatorio. Ma neanche il diavolo lo voleva: nella sostanza aveva sì truffato gli abitanti di Colorina, ma, a voler essere pignoli pignoli, di bugie non ne aveva dette, ed allora in quale parte dell’Inferno lo si doveva relegare? Così la sua sorte fu quella comune ad altre anime invise a Dio ed all’inimico suo, come si soleva dire: i famosi “confinati” (“cunfinàa”), condannati in eterno ad una pena da scontare non all’inferno, ma confinati, appunto, nei luoghi più solitari e tetri delle nostre montagna. Ecco spiegato il battere insistente di mazza su pietra: è il Rigadìn che sconta la sua pena.
 
Una nota linguistica, per concludere: Rigadìn o Rigadìi suona un po’ come “riga drìzz”, cioè “riga diritto”; in realtà il termine "rigadìi", nel dialetto della Val di Tartano (come si evince dall'ottimo dizionario di Giovanni Bianchini), significa tessuto di lana a strisce rosse, grigie e nere, utilizzato per le sottante delle donne, detto anche "gagiulìi"; è interessante notare che l'espressione metaforica "fa rigadìi" significa comportarsi in modo incoerente e contraddittorio, dar a vedere una cosa e pensarne o farne un'altra, come frequentare la chiesa e comportarsi contro la legge di Dio, come aveva fatto, appunto, il Rigadìi.

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Due piccoli quadretti horror ci sono offerti da altrettante personificazioni infernali della malvagità più atroce. Per farlo, prendiamo a prestito le parole di Camillo Gusmeroli, dal suo bel libro "la storia di Tartano" (Tecnostampa, Montagna in Valtellina, 1985):
"La fantasia dei Tartanesi crea le proprie streghe ed i propri stregoni, noi ne elencheremo solo due: lo SCUASC e la PELAROLA.
lo SCUASC: spirito maschile insembiante, quando si impossessava di un individuo, lo opprimeva gradatamente in tutte le parti del corpo fino a stritolarlo.
la PELAROLA: spirito femminile insembiante, ma ciarliero, piluccava le donne a filamenti di carne, particolarmente le filatrici notturne solitarie lasciandovi le ossa spolpate, ben sistemate nella cavagna al posto dei fusi.
"

Come dite? Volete saperne di più su questa Pelaröla? Eccovi accontentati, ma poi non lamentatevi se faticherete a prender sonno per qualche sera.
La “Pelaröla”, dunque, è un'orrenda strega o demone di cui fu vittima, fra le altre, un’anziana povera filatrice; ci racconta questa storia, Giulio Spini. Riportiamo la leggenda trascrivendone il riassunto dall’interessantissimo articolo di Ivan Fassin sul numero 61 (2008) del Bollettino della Società Storica Valtellinese (“Credenze e leggende dell’area orobica valtellinese: un esperimento di interpretazione”).
Una anziana donna era dedita in modo quasi ossessivo alla filatura della lana. Questo la portava a lavorare a lungo nella sera, in cucina al lume di candela, talora anche oltre la mezzanotte. Del resto non c'erano orologi. I familiari, che andavano a letto prima, dalla stanza al piano superiore, la sentivano cantilenare "e fili e fili e mèti i ftis i(n) la cavagna". [cioè: "filo, filo e poi metto i fusi nel canestro].
A volte si svegliavano nella notte, e sempre sentivano la solita cantilena. Ma una notte si svegliarono all'improvviso con una strana sensazione, avendo udito dei rumori strani venire dalla cucina. Allora chiamarono la donna, ma in risposta udirono una voce alterata e sinistra, che diceva "e peli e peli e meti i òs i(n) la cavagna" [come dire: "pelo e pelo e metto le ossa nel canestro"]. Allora si resero conto dell'accaduto: l'anziana filatrice aveva superato la mezzanotte del sabato, e lavorando di domenica era caduta in peccato. Così il diavolo in persona era venuto a prenderla [...].”

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Per stemperare il clima plumbeo di quest'ultima storia, eccone una decisamente divertente. Ne è protagonista un anonimo "famèi", cioè un servitore preso a servizio in una casa di contadini. La trascriviamo da un contributo della Scuola Elementare di Campo Tartano alla bella raccolta “C'era un volta, Vecchie storie e leggende di Valtellina e Valchiavenna” (ed. a cura del Comune di Prata Camportaccio, Sondrio, Bonazzi Grafica, dicembre 1994):
"El gh'era na völta ü giu(v)enòot ch'el scircava da laurà, el girava per ul mu(u)nt e l'ha tru(v)àa da fà ul famèi. Ul patrùu el g'ha fàc vedi ii bel très de fée e pò 'l ghe dìis: sciur patrùu, che bel très de fée! - Nùu mul ciàma mìa fée - el ghe respù(u)nt ul patrùu. - Cumé 'l ciamée? ‑ Mul ciàma "Centomilaerbe" -
Dòpu ei va 'n cà e gh'e glio 'n bèl. tàul. El ghe dìis: - Cumé 'l ciamée? ‑ - Mul ciàma "traversorum" -
Dòpu e gliu mèna intùl invö(ö)lt e gh'è giò tànti lügànek e salàm. - Sciùur patrùu, quàti liigànek e quàci salàm! ‑
- Nùu mui ciàma mìa lügànek e salàm. ‑ - Cumé i ciamée? ‑ - "Angeli" i lügànek e "arcangeli" i salàm. ‑
A la sira la patrùna la fa sö'l fö(ö)k e ul famèi el dìis: - Patrùna che bèl fö(ö)k! Cumé 'l ciamée? ‑ - Mul ciàma "alegria"! -
Arènt al fö(ö)k gh'é na bèla gata. - Cumé 'l ciamée? ‑ - Em la ciàma "donna rampante"! ‑
Quànt l'é scià sira èi va a durmé. Ul famèi el pènsa: "Se mé stoo chilò végni dàa mat". Igliùra el l'ha pensàda bèla! El va a tö i salàm e 'l lügànek e l'impùnta la porta dèla cà cul "traversorum" e in pciö el ghe dà fö(ö)k al fée. Quànt ch'el brüsa bée el se mèt drée a usà: - Sciùur patrùu, la "donna rampante ha portato l'allegria alle centomilaerbe e io me la filo con gli angeli e gli arcangeli!!! -"

Per chi avesse qualche problema con il testo dialettale, ecco la versione in lingua italiana:
"C'era una volta un giovanotto che cercava lavoro, girava per il mondo e trovò occupazione come famiglio. Il padrone gli fece vedere un bel mucchio di fieno e poi lui gli disse: - Signor padrone, che bel mucchio di fieno! ‑ - Noi non lo chiamiamo fieno - gli rispose il padrone.
- Come lo chiamate? ‑ - Noi lo chiamiamo centomila erbe ‑
Dopo andò in casa dove c'èra un bel tavolo. Disse: - Come lo chiamate? ‑ - Lo chiamiamo Traversorum. ‑
Poi lo condusse in cantina dove c'erano tante salsicce e salami. - Signor padrone quante salsicce e quanti salami! ‑ - Noi non li chiamiamo salsicce e salami. ‑ - Come li chiamate? ‑ - Angeli le salsicce e arcangeli i salami. ‑
Alla sera la padrona accese il fuoco e il ragazzo le disse: - Padrona che bel fuoco! Come lo chiamate? ‑ - Lo chiamiamo allegria! -
Davanti al fuoco c'era una bella gatta. - Come la chiamate? ‑ - La chiamiamo donna rampante! ‑
Quando è sera vanno a dormire. Il famiglio pensa "Se io sto qui divento matto!" Allora l'ha pensata bella! Va a prendere i salami e le salsicce e ferma la porta di casa con il tavolo e dà fuoco al fieno. Quando brucia bene si mette a gridare: - Signor padrone, la donna rampante ha portato l'allegria alle centomilaerbe e io me la filo con gli angeli e gli arcangeli!!!"

Chiudiamo lasciando spazio agli animali, fedeli collaboratori dall'alba dei tempi degli uomini. Animali che in Val di Tartano sono spesso fuori del comune e meritevoli di menzione per le loro caratteristiche curiose. lasciamo la parola al Camillo Gusmeroli, citando dal suo bel volume "Storia di Tartano" (Montagna in Valtellina, 1985):
"BATAI = mulo del casato Pila, testardo e spiritato che si caricava e scaricava da solo, scompariva ed appariva, si slegava e legava a sua volontà, usciva e rientrava in stalla... ULIVA = vacca polaggina che, subodorando la data di monticazione dell'alpe Scala di Tartano, partiva nottetempo dalla propria stalla di Polaggia e si presentava, nelle prime ore del mattino, davanti a quella dei Fratelli Giovanni e Celeste Bulanti, in località Prati Ules di Tartano, caricatori di detta alpe. TESTANERA O CINOSO = maialino della famiglia Camillo del 1955. Seguiva ogni spostamento dei componenti sia nel prato che nel bosco dell'Arale. Se l'ora del suo pasto veniva procrastinata di qualche minuto, saliva le scale del primo piano e si presentava alla porta della cucina, all'invito: - Vai che te ne porto subito, scendeva le scale grugnendo affettuosamente ed aspettava tranquillo nel suo angolo consueto. Quando i bambini Giorgio, Beniamino, e Marisa videro nel frigorifero gli zampini di Cinoso, si misero a piangere e non vollero mangiare dette carni... MATOCH = asino ricalcitrante e testardo, non meno dei suoi padroni bergamini dell'Arale: Toni, Giacomo, Caterina. Sta di fatto che volendo far passare l'asino sul ponte della Cesura, formato da solo due legni, e non volendo perchè generalmente hanno paura, passare su detti trabiccoli e non è consigliabile perchè possono infilare gli zoccoli nelle fessure, perdere l'equilibrio e cadere, si unirono tutti e tre per fargli guadagnare l'altra sponda, ma finirono a lasciar precipitare il quadrupede nel torrente; sentiamo l'accaduto dalla viva voce bergamina del congiunto Bernardo presente al fatto: Toni tireva, Jacum punceva, Caterini ghe dava del legn, ul Matoch l'è burlàt giù."

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